CANTO
DECIMOQUINTO
[Lez.
LVI]
«Ora cen porta l'un
de' duri margini», ecc. Continuasi l'autore al precedente canto, in
quanto nella fine d'esso mostra che gli argini di quel ruscelletto,
il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi vuole giú
discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena
dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l'uno delli
detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due
parti: nella prima discrive l'autore la qualitá del luogo, e
massimamente degli argini sopra li quali andava, la qualitá di
quegli dando, con alcuna dimostrazion d'esempli, ad intendere; nella
seconda dimostra come da una schiera d'anime dannate in quel luogo
guatato fosse, e riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui
della sua fortuna futura lungamente parlasse. E comincia questa
seconda quivi: «Giá eravam dalla selva».
Dice adunque
primieramente: «Ora cen porta l'un de' duri margini». E in quanto
dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare
appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le
navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono,
ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi,
se medesimi portando, andavano su per l'uno de' detti margini. E dice
«l'uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere
due. E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti
mostrato, che ambo le pendici, cioè gli argini o margini del
predetto fiumicello, erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un
dubbio, il quale alcun potrebbe muovere, dicendo: come andavan
costoro sotto lo 'ncendio delle fiamme, le quali continuamente in
quel luogo cadevano? segue e dice: «E 'l fummo del ruscel», cioè
che surgea del ruscello, come veggiamo di molti fiumi e altre acque
fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo fa uggia, la quale,
come nel precedente canto ha detto, ammorta le dette fiamme che sopra
esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l'acqua e gli argini»,
infra li quali s'inchiude. E sono questi argini grotte fatte per
forza alle rive de' fiumi, accioché, crescendo essi, l'acqua non
allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di
questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá,
primieramente dicendo:
«Quale i fiamminghi
tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra poste sopra il mare
Oceano, il quale è tra Fiandra e l'isola d'Inghilterra; «Temendo 'l
fiotto», del mare, «che ver'lor s'avventa», sospinto dall'impeto
del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo schermo», cioè il
riparo, il quale è gli argini altissimi e forti, «perché 'l mar si
fúggia», cioè, poi che percosso ha ne' detti margini, senza piú
venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che il mare
Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il moto della
luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí naturale,
si muove due volte di levante inver'ponente, e altrettante si torna
di ponente inver'levante; e quando di ver'levante viene
inver'ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle
marine a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni
luoghi per molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle
terre espedite, le quali aveva occupate. E questo suo movimento entra
con tanta forza nel mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e
massimamente nella cittá di Vinegia, si
pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»: e questo
è quello del quale l'autore intende qui, e contro al quale dice che
i fiamminghi fanno riparo.
Appresso dimostra
l'autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli argini del detto
fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la Brenta». Padova è
una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il qual fu cittadino di
quella, e Virgilio e altri molti dicono che, dopo la distruzione di
Troia, fu composta da Anténore troiano, il quale, partitosi da
Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di Paflagonia, quivi
dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della contrada gli
antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose la detta
cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una gran
provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova infino
al Friuli, e quella da' suoi eneti, aggiunta una lettera al nome
loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il qual
si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale è
una regione posta nell'Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La qual
contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali non
si risolvono infino a tanto che l'aere non riscalda, del mese di
maggio o all'uscita d'aprile; e allora, risolvendosi, cascano l'acque
di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se
racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi
argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta
la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del
quale v'ha grandissima quantitá. E perciò dice l'autore che i
padovani, cioè quegli del distretto di Padova, fanno simiglianti
schermi che i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e
lor castelli», cioè i campi e' lavorii delle villate e delle
castella, le quali per lo piano di Padova sono; e questo fanno
«Anziché Chiarentana», cioè la neve la quale è in Chiarentana,
«il caldo senta», della state, la quale s'appropinqua. E, questi
due esempli posti. dice che «A tale immagine», cioè similitudine,
«eran fatti quelli», li quali lungo questo fiumicello erano,
«Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí grossi», come
quegli che fanno i fiamminghi e' padovani, «Qual che si fosse, lo
maestro félli», cioè gli fece.
«Giá eravam dalla
selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra ha detto nel
canto decimoterzo; «Tanto, ch'io non avrei visto», cioè veduto,
«dov'era, Per ch'io 'ndietro rivolto mi fossi», a riguardare; e ciò
fu «Quando incontrammo d'anime», dannate, «una schiera», cioè
molte, «Che venien lungo l'argine», sopra'l quale andavamo, «e
ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè nel
crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè
alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè
essendo la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora
avere o dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera
conoscenza delle cose bisognerebbe; «E sí», cioè e cosí,
«ver'noi aguzzavan le ciglia. Come vecchio sartor fa nella «runa»,
dell'ago, quando il vuole infilare. Questo avviene per difetto degli
spiriti visivi, li quali, o da grossezza o da altra cagione impediti,
quando non posson ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad
aguzzar le ciglia, percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo
in minor luogo la virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú
acuta e piú forte al suo uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle
anime per lo luogo nel quale era poca luce. «Cosí», come di sopra
è dimostrato, «adocchiato», cioè riguardato, «da cotal
famiglia», quale era quella che quivi passava, «Fui conosciuto da
un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del vestimento (è il
lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte inferiore), «e
gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: - «Qual maraviglia?»
- (supple),
è questa che io ti veggio qui.
«Ed io, quando 'l suo
braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi ficcai», cioè fiso
mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato dall'incendio, il
quale continuamente cadea; «Sí» gli occhi ficcai, «che'l viso
abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese», cioè non
tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto; E»,
perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi: - Siete voi
qui, ser Brunetto?»- quasi parlando admirative.
«E quegli» (supple)
pregò dicendo: - «O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia
grave, «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d'aver me alquanto
teco.
Questo ser Brunetto
Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle
liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá fu
notaría, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa
sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per
lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle
avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare
d'avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi
lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato Il
tesoretto,
se n'andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi un
libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di
molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale e
naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò Il
tesoro;
e ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra
l'autore il conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte
il discrive, dove gli altri pone che contro a natura bestialmente
adoperarono.
Séguita adunque il
priego suo, il quale ancora nelle parole superiori non era compiuto,
e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura alquanto innanzi
l'autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia andar la
traccia», - di queste anime, le quali tutte ti riguardano, le qual
forse l'autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne alcuna,
e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.
«Io dissi lui: -
Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto insieme; «E se
volete che con voi m'asseggia», cioè ristea, «Faròl, se piace a
costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e
maestro.
«O
figliuol - disse» ser Brunetto - «qual di questa greggia», cioè
di questa brigata, «S'arresta punto, giace poi cent'anni Senza
arrostarsi, quando» (supple)
avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca. «Però va'
oltre: io ti verrò a' panni», cioè appresso, «E poi», che io
avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè
questa brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo
i suoi eterni danni», - cioè il suo perpetuo tormento.
«Io non osava scender
della strada», cioè dell'argine, «Per andar par di lui»; e la
ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di lui fosse
disceso; «ma 'l capo chino Tenea», verso di lui, «com'», il
tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile
uomo.
«El cominciò: - Qual
fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino» sia alcuna cosa
previsa e inevitabile; «Anzi l'ultimo dí», cioè anzi la morte,
«quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che
mostra 'l cammino?» -
Alla qual domanda
l'autor risponde: - «Lassú di sopra in la vita serena», - cioè
nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo luogo,
«Rispuos'io lui, - mi smarri' in una valle».
Di questa valle è
assai detto davanti nel primo canto del presente libro, e perciò qui
non bisogna di replicare. E qui notantemente dice «mi smarri'», non
dice mi «perde'», per darne a sentire che le cose perdute non si
ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili sieno alle
perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro, li quali
hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion perpetua,
mai piú in quella non rientrano; coloro, che l'hanno smarrita per li
peccati commessi, avendo spazio di potersi pêntere e ravvedere, la
posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al
disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l'autore, che
non era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice
«mi smarrí' in una valle».
E
dice che vi si smarrí: «Avanti che l'etá mia fosse piena».
Mostrato è stato, nel
primo canto di questo libro, gli anni degli uomini stendersi infino
al settantesimo, e che infino al trentesimo quinto continuamente, o
alla statura dell'uomo, o alle forze corporali s'aggiugne, e perciò
in quello tempo si dice essere l'etá dell'uomo «piena». Dice
adunque l'autore che esso, avanti che egli a questa etá pervenisse,
si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende nel predetto
canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena pervenuto,
si ravvedesse d'avere smarrita la via diritta e ritornasse in quella.
«Pur iermattina le
volsi le spalle», partendomi d'essa: e qui dimostra esser giá stato
un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.
«Questi», del quale
voi mi domandate chi egli è, «m'apparve, ritornando», io, «in
quella», valle, sí come uomo spaventato dalle tre bestie che
davanti mi s'erano parate, «E riducemi a ca'», cioè a casa; e
ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual sia la
nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi
siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l'anime nostre,
per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon
create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo sí
come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione, è quella
la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena, mostrandoci
il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per questo
calle», - cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato
mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci
alla chiarezza della veritá.
«Ed egli a me: - Se tu
segui tua stella». Tocca in queste parole l'autore l'opinione degli
astrologhi, li quali sogliono talvolta nella nativitá d'alcuni fare
certe loro elevazioni, e per quelle vedere qual sia la disposizion
del cielo in quel punto che colui nasce, per cui fanno la elevazione.
E tra l'altre cose che essi piú puntalmente riguardano, è
l'ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá predetta sale
sopra l'orizzonte orientale della regione; e, avuto questo grado,
considerano qual de' sette pianeti è piú potente in esso; e quello
che truovano essere di piú potenzia in quello, quel dicono essere
signore dell'ascendente e significatore della nativitá. E secondo la
natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia, la quale
allora v'ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per luogo,
giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è stata
fatta. E però vuol qui l'autore mostrare che la sua stella, cioè il
pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e
si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose
cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di
signori e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu
séguiti gli effetti della tua stella, cioè quello adoperando che
essa mostra che tu déi adoperare, senza stôrti da ciò per caso che
t'avvegna, tu «Non puoi fallire al glorioso porto», cioè di
pervenire in gloriosa fama. Il che assai bene gli è avvenuto,
percioché non solamente nella nostra cittá, ma per gran parte del
mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini e grandissimi
prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa grazia e in
fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto dovergli
avvenire: «Se ben m'accorsi nella vita bella», cioè nella
presente.
E puossi per queste
parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare che esso fosse
astrolago, e per quell'arte comprendesse ne' corpi superiori ciò che
egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser Brunetto, sí come
uomo accorto, aver compreso in questa vita gli costumi e gli studi
dell'autore esser tali, che di lui si dovesse quello sperare che esso
gli dice; percioché, quando un valente uomo vede un giovane
continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con gli uomini
scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover divenire
eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle,
quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi
credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá
concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.
«E s'io non fossi sí
per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di quella vita
passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno», intorno
alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale per la
scienza si perviene. «Dato t'avrei all'opera conforto»,
sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per
te non potevi cognoscere.
E, poi che ser Brunetto
gli ha detto questo, accioché il conforti al ben perseverare nel
bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli quello che la
fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché esso con
minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la cagione,
mostrando quella essere tale, che
la 'ngiuria della fortuna, la quale gli s'apparecchia, non gli avverá
per suo difetto, come a molti avviene, ma per difetto di coloro li
quali gliele faranno. E dice: «Ma quello 'ngrato popolo e maligno»,
il quale è oggi divenuto fiorentino; e chiamalo «ingrato», per
certe operazioni precedenti, da esso fatte verso coloro li quali
l'avevano servito e onorato, e quasi trattolo di servitudine e di
miseria; e percioché il popolo, secondo il romano costume, è
universalmente tutta la cittadinanza di qualunque cittá, accioché
di tutti i fiorentini non s'intenda esser questa infamia
d'ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo maligno,
«Che discese di Fiesole ab antico».
Fiesole, secondo che
alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella dicono essere stata
edificata da non so quale Atalante de' discendenti di Iafet, figliuol
di Noé, prima che altra cittá d'Europa: la qual cosa creder non
posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse l'edificatore, o
quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai notabile. E,
secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la parte di
Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma, fu
per li romani disfatta, e parte de' suoi cittadini ne vennero ad
abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi
si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di
questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che,
in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e la
detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che in
Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell'antica lor cittá.
Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano
Firenze essere stata contro al piacere de' fiesolani reedificata, e
abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si
trovarono de' discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu
disfatta, l'abitavano.
Appresso dicono essere
state lunghe guerre e dannose tra' fiesolani e' fiorentini, le quali
all'una parte e all'altra rincrescendo, vennero a lunghissime
triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e sicuramente usavano
l'uno nella cittá dell'altro. Sotto la qual sicurtá i fiorentini,
non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono Fiesole,
fuori che la ròcca; e, patteggiatisi i fiesolani con loro di dovere
abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole disfatta
al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in
Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze
si tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme
raccomunarono gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto
poterono, insieme s'unirono. Nondimeno mostra qui l'autore, quella
acerbezza antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di
discendente in discendente de' fiesolani, e ancora stare; e per
questo dice che quel popolo fiesolano, che in Firenze venne ad
abitare. «E tiene ancor del monte e del macigno»: «del monte», in
quanto rustico e salvatico, e «del macigno», in quanto duro e non
pieghevole ad alcuno liberale e civil costume. E, dice, questo cotal
popolo disceso di Fiesole, «Ti si fará, per tuo ben far, nemico»,
sí come quello al quale è in odio la vertú e l'operazioni degne di
laude; e, di questo fartisi nimico, seguirá che tu sarai cacciato di
Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor sia cacciato, per ciò «che
tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè non è convenevole,
«fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol sotto questa
metafora l'autore intendere non esser convenevole che tra uomini
rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un uom
valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.
[Lez.
LVII]
Poi segue: «Vecchia
fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi. Della qual fama si
dice esser cagione questo: che, andando i pisani al conquisto
dell'isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e a ciò
andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor cittá
quasi vòta d'abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono di
lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi
erano a que' tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto
quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di
partire col detto comune la preda che dell'acquisto recassono. E,
avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i
pisani tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido
vermiglio bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che
fossero, di legno, ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero
due parti, che posero dall'una parte le porti e dall'altra le due
colonne coperte di scarlatto, e diedero le prese a' fiorentini, li
quali, senza troppo avanti guardare, presono le colonne. Le quali
venutene in Firenze, e spogliate di quella veste scarlatta, si
trovarono essere rotte, come oggi le veggiamo davanti alla porta di
San Giovanni. Or voglion dire alcuni che i pisani, essendo certi che
i fiorentini prenderebbono le colonne, accioché essi non avesser
netto cosí fatto guiderdone, quelle abbronzarono, e in quello
abbronzare, quelle esser cosí scoppiate, e, accioché i fiorentini
di ciò non s'accorgessono, le vestirono di scarlatto: e perciò, per
questo poco accorgimento de' fiorentini, esser loro stato allora
imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai poi non ci
cadde. Ma, quanto è a me, non va all'animo questa essere stata la
cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono,
appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si
verificassero ne' nostri costumi, piú che si verifichi il
sopradetto!
Dice adunque: «Gente
avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere avarissimi appare
ne' lor processi. E, se ad altro non apparisse, appare al male
osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che con difficultá
alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo consentimento ha
a prestare a confermazion di quella, non al comun bene, ma alla sua
particularitá; se pur si ferma, adoperando la innata cupiditá,
della quale tutti siam fieramente maculati, per li componitor
medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e modo che
il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men possenti
non si stendesse. Appresso, ne' publici offici si fa prima la ragion
del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della onorevole e
leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie, le baratterie,
le simonie e l'altre disonestá moventi da quella; e, perché troppo
sarebbe lungo il ragionamento, dell'usure, delle falsitá, de'
tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre a
ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si
comprende ne' nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o
veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella
dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver
avuta la mala ventura o essere per averla. Parsi ne' nostri
ragionamenti, ne' quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i
costumi e l'opere laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i
vitupèri e le vergogne e' danni di ciascheduno; parsi nelle
operazioni, nelle quali noi siamo, troppo piú che nelle parole,
nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini siamo, in ogni cosa ci pare
esser degni di dovere avanti ad ogni altro esser preposti, facendo di
noi maravigliose stime, non credendo che alcuno altro vaglia, sappia
o possa, se non noi. Andiamo con la testa levata, nel parlare altieri
e presuntuosi nelle 'mprese, e tanto di noi medesimi ingannati, che
sofferir non possiamo né pari né compagnone; teneri piú che 'l
vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam furiosi, e in
tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le nostre forze
a Dio, di bestemmiarlo e d'avvilirlo. De' quali vizi, esso
permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente
che non siam noi, ci troviamo sgannati.
Poi segue ser Brunetto
ammaestrandolo, e dice: «Da' lor costumi fa' che tu ti forbi», cioè
ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il celeste corso,
«tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza, in
amicizie di grandi uomini. «Che l'una parte e l'altra», cioè i
fiesolani e' fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi
che cacciato t'avranno: «ma lungi fia dal becco l'erba», cioè
l'effetto dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai.
«Faccian le bestie fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani,
«strame Di lor medesme», cioè rodan se medesimi con li loro
malvagi pensieri e con le lor malvagie operazioni, «e non tocchin la
pianta», per roderla, «S'alcuna surge ancor nel lor letame», cioè
nel luogo della loro abitazione, la qual somiglia al letame,
percioché di sopra l'ha chiamate bestie; «In cui riviva», cioè
per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di que' roman che
vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali vennero ad
abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per le cui
giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio
(ma in ciò non sono io con l'autore d'una medesima opinione,
percioché infino a' tempi de' primi imperadori era Roma ripiena
della feccia di tutto il mondo, ed era dagl'imperadori preposta a'
nobili uomini antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il
nido di malizia tanta»; e chiama qui Fiorenza «il
nido di malizia tanta», e questo non indecentemente, avendo riguardo
a' vizi de' quali ne mostra esser maculati.
«Se
fosse tutto pieno il mio dimando - Rispos'io lui, - voi non sareste
ancora. Dell'umana natura», la quale per eterna legge ciò che
nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato,
anzi sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso
questo dimanderebbe, perciò «Che in la mente m'è fitta», cioè
con fermezza posta, «ed or m'accora», cioè mi va al cuore, «La
cara buona imagine paterna, Di voi», verso di me, «quando nel
mondo», vivendo voi, «ad ora ad ora. Mi mostravate come l'uom
s'eterna», per lo bene e valorosamente adoperare. E cosí mostra
l'autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli
ammaestramenti della quale, si come santi e buoni, insegnano altrui
divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto io l'abbo in
grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr'io vivo, Convien
che nella mia lingua si scerna», percioché sempre loderò,
sempre vi commenderò.
«Ciò che narrate di
mio corso», cioè della mia futura fortuna, «scrivo», nella mia
memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo», cioè a dichiarare
con quelle cose insieme, le quali gli avea predette Ciacco e messer
Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s'a lei
arrivo», chiosare e dichiarare e l'altre cose e quelle che dette
m'avete. «Tanto vogl'io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza
non mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna
ingiuria piú pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch'alla
fortuna», cioè a' casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a
ricevere e a sostenere. «Non è nuova agli orecchi miei tale arra»,
cioè tale annunzio, quale è quello il quale mi fate, percioché da
Ciacco e da messer Farinata m'è stato predetto: «Però giri Fortuna
la sua ruota», cioè faccia il suo uficio di permutare gli onori e
gli stati, «Come le piace, e 'l villan la sua marra». - Queste
parole dice per quello che ser Brunetto gli ha detto de' fiesolani,
che contro a lui deono adoperare, li quali qui discrive in persona di
villani, cioè d'uomini non cittadini, ma di villa; e in quanto dice
«la sua marra», intende che essi fiesolani, come piace loro, il lor
malvagio esercizio adoperino, come il villano adopera la marra.
«Lo mio maestro allora
in su la gota», cioè in su la parte «Destra, si volse indietro, e
riguardommi. Poi disse: - Bene ascolta», cioè non invano ascolta,
«chi la nota», - con effetto, la parola la quale tu al presente
dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.),
volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di
fare.
«Né per tanto di
men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando vommi, Con
ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co' quali egli
poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per
fama.
«Ed egli a me: - Saper
d'alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa risposta alla
domanda che l'autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi voglia ser
Brunetto dire (sí come assai bene appare appresso): se io ti volessi
dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti furono
uomini di nome e famosi. E, detto d'alcuno, «Degli altri fia
laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v'ha si
fatti uomini, che lo 'nfamargli di cosí vituperevole peccato, come
questo è, e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se
non per loro, per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli
altra ragione n'assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo:
«Ché 'l tempo», che conceduto m'è star teco, «saria corto»,
piccolo o brieve, «a tanto suono», cioè a cosí lungo ragionare,
come, ragionando di costoro, si converrebbe fare. E, questo detto,
prima gli dice in generale chi essi sono, poi discende a nominarne
alcuno in particulare, e dice: «In somma», cioè su brevitá,
«sappi che tutti fûr cherci, E letterati grandi e di gran fama,
D'un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al mondo lerci», cioè
brutti.
Pare adunque, per
queste parole, i cherici e gli scienziati esser maculati di questo
male. Il che puote avvenire l'aver piú destro, e con minor biasimo,
del mescolarsi in questa bruttura col sesso mascolino che col
femminino, [conciosiacosaché l'usanza de' giovani non paia
disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine è
abominevole molto]; e, per questo comodo,
questi cosí fatti
uomini, cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per
altro appetito non farebbono.
«Priscian sen va con
quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano della cittá di
Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e grandissimo
filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare a Roma, ad
istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due notabili
libri: nell'uno trattò diffusamente e bene Delle
parti dell'orazione,
nell'altro sub brevitá trattò Delle
costruzioni.
Non lessi mai né udi' che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io
estimo abbia qui
voluto
porre lui, accioché per lui s'intendano coloro li quali la sua
dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si crede che sia
maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e per l'etá
temorosi e ubbidienti, cosí a' disonesti come agli onesti
comandamenti de' lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse
volte incappino in questa colpa.
«E Francesco d'Accorso
anche vedervi», tra loro avresti potuto, «S'avessi avuto di tal
tigna brama», cioè disiderio.
Messer Francesco fu
figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini, e amenduni
grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer Accorso
chiosò tutto 'l Corpo
di ragion
civile,
e furon le sue chiose tanto accette, che elle si posono e sono e
ancora s'usano per chiose
ordinarie
nel Codice
e negli altri libri legali. E questo messer Francesco, mentre visse,
sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove si crede che ultimamente
morisse.
Appresso dice che
ancora v'avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che dal servo de'
servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue lettere chiama
«servo de' servi di Dio». E questo titolo primieramente per vera
umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo che a
lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s'appartiene di
ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi di
Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea,
predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue
Omelie
appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il dimostra:
percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al
popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá.
Ma questo di cui qui l'autor dice, dice che «Fu trasmutato d'Arno in
Bacchiglione».
Dicesi costui essere
stato un messer Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze, il quale e per
questa miseria, nella quale forse era disonesto peccatore, e per
molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano nel vulgo; per
opera di messer Tommaso de' Mozzi, suo fratello, il quale era
onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar dinanzi
dagli occhi suoi e de' suoi cittadini tanta abominazione, fu
permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza. Il
che l'autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è
fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per
Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí
per ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu
trasmutato, e quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in
Vicenza, «lasciò», morendo, percioché in essa morí, «li mal
protesi nervi». Era questo vescovo sconciamente gottoso, in quanto
che, per difetto degli omóri corrotti, tutti i nervi della persona
gli s'erano rattrappati, come in assai gottosi veggiamo, e nelle mani
e ne' piedi; e cosí per questa parte del corpo, cioè per li nervi,
intende tutto il corpo, il quale morendo lasciò in Vicenza. [Altri
vogliono altramente sentire in questa parte, volendo per quello
vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del corpo intendere, ma di
quegli solamente li quali appartengono al membro virile; dicendo che
«proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi tendere avviene
in quegli nervi del viril membro, che si protendono innanzi quando
all'atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere dall'autore
detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi
malvagiamente gli protese.]
«Di piú direi, ma 'l
venir», al pari di te, «e 'l sermone Piú lungo esser non può»; e
soggiugne la cagione, dicendo: «peroch'io veggio, Lá», davanti a
sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione. Gente
vien, con la quale esser non deggio».
[Appare per queste
parole alcuna differenzia esser tra quegli che contro a natura
peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati, e non osa
l'una schiera esser con l'altra; e senza dubbio differenza ci è,
percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie
d'animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando due
d'un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e
similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che
alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da
lor poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l'uomo e la
femmina, eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente,
e secondo la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi
canoniche, si congiungono insieme. Commettesi ancora quando con
alcuno animal bruto o l'uomo o la femmina si pone; la qual cosa non
solamente a Dio, ma ancora agli scellerati uomini è
abominevolissima. E però dobbiam credere che, secondo che in questo
piú e men gravemente si pecca, cosí i peccatori dalla divina
giustizia essere piú e men gravemente puniti, e distintamente. E,
percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o meno peccatori che
si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]
E, dovendosi partire
dall'autore, ultimamente gli dice: «Sieti raccomandato il mio
Tesoro»,
cioè il mio libro, il quale io composi in lingua francesca, chiamato
Tesoro:
e questo vuole gli sia raccomandato in trarlo innanzi, e in
commendarlo e onorarlo, estimando quello alla sua fama esser fatto
nella presente vita, che al suo libro si fa. E in questo possiam
comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, ancorché in
inferno siano dannati i peccatori, né sperino mai quassú tornare,
né d'inferno uscire, è pure da loro disiderata. E séguita la
cagione perché, dove dice: «Nel quale io vivo ancora»; volendo per
questo dire che, dove perduto fosse questo libro o non avuto a
prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo possiam vedere la
fama essere una vita di molti secoli, e, quasi, dalla presente, nella
quale secondo il corpo poco si vive, separata, e similmente dalla
eterna, nella quale mai non si muore. [E questo fa direttamente
contro a molti, li quali scioccamente dicono che la poesia non è
facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro
grandissimi difetti, de' quali l'uno sta nello sciocco opinare che
non sia guadagno altro che quello che empie la borsa de' denari; e
l'altro sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire
che cosa sia la dolcezza della fama. E perciò m'aggrada di
rintuzzare alquanto l'opinione asinina di questi cotali.]
[Empiono la borsa o la
cassa l'arti meccaniche, le mercatanzie, le leggi civili e le
canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno adoperate, non posson
prolungare, né prolungano un dí la vita al guadagnatore, sí come
quelle che dietro a sé non lasciano alcuna ricordanza o fama
laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l'antiche istorie,
ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini, e veggasi
quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l'arche d'oro e
d'argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con grandissimo
suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta sua
ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del nome
suo: e questo basti aver detto dell'antiche. Delle piú ricenti non
so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra
cittá di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome
d'alcuno che giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne
troverá alcuno, e, se pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di
lui si troverá, come degli antichi, o lui per le ricchezze non esser
principalmente ricordato. Per la qual cosa appare questi cotali avere
acquistata cosa che insieme col corpo e col nome loro s'è morta e
convertita in fummo, quasi non fosse stata.]
[Ma a veder resta
quello che della poesia si guadagni, la quale essi dicono non essere
lucrativa, credendosi con questo vituperarla e farla in perpetuo
abominevole. La poesia, la qual solamente a' nobili ingegni se stessa
concede, poiché con vigilante studio è appresa, non dirizza
l'appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso e
disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle
celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni
sua potenzia, che l'ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome
del suo divoto componitore. E, se eterno far nol puote, gli dá
almeno per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra
dicemmo, lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo
i valorosi uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e
negli antichi e ancor ne' moderni. E' son passati oltre a duemila secento anni
che Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la
lunghezza del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro
composizioni lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro
nomi occultare né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza
perseverano, che essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero,
poverissimo uomo e di nazione umilissima, fu da questa in tanta
sublimitá elevato, ed è sempre poi stato, che le piú notabili
cittá di Grecia ebbero della sua origine quistione: i re,
gl'imperadori, e' sommi prencipi mondani hanno sempre il suo nome
quasi quello d'una deitá onorato, e infino a' nostri dí persevera,
con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi volumi, la
gloria della sua fama.]
[Io lascerò stare i
fulgidi nomi d'Euripide, d'Eschilo, di Simonide, di Sofocle e degli
altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia maravigliare, e
ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto sarsinate, Nevio,
Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti, li quali ancora
nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono; per non dire
del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta eccellenzia,
che, essendo egli figliuolo d'un lutifigolo, con pari consentimento
di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose mondane
soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian Cesare,
di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e sono
l'opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé, e in
favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma esse
hanno con seco insieme infino ne' dí nostri fatta non solamente
venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i
mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola,
nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che
pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi
un santuario non visitino e onorino.]
[E, accioché io a'
nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo cittadino e
venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco Petrarca,
con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera latina
è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo il
nome suo nelle bocche, non dico de' prencipi cristiani, li quali i
piú sono oggi idioti, ma de' sommi pontefici, de' gran maestri, e di
qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro
autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto
la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi
letterati ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam
noi che l'opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che
allora perirá il nome loro, quando tutte l'altre cose mortali
periranno. Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano
il denaio? Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per
guadagno cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno
s'accostano, o diranno che pur l'arti meccaniche sien quelle delle
quali si guadagna? Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle
cose celestiali da lor non conosciute, e intorno a quelle
s'avvolghino, le quali appena dalla bassezza del loro ingegno son da
loro conosciute! e negli orecchi ricevano un verso del nostro
venerabil messer Francesco Petrarca:
Artem
quisque suam doceat, sus nulla Minervam.
[Ora, come io ho detto
de' poeti, cosí intendo di qualunque altro componitore in qualunque
altra scienza o facultá, percioché ciascuno meritamente nelle sue
opere vive.] E questa è quella vita nella quale ser Brunetto Latino
dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo Tesoro,
avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo. Poi
segue: «e piú non cheggio»; - quasi dica: questo mi sará assai.
«Poi si rivolse»;
detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a Verona 'l drappo
verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i veronesi per
antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini ignudi un
drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si mette
alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché,
partendosi ser Brunetto dall'autore, velocissimamente correa,
l'assomiglia l'autore a questi cotali che quel drappo verde corrono:
e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di
costoro», cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo
davanti a tutti gli altri, «e non colui che perde», rimanendo
addietro.
L'allegoría del
presente canto, cioè, come la pena, scritta per l'autore che a
questi che peccarono contra natura è data, si conformi con la colpa
commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si dirá di
tutta questa spezie de' violenti.