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jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XXV

CANTO XXV

[Canto XXV, che tratta come l'auttore parla con Beatrice e con santo Iacopo Maggiore sopra certe questioni de le quali santo Iacopo solve la prima.]

Se mai continga che 'l poema sacro

al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m'ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra

del bello ovile ov' io dormi' agnello,

nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello

ritornerò poeta, e in sul fonte

del mio battesmo prenderò 'l cappello;

però che ne la fede, che fa conte

l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi

Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi

di quella spera ond' uscì la primizia

che lasciò Cristo d'i vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,

mi disse: «Mira, mira: ecco il barone

per cui là giù si vicita Galizia».

Sì come quando il colombo si pone

presso al compagno, l'uno a l'altro pande,

girando e mormorando, l'affezione;

così vid' ïo l'un da l'altro grande

principe glorïoso essere accolto,

laudando il cibo che là sù li prande.

Ma poi che 'l gratular si fu assolto,

tacito coram me ciascun s'affisse,

ignito sì che vincëa 'l mio volto.

Ridendo allora Bëatrice disse:

«Inclita vita per cui la larghezza

de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza:

tu sai, che tante fiate la figuri,

quante Iesù ai tre fé più carezza».

«Leva la testa e fa che t'assicuri:

ché ciò che vien qua sù del mortal mondo,

convien ch'ai nostri raggi si maturi».

Questo conforto del foco secondo

mi venne; ond' io leväi li occhi a' monti

che li 'ncurvaron pria col troppo pondo.

«Poi che per grazia vuol che tu t'affronti

lo nostro Imperadore, anzi la morte,

ne l'aula più secreta co' suoi conti,

sì che, veduto il ver di questa corte,

la spene, che là giù bene innamora,

in te e in altrui di ciò conforte,

dì quel ch'ell' è, dì come se ne 'nfiora

la mente tua, e dì onde a te venne».

Così seguì 'l secondo lume ancora.

E quella pïa che guidò le penne

de le mie ali a così alto volo,

a la risposta così mi prevenne:

«La Chiesa militante alcun figliuolo

non ha con più speranza, com' è scritto

nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

però li è conceduto che d'Egitto

vegna in Ierusalemme per vedere,

anzi che 'l militar li sia prescritto.

Li altri due punti, che non per sapere

son dimandati, ma perch' ei rapporti

quanto questa virtù t'è in piacere,

a lui lasc' io, ché non li saran forti

né di iattanza; ed elli a ciò risponda,

e la grazia di Dio ciò li comporti».

Come discente ch'a dottor seconda

pronto e libente in quel ch'elli è esperto,

perché la sua bontà si disasconda,

«Spene», diss' io, «è uno attender certo

de la gloria futura, il qual produce

grazia divina e precedente merto.

Da molte stelle mi vien questa luce;

ma quei la distillò nel mio cor pria

che fu sommo cantor del sommo duce.

'Sperino in te', ne la sua tëodia

dice, 'color che sanno il nome tuo':

e chi nol sa, s'elli ha la fede mia?

Tu mi stillasti, con lo stillar suo,

ne la pistola poi; sì ch'io son pieno,

e in altrui vostra pioggia repluo».

Mentr' io diceva, dentro al vivo seno

di quello incendio tremolava un lampo

sùbito e spesso a guisa di baleno.

Indi spirò: «L'amore ond' ïo avvampo

ancor ver' la virtù che mi seguette

infin la palma e a l'uscir del campo,

vuol ch'io respiri a te che ti dilette

di lei; ed emmi a grato che tu diche

quello che la speranza ti 'mpromette».

E io: «Le nove e le scritture antiche

pongon lo segno, ed esso lo mi addita,

de l'anime che Dio s'ha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita

ne la sua terra fia di doppia vesta:

e la sua terra è questa dolce vita;

e 'l tuo fratello assai vie più digesta,


là dove tratta de le bianche stole,

questa revelazion ci manifesta».

E prima, appresso al fin d'este parole,

'Sperent in te' di sopr' a noi s'udì;

a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiarì

sì che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo,

l'inverno avrebbe un mese d'un sol dì.

E come surge e va ed entra in ballo

vergine lieta, sol per fare onore

a la novizia, non per alcun fallo,

così vid' io lo schiarato splendore

venire a' due che si volgieno a nota

qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi lì nel canto e ne la rota;

e la mia donna in lor tenea l'aspetto,

pur come sposa tacita e immota.

«Questi è colui che giacque sopra 'l petto

del nostro pellicano, e questi fue

di su la croce al grande officio eletto».

La donna mia così; né però piùe

mosser la vista sua di stare attenta

poscia che prima le parole sue.

Qual è colui ch'adocchia e s'argomenta

di vedere eclissar lo sole un poco,

che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fec' ïo a quell' ultimo foco

mentre che detto fu: «Perché t'abbagli

per veder cosa che qui non ha loco?

In terra è terra il mio corpo, e saragli

tanto con li altri, che 'l numero nostro

con l'etterno proposito s'agguagli.

Con le due stole nel beato chiostro

son le due luci sole che saliro;

e questo apporterai nel mondo vostro».

A questa voce l'infiammato giro

si quïetò con esso il dolce mischio

che si facea nel suon del trino spiro,

sì come, per cessar fatica o rischio,

li remi, pria ne l'acqua ripercossi,

tutti si posano al sonar d'un fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,

quando mi volsi per veder Beatrice,

per non poter veder, benché io fossi

presso di lei, e nel mondo felice!

martes, 18 de agosto de 2020

LA DIVINA COMMEDIA, italiano, inferno, canto I

LA DIVINA COMMEDIA

di Dante Alighieri

INFERNO

CANTO I

[Incomincia la Commedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

Tant' è amara che poco è più morte;

ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,

dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com' i' v'intrai,

tant' era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,

là dove terminava quella valle

che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle

vestite già de' raggi del pianeta

che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,

che nel lago del cor m'era durata

la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,

uscito fuor del pelago a la riva,

si volge a l'acqua perigliosa e guata,

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,

si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,

ripresi via per la piaggia diserta,

sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,

una lonza leggiera e presta molto,

che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,

anzi 'mpediva tanto il mio cammino,

ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

Temp' era dal principio del mattino,

e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle

ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle;

sì ch'a bene sperar m'era cagione

di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione;

ma non sì che paura non mi desse

la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse

con la test' alta e con rabbiosa fame,

sì che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame

sembiava carca ne la sua magrezza,

e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza

con la paura ch'uscia di sua vista,

ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,

e giugne 'l tempo che perder lo face,

che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,

che, venendomi 'ncontro, a poco a poco

mi ripigneva là dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco,

dinanzi a li occhi mi si fu offerto

chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,

«Miserere di me», gridai a lui,

«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,

e li parenti miei furon lombardi,

mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,

e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto

nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto

figliuol d'Anchise che venne di Troia,

poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?

perché non sali il dilettoso monte

ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte

che spandi di parlar sì largo fiume?»,

rispuos' io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume,

vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore

che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,

tu se' solo colui da cu' io tolsi

lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi;

aiutami da lei, famoso saggio,

ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro vïaggio»,

rispuose, poi che lagrimar mi vide,

«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride,

non lascia altrui passar per la sua via,

ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,

che mai non empie la bramosa voglia,

e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s'ammoglia,

e più saranno ancora, infin che 'l veltro

verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,

ma sapïenza, amore e virtute,

e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute

per cui morì la vergine Cammilla,

Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa,

fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,

là onde 'nvidia prima dipartilla.

Ond' io per lo tuo me' penso e discerno

che tu mi segui, e io sarò tua guida,

e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida,

vedrai li antichi spiriti dolenti,

ch'a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti

nel foco, perché speran di venire

quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,

anima fia a ciò più di me degna:

con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,

perch' i' fu' ribellante a la sua legge,

non vuol che 'n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;

quivi è la sua città e l'alto seggio:

oh felice colui cu' ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio

per quello Dio che tu non conoscesti,

a ciò ch'io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov' or dicesti,

sì ch'io veggia la porta di san Pietro

e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

Canto 2

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