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martes, 25 de agosto de 2020

Paradiso, Canto VII

CANTO VII

[Canto VII, nel quale Beatrice mostra come la vendetta fatta per Tito de la morte di Gesù Cristo nostro Salvatore fue giusta, essendo la morte di Gesù Cristo giusta per ricomperamento de l'umana generazione e solvimento del peccato del primo padre.]

«Osanna, sanctus Deus sabaòth,

superillustrans claritate tua

felices ignes horum malacòth!».

Così, volgendosi a la nota sua,

fu viso a me cantare essa sustanza,

sopra la qual doppio lume s'addua;

ed essa e l'altre mossero a sua danza,

e quasi velocissime faville

mi si velar di sùbita distanza.

Io dubitava e dicea 'Dille, dille!'

fra me, 'dille' dicea, 'a la mia donna

che mi diseta con le dolci stille'.

Ma quella reverenza che s'indonna

di tutto me, pur per Be e per ice,

mi richinava come l'uom ch'assonna.

Poco sofferse me cotal Beatrice

e cominciò, raggiandomi d'un riso

tal, che nel foco faria l'uom felice:

«Secondo mio infallibile avviso,

come giusta vendetta giustamente

punita fosse, t'ha in pensier miso;

ma io ti solverò tosto la mente;

e tu ascolta, ché le mie parole

di gran sentenza ti faran presente.

Per non soffrire a la virtù che vole

freno a suo prode, quell' uom che non nacque,

dannando sé, dannò tutta sua prole;

onde l'umana specie inferma giacque

giù per secoli molti in grande errore,

fin ch'al Verbo di Dio discender piacque

u' la natura, che dal suo fattore

s'era allungata, unì a sé in persona

con l'atto sol del suo etterno amore.

Or drizza il viso a quel ch'or si ragiona:

questa natura al suo fattore unita,

qual fu creata, fu sincera e buona;

ma per sé stessa pur fu ella sbandita

di paradiso, però che si torse

da via di verità e da sua vita.

La pena dunque che la croce porse

s'a la natura assunta si misura,

nulla già mai sì giustamente morse;

e così nulla fu di tanta ingiura,

guardando a la persona che sofferse,

in che era contratta tal natura.

Però d'un atto uscir cose diverse:

ch'a Dio e a' Giudei piacque una morte;

per lei tremò la terra e 'l ciel s'aperse.

Non ti dee oramai parer più forte,

quando si dice che giusta vendetta

poscia vengiata fu da giusta corte.

Ma io veggi' or la tua mente ristretta

di pensiero in pensier dentro ad un nodo,

del qual con gran disio solver s'aspetta.

Tu dici: "Ben discerno ciò ch'i' odo;

ma perché Dio volesse, m'è occulto,

a nostra redenzion pur questo modo".

Questo decreto, frate, sta sepulto

a li occhi di ciascuno il cui ingegno

ne la fiamma d'amor non è adulto.

Veramente, però ch'a questo segno

molto si mira e poco si discerne,

dirò perché tal modo fu più degno.

La divina bontà, che da sé sperne

ogne livore, ardendo in sé, sfavilla

sì che dispiega le bellezze etterne.

Ciò che da lei sanza mezzo distilla

non ha poi fine, perché non si move

la sua imprenta quand' ella sigilla.

Ciò che da essa sanza mezzo piove

libero è tutto, perché non soggiace

a la virtute de le cose nove.

Più l'è conforme, e però più le piace;

ché l'ardor santo ch'ogne cosa raggia,

ne la più somigliante è più vivace.

Di tutte queste dote s'avvantaggia

l'umana creatura, e s'una manca,

di sua nobilità convien che caggia.

Solo il peccato è quel che la disfranca

e falla dissimìle al sommo bene,

per che del lume suo poco s'imbianca;

e in sua dignità mai non rivene,

se non rïempie, dove colpa vòta,

contra mal dilettar con giuste pene.

Vostra natura, quando peccò tota

nel seme suo, da queste dignitadi,

come di paradiso, fu remota;

né ricovrar potiensi, se tu badi

ben sottilmente, per alcuna via,

sanza passar per un di questi guadi:

o che Dio solo per sua cortesia

dimesso avesse, o che l'uom per sé isso

avesse sodisfatto a sua follia.

Ficca mo l'occhio per entro l'abisso

de l'etterno consiglio, quanto puoi

al mio parlar distrettamente fisso.

Non potea l'uomo ne' termini suoi

mai sodisfar, per non potere ir giuso

con umiltate obedïendo poi,

quanto disobediendo intese ir suso;

e questa è la cagion per che l'uom fue

da poter sodisfar per sé dischiuso.

Dunque a Dio convenia con le vie sue

riparar l'omo a sua intera vita,

dico con l'una, o ver con amendue.

Ma perché l'ovra tanto è più gradita

da l'operante, quanto più appresenta

de la bontà del core ond' ell' è uscita,

la divina bontà che 'l mondo imprenta,

di proceder per tutte le sue vie,

a rilevarvi suso, fu contenta.

Né tra l'ultima notte e 'l primo die

sì alto o sì magnifico processo,

o per l'una o per l'altra, fu o fie:

ché più largo fu Dio a dar sé stesso

per far l'uom sufficiente a rilevarsi,

che s'elli avesse sol da sé dimesso;

e tutti li altri modi erano scarsi

a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio

non fosse umilïato ad incarnarsi.

Or per empierti bene ogne disio,

ritorno a dichiararti in alcun loco,

perché tu veggi lì così com' io.

Tu dici: "Io veggio l'acqua, io veggio il foco,

l'aere e la terra e tutte lor misture

venire a corruzione, e durar poco;

e queste cose pur furon creature;

per che, se ciò ch'è detto è stato vero,

esser dovrien da corruzion sicure".

Li angeli, frate, e 'l paese sincero

nel qual tu se', dir si posson creati,

sì come sono, in loro essere intero;

ma li alimenti che tu hai nomati

e quelle cose che di lor si fanno

da creata virtù sono informati.

Creata fu la materia ch'elli hanno;

creata fu la virtù informante

in queste stelle che 'ntorno a lor vanno.

L'anima d'ogne bruto e de le piante

di complession potenzïata tira

lo raggio e 'l moto de le luci sante;

ma vostra vita sanza mezzo spira

la somma beninanza, e la innamora

di sé sì che poi sempre la disira.

E quinci puoi argomentare ancora

vostra resurrezion, se tu ripensi

come l'umana carne fessi allora

che li primi parenti intrambo fensi».

martes, 18 de agosto de 2020

Inferno, Canto IV

CANTO IV

[Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.]

Ruppemi l'alto sonno ne la testa

un greve truono, sì ch'io mi riscossi

come persona ch'è per forza desta;

e l'occhio riposato intorno mossi,

dritto levato, e fiso riguardai

per conoscer lo loco dov' io fossi.

Vero è che 'n su la proda mi trovai

de la valle d'abisso dolorosa

che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

Oscura e profonda era e nebulosa

tanto che, per ficcar lo viso a fondo,

io non vi discernea alcuna cosa.

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,

cominciò il poeta tutto smorto.

«Io sarò primo, e tu sarai secondo».

E io, che del color mi fui accorto,

dissi: «Come verrò, se tu paventi

che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

Ed elli a me: «L'angoscia de le genti

che son qua giù, nel viso mi dipigne

quella pietà che tu per tema senti.

Andiam, ché la via lunga ne sospigne».

Così si mise e così mi fé intrare

nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Quivi, secondo che per ascoltare,

non avea pianto mai che di sospiri

che l'aura etterna facevan tremare;

ciò avvenia di duol sanza martìri,

ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,

d'infanti e di femmine e di viri.

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi?

Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,

non basta, perché non ebber battesmo,

ch'è porta de la fede che tu credi;

e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,

non adorar debitamente a Dio:

e di questi cotai son io medesmo.

Per tai difetti, non per altro rio,

semo perduti, e sol di tanto offesi

che sanza speme vivemo in disio».

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,

però che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,

comincia' io per volere esser certo di quella fede che vince ogne errore:

«uscicci mai alcuno, o per suo merto

o per altrui, che poi fosse beato?».

E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

rispuose: «Io era nuovo in questo stato,

quando ci vidi venire un possente,

con segno di vittoria coronato.

Trasseci l'ombra del primo parente,

d'Abèl suo figlio e quella di Noè,

di Moïsè legista e ubidente;

Abraàm patrïarca e Davìd re,

Israèl con lo padre e co' suoi nati

e con Rachele, per cui tanto fé,

e altri molti, e feceli beati.

E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,

spiriti umani non eran salvati».

Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,

ma passavam la selva tuttavia,

la selva, dico, di spiriti spessi.

Non era lunga ancor la nostra via

di qua dal sonno, quand' io vidi un foco

ch'emisperio di tenebre vincia.

Di lungi n'eravamo ancora un poco,

ma non sì ch'io non discernessi in parte

ch'orrevol gente possedea quel loco.

«O tu ch'onori scïenzïa e arte,

questi chi son c'hanno cotanta onranza,

che dal modo de li altri li diparte?».

E quelli a me: «L'onrata nominanza

che di lor suona sù ne la tua vita,

grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

Intanto voce fu per me udita:

«Onorate l'altissimo poeta;

l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

Poi che la voce fu restata e queta,

vidi quattro grand' ombre a noi venire:

sembianz' avevan né trista né lieta.

Lo buon maestro cominciò a dire:

«Mira colui con quella spada in mano,

che vien dinanzi ai tre sì come sire:

quelli è Omero poeta sovrano;

l'altro è Orazio satiro che vene;

Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

Però che ciascun meco si convene

nel nome che sonò la voce sola,

fannomi onore, e di ciò fanno bene».

Così vid' i' adunar la bella scola

di quel segnor de l'altissimo canto

che sovra li altri com' aquila vola.

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,

volsersi a me con salutevol cenno,

e 'l mio maestro sorrise di tanto;

e più d'onore ancora assai mi fenno,

ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,

sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

Così andammo infino a la lumera,

parlando cose che 'l tacere è bello,

sì com' era 'l parlar colà dov' era.

Venimmo al piè d'un nobile castello,

sette volte cerchiato d'alte mura,

difeso intorno d'un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura;

per sette porte intrai con questi savi:

giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorità ne' lor sembianti:

parlavan rado, con voci soavi.

Traemmoci così da l'un de' canti,

in loco aperto, luminoso e alto,

sì che veder si potien tutti quanti.

Colà diritto, sovra 'l verde smalto,

mi fuor mostrati li spiriti magni,

che del vedere in me stesso m'essalto.

I' vidi Eletra con molti compagni,

tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,

Cesare armato con li occhi grifagni.

Vidi Cammilla e la Pantasilea;

da l'altra parte vidi 'l re Latino

che con Lavina sua figlia sedea.

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,

Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;

e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,

vidi 'l maestro di color che sanno

seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:

quivi vid' ïo Socrate e Platone,

che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

Democrito che 'l mondo a caso pone,

Dïogenès, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;

e vidi il buono accoglitor del quale,

Dïascoride dico; e vidi Orfeo,

Tulïo e Lino e Seneca morale;

Euclide geomètra e Tolomeo,

Ipocràte, Avicenna e Galïeno,

Averoìs, che 'l gran comento feo.

Io non posso ritrar di tutti a pieno,

però che sì mi caccia il lungo tema,

che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in due si scema:

per altra via mi mena il savio duca,

fuor de la queta, ne l'aura che trema.

E vegno in parte ove non è che luca.

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