CANTO SETTIMO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. XXVI]
«Papé Satan, papé Satan aleppe», - ecc. Nel presente canto l'autore, sí come è usato ne' passati, continuandosi alle cose precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello 'nferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nell'un cerchio e nell'altro si puniscano. E dividesi questo canto in due parti principali: nella prima mostra l'autore esser puniti gli avari e' prodighi; nella seconda mostra esser puniti gl'iracondi e gli accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo omai a maggior pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi e' fossero; nella terza dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi: - «Maestro, - diss'io lui».
Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra, trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide, admirative cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe de' dimòni, dicendo: - «Papé».
Questo vocabolo è adverbium admirandi, e perciò, quando d'alcuna cosa ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «papé!». E da questo vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», l'autoritá del quale è tanta, che ne' nostri intelletti genera ammirazione; e non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale l'autoritá divina, e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora chiamavano i lor preti «papas», quasi «ammirabili»: e ammirabili sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e 'l sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autoritá di sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del quale siede il vicario di san Pietro.
«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe de' demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario» o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico delle virtú de' santi uomini; e similmente si può vedere lui essere stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.
«Papé Satán». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare l'ammirazione esser maggiore.
E seguita: «aleppe». «Alep» è la prima lettera dell'alfabeto de' giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè «a»; ed è «alep» appo gli ebrei adverbium dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.
Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta, cioè che alcun vivo uomo vada per lo 'nferno; e, temendo questo non sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e, accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e del luogo e degli uficiali di quello: veggendo l'autor vivo, né temer de' dimòni, ad un'ora si maraviglia e teme, e però admirative, e dolendosi, chiama il prencipe suo.
«Cominciò Pluto», (supple) a dire o a gridare, «con la voce chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò Pluto a gridare per ispaventar l'autore, sí come ne' cerchi superiori si son sforzati Minos e Cerbero nell'entrata de' detti cerchi, accioché per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto alla sua buona intenzione.
[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano Dispiter, fu figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e, secondo dice Eusebio in libro Temporum, il nome suo fu Aidoneo. Fu costui dagli antichi chiamato re d'inferno, e la sua real cittá dissero essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di Cerere: de' quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché l'autore qui questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si debbano lá dove l'altre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e diffusamente con la grazia di Dio l'apriremo.]
«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual veramente quanto all'arti e scienze mondane appartiene, tutto seppe: percioché, oltre all'arti liberali, egli seppe filosofia morale e naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro uomo a' suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi: - Non ti noccia La sua paura», la quale egli o mostra d'avere in sé, o vuol mettere in te di sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare l'autore per ciò esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter ch'egli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia», - cioè questo balzo.
«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto, «E disse: - Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché s'intenda per lui il vizio dell'avarizia, al quale è preposto: il qual vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia», la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti sollecita e infesta. «Non è senza cagion l'andare», di costui, «al cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio ch'egli vada, «nell'alto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Fe' la vendetta del superbo strupo», - cioè del Lucifero, il quale, come nell'Apocalissi si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso, insieme co' suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli strupatori.
«Quali». Qui per una comparazione dimostra l'autore come la rabbia di Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio, «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che l'alber fiacca», cioè l'albero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde a terra la fiera crudele», cioè Plutone.
«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo canto, nella quale l'autore dimostra qual pena abbiano i peccatori, li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella quarta lacca», cioè parte d'inferno, cosí dinominandola per consonare alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo; e, accioché di qual ripa dica s'intenda, segue: «Che 'l mal», cioè le colpe e i peccati, «dell'universo», di tutto il mondo, «tutto insacca», cioè in sé insaccato riceve.
Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa», cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena, o ne' morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole mostrar l'autore di maravigliarsi per la moltitudine.
Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa l'onda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina. Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, ch'è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da «pharos», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che l'isola di Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono de' moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente, in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle d'Appennino a quelle che sono in Peloro, ed e converso. E, come di sopra è detto, questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto: e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano [come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni dí naturale, [che sospignendo la forza de' venti marini il mare verso la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi s'abbattesse ad essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo è quello che l'autore vuol dire: «Come fa l'onda..., Che si frange con quella in cui s'intoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose, delle quali l'una ciò che davanti le si para trangugia, e questo si chiama Silla, ed è dalla parte d'Italia; l'altra si chiama Cariddi, e questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero, questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra dissi l'onde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non veggiono la cagione della elevazione.]
Dice adunque l'autore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato, le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori, in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno l'onde predette.
«Lí», nel quarto cerchio, «vid'io gente, piú ch'altrove, troppa»; e di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E d'una parte e d'altra con grand'urli», cioè a destra e a sinistra, miseramente per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro», cioè l'un contro all'altro con questi pesi, li quali per forza voltavano, «e poscia», che percossi s'erano, «pur lí», cioè in quello medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando», quegli dell'una parte incontro all'altra: - «Perché tieni?»; - e incontro a questa gridava l'altra: - «E perché burli?» - cioè getti via. «Cosí tornavan», come percossi s'erano e avean gridato, «per lo cerchio tetro».
Appare per queste parole che 'l viaggio di costoro era circulare, e che, venuta l'una parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita, scontrava l'altra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette l'un contro all'altro le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e veniva al punto del cerchio donde prima partita s'era; e quivi ancora con l'altra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e quelle medesime parole l'un contro all'altro diceano; e cosí senza riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano «all'opposito punto» del cerchio, a quello onde partiti s'erano, «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole, «metro», cioè: - «Perché tieni? - E perché burli?». - Il quale l'autore chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «metros», graece, che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna misura, secondo la qualitá del verso.
«Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quand'era giunto», al punto del mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era dalla divina giustizia stabilito, «all'altra giostra», cioè percossa: e chiamala «giostra», percioché a similitudine de' giostratori s'andavano a ferire e a percuotere insieme.
«Ed io, ch'avea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla lupa, cioè dall'avarizia. E in questo è da comprendere invano esser da noi conosciuti i vizi e' peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire: come avea l'autore compunzione dell'essere avaro, che ancora, come nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché qui usa l'autore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi: - Maestro mio». Qui domanda l'autore Virgilio che gente questa sia, e per qual colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato t'ho, mi di' «e se tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra». - «Chercuti» gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora comprendeva loro per quello dovere esser cherici.
«Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli, che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dall'autore, e dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente dicendo: - «Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra, «fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte fanno, stando loro sopra capo, gl'inducono a guatarsi indietro, e i fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce, o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon guerci. Questa spezie d'uomini, quantunque non sia del tutto reputata giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]
E però dice: - «Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali, «in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani, lá dove esse eran da allargare, o essi l'allargaron troppo, lá dove eran da strignere; e cosí né nell'una parte né nell'altra servarono alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro l'abbaia», cioè il manifesta quando dicono: - «Perché tieni? - E perché burli?», - usando questo vocabolo «abbaia» nell'anime de' miseri in detestazion di loro, il quale è proprio de' cani; «Quando vengono a' due punti del cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono: - «Perché tieni? - E perché burli?» -), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide, facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon contrari. Le quali colpe vuole l'autore che sien queste, avarizia e prodigalitá, delle quali l'una appresso egli apre, e l'altra per l'aver detto «contraria» vuol che s'intenda, e dice:
«Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo ferventemente predicare dinanzi a' prencipi e a' popoli, li quali quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano, sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona», percioché, rasa tutta l'altra parte del capo, un sol cerchio di capelli vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda, come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio portano, «clerici» da «cleros», graece, che in latino suona quanto «uomini la sorte de' quali sia Iddio».]
«E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal quale, mediante san Piero, hanno l'autoritá grandissima, la quale santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in Purgatorio e in Paradiso, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella chiesa di Dio il sacro collegio
de' settantadue discepoli, li quali per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro s'appartiene, insieme col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale de' cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette, son chiamati cardinali da questo nome «cardo, cardinis», il quale ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e cosí da «cardo» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono, da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto l'uscio.]
«In cui», cioè ne' quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia, secondo Aristotile nel quarto della sua Etica, la inferiore estremitá di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si disidera l'altrui, o si tiene quello che l'uom possiede: della quale piú distesamente diremo, dove discriveremo l'allegorico senso della parte presente di questo canto. Questo vizio dice l'autore usare «il suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove non si dee tenere, ne' cherici, ne' quali tutti intende per queste due maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia molte parole.
E, avendo qui l'autore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che s'intenda per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»), con questo vizio insieme punircisi l'opposito dell'avarizia, cioè la prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come l'avarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando e come non si conviene; benché poco appresso l'autore alquanto piú apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.
«Ed io: - Maestro, tra questi cotali», che tu mi di' che furon cherici, e ancora tra gli altri, «Dovre' io ben riconoscere alcuni», percioché furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due peccati peccano (o vogliam dire: percioché l'autor peccò in avarizia, e l'un vizioso conosce l'altro); «Che fûro», vivendo «immondi», cioè brutti e macolati, «di cotesti mali», - cioè d'avarizia e di prodigalitá.
«Ed egli a me: - Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo: «La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i fe' sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non degni d'alcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè a' due punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dall'un dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale, «Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso s'intende; «e questi», cioè i prodighi, «co' crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente testificheranno la loro prodigalitá.]
[E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa: intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane, e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore, né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dell'anime nostre, ma prestano alcuno ornamento a' corpi; e perciò dirittamente sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze. Risurgeranno adunque i prodighi co' crin mozzi,] a dimostrare come essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro temporali ricchezze.
«Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza, «Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e» hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi insieme co' pesi i quali volgono, e col rimproverarsi l'una parte all'altra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.
«Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «De' ben», cioè delle ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo il volgar parlare delle genti, e ancora secondo l'opinion di molti; «Per che», cioè per i quali beni, «l'umana gente si rabbuffa». Il significato di questo vocabolo «rabbuffa» par ch'importi sempre alcuna cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è l'essersi l'uno uomo accapigliato con l'altro, per la qual capiglia, i capelli son rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però ne vuole l'autore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati, le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini hanno insieme per li crediti, per l'ereditá, per le occupazioni e per li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le fatiche vane, che intorno all'acquisto delle ricchezze si mettono. E dice: «Ché tutto l'oro, ch'è sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di sopra dimostrato, «Non poterebbe farne posar una», - non che trarla di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro sollecitudine s'è acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le quali parole udite da Virgilio muovono l'autore a fargli una domanda, dicendo: - «Maestro - dissi lui, - or mi di' anche».
[Lez. XXVII]
Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto, nella quale l'autore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa sia fortuna, e però dice: - «Maestro, or mi di' anche»; quasi dica: tu m'hai detto che tutto l'oro del mondo non potrebbe fare riposare una di queste anime, e per questo m'hai mostrato quanto sia vana la fatica di coloro li quali, posta la speranza loro in questi beni commessi alla fortuna, intorno all'acquistarne e all'adunarne si faticano; ma dimmi ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo de' beni che le son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra branche?», - cioè tra le mani e in sua podestá.
«E quegli a me», rispose dicendo: - «O creature sciocche. Quanta ignoranza è quella che v'offende!», credendo come voi non dovete credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento io: e dice «ne 'mbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale, la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello 'ntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li sensi esteriori e poi per gl'interiori concepe, quel sugo fruttuoso ne trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.
E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio, il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e die' lor chi conduce». E in questo sente l'autore con Aristotile, il quale tiene che ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo e perpetuo: e che l'autore questo senta, non solamente qui, ma in una delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, 'ntendendo, il terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli loro commessi da Dio, «Sí ch'ogni parte», della lor potenzia, «ad ogni parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde, «Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá, ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve; [«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono nelle creature la potenzia loro.]
E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere i cieli e a distribuire i loro effetti ne' corpi inferiori, cosí: «Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani», percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá; e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni vani «Di gente in gente», cioè d'una nazione in un'altra, sí come noi leggiamo essere infinite volte avvenuto ne' tempi passati nelle gran cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e l'imperio degli assiri esser trapassato ne' medi, e de' medi ne' persi, e de' persi ne' greci, e de' greci ne' romani; e, lasciando stare gli antichi, de' quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante, noi abbiamo veduto ne' nostri dí la gloria e l'onore dell'armi e della magnificenza, e della Magna e de' franceschi, esser trapassata negl'inghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma, ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si trasmuterá in altrui.
E segue: «e d'uno in altro sangue». La sentenza delle quali parole, quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno, volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam dire «d'una famiglia in un'altra», in quanto d'un medesimo sangue si tengono quegli che d'una medesima famiglia sono; sí come, accioché le cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá nostra piena di queste trasmutazioni. Furon de' nostri dí i Cerchi, i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension de' senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in parole..
E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera», signoreggiando, «e l'altra langue», servendo; e ciò avviene, «Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», a' sensi umani, «come in erba l'angue». Anguis una spezie di serpenti, la quale ha la pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita ne' prati fra l'erbe; e percioché egli è con l'erbe d'un medesimo colore, rade volte fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice l'autore, il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto a' sensi umani, ch'egli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a questo, roborando ancora l'autore la predetta cagione, séguita:
«Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di questa ministra s'inchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno, possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e questo essere vero, s'è giá per molte manifeste cose veduto. [Creso, re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re de' medi, in due sogni, che il figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola, il dovea privare dello 'mperio d'Asia: né gli giovò il maritarla ad uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio di questa ministra fermato. Non poterono l'avere cacciato del regno d'Alba in villa Numitore, d'avere ucciso Lauso, suo figliuolo, d'aver fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci tirare all'attitudine dataci da' cieli: ma, se noi vorremo esser prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice Giovenale: «Nullum numen», ecc., percioché il seguir noi il desiderio concupiscibile, ne fa rimaner vinti da' movimenti di questa ministra, ecc.]
E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono, sí come son queste terrene da ordinato movimento de' cieli produtte, secondo la potenzia de' quali esse si permutano, non altramente che se da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè l'intelligenze, delle quali di sopra è detto.
[E, in questa parte, l'autore, quanto piú può, secondo il costume poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate, non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e corporea fossero; il che qui l'autore usa, mostrando la fortuna aver sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui l'autore nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non s'attribuiscono. Dalle quali fizioni è venuto che alcuni in forma d'una donna dipingono questo nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota, sí come per Boezio, De consolatione, appare. Ma chi le fascia gli occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá, ogni permutazion dí costei va a diterminato e veduto fine; e, se l'effetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il quale avvedutamente quella ischifa.]
«Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali, «non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che guerreggiano hanno ne' tempi delle triegue; e, percioché nelle sue permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa esser veloce». E in queste parole vuole intendere l'autore i movimenti di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce, «che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte nella vita sua.
«Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle bestemmie e da' rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce», cioè ne' loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella s'è beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie e' rammarichii: «Con l'altre prime creature», cioè co' cieli e con le intelligenzie separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e beata si gode», non curando di queste cose.
[Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa fortuna, della qual qui l'autore domanda Virgilio; quantunque molte cose in dimostrarlo n'abbia dette l'autore, e, conchiudendo, mostri di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano, io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non l'universale effetto de' vari movimenti de' cieli, li quali movimenti si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará l'universale effetto de' movimenti de' cieli causato dalla divina mente e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore de' beni temporali, de' quali essi movimenti de' cieli sono causatori. E dicesi dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion de' cieli. E percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia opinion de' filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che l'universale loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali, similmente debba essere in continuo movimento: e se l'universale effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che gl'ingegni umani comprendano le particularitá infinite di questo universale effetto de' cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque l'arte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non paiono gl'ingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti de' corpi de' pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il cielo dimostra dover producere, né quello che a ciò seguire o fuggire, per avere o per fuggire quello che s'apparecchia, sia sofficiente né bastevole: e però ottimamente dice l'autore i consigli umani non poter comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni delle cose prodotte da' cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita; e se i movimenti de' cieli son veloci, e le cose causate da loro seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo, cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e delle minori.]
[Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono: intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni de' cieli adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni de' cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno, quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]
[Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a beneplacito, come quasi a tutte l'altre è stato posto; e, secondo che le cose secondo i nostri piaceri o contrarie n'avvengono, le chiamiamo «buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male, secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la veritá, la sentenza di questi versi:
/* Si Fortuna volet, fies de rhetore consul; si volet haec eadem, fies de consule rhetor, ecc. */
E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero, i romani piú che gli altri peccarono. Nondimeno, quantunque di necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti delle cose causate da' cieli, delle quali l'anime nostre non sono, percioché sopra i cieli son create da Dio e infuse ne' corpi nostri, dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non potenti contro a nostro piacere. Il che in assai s'è potuto vedere, in Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:
/* Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te, nos facimus, Fortuna, deam, caeloque locamus. */
E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con l'appetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio, per lo quale n'è conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni sua potenza.]
[Adunque questo effetto universale de' movimenti de' cieli e delle loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual noi vogliamo esser ministra e duce de' beni temporali. E in questa opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero que' poeti, li quali sentirono che l'una delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte. E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché, come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni e' mutamenti di ciascuno, assai appare ciò non essere altro che l'universale effetto di tutti i cieli, da' quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati in noi.]
[E questa fortuna chiama l'autore «dea», poeticamente parlando, e secondo l'antico costume de' gentili, li quali ogni cosa, la qual vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti, li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol l'autore sentire per questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io m'abbia detto intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ogn'altra cosa, sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
[Lez. XXVIII]
«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale l'autore fa tre cose: prima dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello 'nferno, dove dice trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi; nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí girammo».
Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi mossi». Nelle quali parole l'autore discrive che ora era della notte, e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la quale sovra l'orizzonte orientale della regione cominciava a salire in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il dimostra, dicendo: «Lo giorno se n'andava»), era salita infino al cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano, secondando il cielo il suo girare, a discendere verso l'orizzonte occidentale. E, fatta questa discrizion dell'ora della notte, quasi per quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e 'l troppo star si vieta», cioè m'è proibito da Dio, per lo mandato del quale io vengo teco.
«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone «all'altra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero «Sovr'una fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», l'acqua cosí bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dell'acqua che essa fonte riversa. «L'acqua», la qual questa fonte riversa, «era buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano l'acque i colori, i sapori, i calori e l'altre qualitá nel ventre della terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore; «altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; l'olio petroio d'Allacone, l'acque di Volterra, l'acque d'Ambra, l'acqua da Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dell'onde bige», cioè lunghesso l'acque bigie, come i compagni vanno l'uno lunghesso l'altro per un cammino (e chiama quest'acqua oscura e nera «bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma, largamente parlando, lo 'ntende per nero); e cosí, andando con queste onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè malvagia.
Poi segue: «Una palude fa, c'ha nome Stige, Questo tristo ruscel»; e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del luogo, donde l'acqua non aveva cosí tosto l'uscita, «c'ha nome Stige». E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in quel cerchio sono.
[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono da' poeti, la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono, quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:
... Stigiamque paludem,
dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc.
E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio, avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare» cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu favorevole agl'iddii quando combatterono co' figliuoli di Titano, e vollesi piú tosto concedere a loro che a' detti figliuoli di Titano.]
[L'allegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile, la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò è detta figliuola d'Acheronte, il qual, come davanti è detto, viene a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dall'essere senza allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte l'acque procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo della Terra ciò che esce del ventre suo, come l'acqua fa che è in questa palude.]
[Che ella sia nutrice e albergatrice degl'iddii, non vollero i poeti senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere di tristizia: o l'uomo s'attrista percioché egli non può a' suoi dannosi desidèri pervenire; o l'uomo s'attrista cognoscendo che egli ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di tristizia non fu mai nutrice né albergatrice degl'iddii, anzi è loro nimica e odiosa, intendendo gl'«iddii» per l'anime de' beati; ma la seconda fu ed è nutrice degl'iddii, cioè di coloro li quali divengono iddii, cioè beati: percioché il dolersi e l'attristarsi delle cose men che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie ne mostrano; e noi cristiani, per l'attristarci de' nostri peccati, n'andiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani. Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio d'avere ottimamente sentito nel sesto del suo Eneida, lá dove egli manda i perfidi e ostinati uomini in quella parte dello 'nferno, la quale esso chiama Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena ne' campi Elisi, cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie de' beati. O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono, gl'iddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle, le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico». Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti, esso fa quello che gli astrologhi chiamano «zenit capitis»; e in questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige, secondo l'opinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi superiori della umiditá de' vapori surgenti dall'acqua si pascessero; e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli scrisse Delle cose sacre d'Egitto, dicendo che la palude di Stige è appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che non guari lontano da Siene, estrema parte d'Egitto verso il mezzodí, essere un luogo il quale è chiamato da' greci «phile», il quale è tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole e faticoso, percioché è molto limosa e impedita da' giunchi, li quali essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di tristizia, per la troppa fatica a' trapassanti.]
[Che gl'iddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che temere; e questi cotali sono gl'iddii, i quali i gentili dicevano esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio, credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin beveraggio, cioè dalla felicitá, nell'amaritudine della miseria.]
[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre non s'ha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare, né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in ispiare i mutamenti e gli andamenti de' nemici, in por gli aguati, in prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad affligger l'uomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser tormentati in questa padule bogliente gl'iracundi e gli accidiosi. Dice adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso», cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte nelli lor fondi piene di loto e di fango, per l'acqua che sta oziosa e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dell'acqua, e sí ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean, non pur con mano», battendo e offendendo l'un l'altro e se medesimi, «Ma con la testa», cozzando l'uno contro l'altro, «e col petto», l'un contro all'altro impetuosamente scontrandosi, «e co' piedi», dandosi de' calci, e «Troncandosi co' denti», le membra e la persona, «a brano a brano», cioè a pezzo a pezzo.
«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno che cosí si troncano, e dice: - «Figlio, or vedi L'anime di color cui vinse l'ira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco vo'
che tu per certo credi Che sotto l'acqua», di questa padule, «ha gente che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular quest'acqua al summo». Noi diciamo nell'acqua «pullulare» quelle gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare all'acqua, o per aere che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra vi surga. «Come l'occhio», cioè il viso, «ti dice u' che s'aggira»; e cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori, e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto l'acqua sospirava o si doleva.
«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive de' fiumi l'acqua torbida, quando il fiume viene scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa maniera sono quasi tutti i fondi de' paduli. Dice adunque che in questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali «dicon: - Tristi fummo, Nell'aer dolce, che del sol s'allegra», cioè si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso fummo», cioè il vizio dell'accidia, il qual tiene gli uomini cosí intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nell'aer dolce, qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta negra», - in quel fango di quella padule, l'acqua della quale ha di sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dell'acqua sotto la quale ella sta e che la mena.
«Quest'inno». Gl'«inni» son parole composte di certe spezie di versi, e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario, il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta ne' suoi uffici; ma in questa parte scrive l'autore il vocabolo, ma non l'effetto di quello, percioché dove l'inno contiene la divina laude propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi, dicono in modo d'inno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa, non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello, che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola piena del fango e dell'acqua del padule, è di necessitá che essi si gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.
«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte principale, nella quale l'autore dimostra il processo del loro andare, e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda pozza Grand'arco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa d'un arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze d'acqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto a' poeti (cioè d'usare un vocabolo per un altro), per la stretta legge de' versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono, «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva l'acqua del padule, «e 'l mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza», cioè a' peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè d'una torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.