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lunes, 24 de agosto de 2020

Purgatorio. Canto XXVI.

CANTO XXVI

[Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido Guinizzelli da Bologna e molti altri.]

Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro,

ce n'andavamo, e spesso il buon maestro

diceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»;

feriami il sole in su l'omero destro,

che già, raggiando, tutto l'occidente

mutava in bianco aspetto di cilestro;

e io facea con l'ombra più rovente

parer la fiamma; e pur a tanto indizio

vidi molt' ombre, andando, poner mente.

Questa fu la cagion che diede inizio

loro a parlar di me; e cominciarsi

a dir: «Colui non par corpo fittizio»;

poi verso me, quanto potëan farsi,

certi si fero, sempre con riguardo

di non uscir dove non fosser arsi.

«O tu che vai, non per esser più tardo,

ma forse reverente, a li altri dopo,

rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.

Né solo a me la tua risposta è uopo;

ché tutti questi n'hanno maggior sete

che d'acqua fredda Indo o Etïopo.

Dinne com' è che fai di te parete

al sol, pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro da la rete».

Sì mi parlava un d'essi; e io mi fora

già manifesto, s'io non fossi atteso

ad altra novità ch'apparve allora;

ché per lo mezzo del cammino acceso

venne gente col viso incontro a questa,

la qual mi fece a rimirar sospeso.

Lì veggio d'ogne parte farsi presta

ciascun' ombra e basciarsi una con una

sanza restar, contente a brieve festa;

così per entro loro schiera bruna

s'ammusa l'una con l'altra formica,

forse a spïar lor via e lor fortuna.

Tosto che parton l'accoglienza amica,

prima che 'l primo passo lì trascorra,

sopragridar ciascuna s'affatica:

la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;

e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife,

perché 'l torello a sua lussuria corra».

Poi, come grue ch'a le montagne Rife

volasser parte, e parte inver' l'arene,

queste del gel, quelle del sole schife,

l'una gente sen va, l'altra sen vene;

e tornan, lagrimando, a' primi canti

e al gridar che più lor si convene;

e raccostansi a me, come davanti,

essi medesmi che m'avean pregato,

attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.

Io, che due volte avea visto lor grato,

incominciai: «O anime sicure

d'aver, quando che sia, di pace stato,

non son rimase acerbe né mature

le membra mie di là, ma son qui meco

col sangue suo e con le sue giunture.

Quinci sù vo per non esser più cieco;

donna è di sopra che m'acquista grazia,

per che 'l mortal per vostro mondo reco.

Ma se la vostra maggior voglia sazia

tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi

ch'è pien d'amore e più ampio si spazia,

ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi,

chi siete voi, e chi è quella turba

che se ne va di retro a' vostri terghi».

Non altrimenti stupido si turba

lo montanaro, e rimirando ammuta,

quando rozzo e salvatico s'inurba,

che ciascun' ombra fece in sua paruta;

ma poi che furon di stupore scarche,

lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,

«Beato te, che de le nostre marche»,

ricominciò colei che pria m'inchiese,

«per morir meglio, esperïenza imbarche!

La gente che non vien con noi, offese

di ciò per che già Cesar, trïunfando,

"Regina" contra sé chiamar s'intese:

però si parton "Soddoma" gridando,

rimproverando a sé com' hai udito,

e aiutan l'arsura vergognando.

Nostro peccato fu ermafrodito;

ma perché non servammo umana legge,

seguendo come bestie l'appetito,

in obbrobrio di noi, per noi si legge,

quando partinci, il nome di colei

che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.

Or sai nostri atti e di che fummo rei:

se forse a nome vuo' saper chi semo,

tempo non è di dire, e non saprei.

Farotti ben di me volere scemo:

son Guido Guinizzelli, e già mi purgo

per ben dolermi prima ch'a lo stremo».

Quali ne la tristizia di Ligurgo

si fer due figli a riveder la madre,

tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo,

quand' io odo nomar sé stesso il padre

mio e de li altri miei miglior che mai

rime d'amore usar dolci e leggiadre;

e sanza udire e dir pensoso andai

lunga fïata rimirando lui,

né, per lo foco, in là più m'appressai.

Poi che di riguardar pasciuto fui,

tutto m'offersi pronto al suo servigio

con l'affermar che fa credere altrui.

Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,

per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,

che Letè nol può tòrre né far bigio.

Ma se le tue parole or ver giuraro,

dimmi che è cagion per che dimostri

nel dire e nel guardar d'avermi caro».

E io a lui: «Li dolci detti vostri,

che, quanto durerà l'uso moderno,

faranno cari ancora i loro incostri».

«O frate», disse, «questi ch'io ti cerno

col dito», e additò un spirto innanzi,

«fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d'amore e prose di romanzi

soverchiò tutti; e lascia dir li stolti

che quel di Lemosì credon ch'avanzi.

A voce più ch'al ver drizzan li volti,

e così ferman sua oppinïone

prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.

Così fer molti antichi di Guittone,

di grido in grido pur lui dando pregio,

fin che l'ha vinto il ver con più persone.

Or se tu hai sì ampio privilegio,

che licito ti sia l'andare al chiostro

nel quale è Cristo abate del collegio,

falli per me un dir d'un paternostro,

quanto bisogna a noi di questo mondo,

dove poter peccar non è più nostro».

Poi, forse per dar luogo altrui secondo

che presso avea, disparve per lo foco,

come per l'acqua il pesce andando al fondo.

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,

e dissi ch'al suo nome il mio disire

apparecchiava grazïoso loco.

El cominciò liberamente a dire:

«Tan m'abellis vostre cortes deman,

qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;

consiros vei la passada folor,

e vei jausen lo joi qu'esper, denan.

Ara vos prec, per aquella valor

que vos guida al som de l'escalina,

sovenha vos a temps de ma dolor!».

Poi s'ascose nel foco che li affina.

miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XI

CANTO XI

[Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.]

In su l'estremità d'un'alta ripa

che facevan gran pietre rotte in cerchio,

venimmo sopra più crudele stipa;

e quivi, per l'orribile soperchio

del puzzo che 'l profondo abisso gitta,

ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta

che dicea: 'Anastasio papa guardo,

lo qual trasse Fotin de la via dritta'.

«Lo nostro scender conviene esser tardo,

sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».

«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,

cominciò poi a dir, «son tre cerchietti

di grado in grado, come que' che lassi.

Tutti son pien di spirti maladetti;

ma perché poi ti basti pur la vista,

intendi come e perché son costretti.

D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,

ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale

o con forza o con frode altrui contrista.

Ma perché frode è de l'uom proprio male,

più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale.

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;

ma perché si fa forza a tre persone,

in tre gironi è distinto e costrutto.

A Dio, a sé, al prossimo si pòne

far forza, dico in loro e in lor cose,

come udirai con aperta ragione.

Morte per forza e ferute dogliose

nel prossimo si danno, e nel suo avere

ruine, incendi e tollette dannose;

onde omicide e ciascun che mal fiere,

guastatori e predon, tutti tormenta

lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in sé man vïolenta

e ne' suoi beni; e però nel secondo

giron convien che sanza pro si penta

qualunque priva sé del vostro mondo,

biscazza e fonde la sua facultade,

e piange là dov' esser de' giocondo.

Puossi far forza ne la deïtade,

col cor negando e bestemmiando quella,

e spregiando natura e sua bontade;

e però lo minor giron suggella

del segno suo e Soddoma e Caorsa

e chi, spregiando Dio col cor, favella.

La frode, ond' ogne coscïenza è morsa,

può l'omo usare in colui che 'n lui fida

e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida

pur lo vinco d'amor che fa natura;

onde nel cerchio secondo s'annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,

falsità, ladroneccio e simonia,

ruffian, baratti e simile lordura.

Per l'altro modo quell' amor s'oblia

che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,

di che la fede spezïal si cria;

onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto

de l'universo in su che Dite siede,

qualunque trade in etterno è consunto».

E io: «Maestro, assai chiara procede

la tua ragione, e assai ben distingue

questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede.

Ma dimmi: quei de la palude pingue,

che mena il vento, e che batte la pioggia,

e che s'incontran con sì aspre lingue,

perché non dentro da la città roggia

sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

e se non li ha, perché sono a tal foggia?».

Ed elli a me «Perché tanto delira»,

disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?

o ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole

con le quai la tua Etica pertratta

le tre disposizion che 'l ciel non vole,

incontenenza, malizia e la matta

bestialitade? e come incontenenza

men Dio offende e men biasimo accatta?

Se tu riguardi ben questa sentenza,

e rechiti a la mente chi son quelli

che sù di fuor sostegnon penitenza,

tu vedrai ben perché da questi felli

sien dipartiti, e perché men crucciata

la divina vendetta li martelli».

«O sol che sani ogne vista turbata,

tu mi contenti sì quando tu solvi,

che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,

diss' io, «là dove di' ch'usura offende

la divina bontade, e 'l groppo solvi».

«Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende,

nota, non pure in una sola parte,

come natura lo suo corso prende

dal divino 'ntelletto e da sua arte;

e se tu ben la tua Fisica note,

tu troverai, non dopo molte carte,

che l'arte vostra quella, quanto pote,

segue, come 'l maestro fa 'l discente;

sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente

lo Genesì dal principio, convene

prender sua vita e avanzar la gente;

e perché l'usuriere altra via tene,

per sé natura e per la sua seguace

dispregia, poi ch'in altro pon la spene.

Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;

ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,

e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,

e 'l balzo via là oltra si dismonta».

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