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sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO DECIMOSESTO

CANTO DECIMOSESTO

[Lez. LVIII]

«Giá era il loco, ove s'udia il rimbombo». ecc. Continuasi il presente canto al superiore, in questa guisa: noi dobbiamo intendere che, partito ser Brunetto, l'autore e Virgilio incontanente con piú veloce passo cominciarono a continuare il lor cammino; il quale continuando, mostra l'autore, nel principio del presente canto, loro esser pervenuti in quella parte, dove il fiumicello, su per l'argine del quale andavano, cadeva nell'ottavo cerchio dello 'nferno; e quindi séguita, discrivendo quello che, in quella parte, dove pervennero, vedesse. E dividesi il presente canto in nove parti: nella prima per alcun segno dimostra il luogo dove venissero; nella seconda dice come tre ombre, di lontano correndo verso loro, gli chiamavano; nella terza dice come Virgilio gl'impone che aspetti tre ombre le quali il venivan chiamando; nella quarta scrive chi questi tre fossero; nella quinta dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse; nella sesta dimostra una domanda fatta da loro e la sua risposta; nella settima pone un priego fattogli da loro e la lor partita; nella ottava come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello; nella nona pone come, per opera di Virgilio, la Fraude venisse alla riva, alla quale essi erano pervenuti. E comincia la seconda quivi: «Quando tre ombre»; la terza quivi: «Alle lor grida»; la quarta quivi: «Ricominciâr, come noi»; la quinta quivi: «S'io fossi»; la sesta quivi: - «Se lungamente»; la settima quivi: - «Se l'altre volte»; la ottava quivi: «Io il seguiva»; la nona quivi: «Io avea una».

Comincia adunque cosí: «Giá era il loco», al quale pervenuti eravamo, «ove s'udia il rimbombo Dell'acqua», cioè di quel fiumicello del quale ha detto di sopra; e chiamiam noi «rimbombo» quel suono, il quale rendono le valli, d'alcun suono che in esse si faccia; e questo rimbombo, perché l'acqua di quel fiumicello «cadea nell'altro giro», cioè nel cerchio ottavo dello 'nferno; il quale rimbombo, dice l'autore, era «Simile a quel che l'arnie fanno rombo», cioè era simile a quel rombo che l'arnie fanno, cioè gli alvei o i vasi ne' quali le pecchie fanno li lor fiari, il quale è un suon confuso, che simigliare non si può ad alcun altro suono.

«Quando tre ombre». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella qual, poi che l'autore ha discritto il luogo dove pervenuti erano, dice come Virgilio gl'impose che aspettasse tre ombre. le quali il venivan chiamando, e dice cosí: «Quando tre ombre insieme si partîro, Correndo», verso loro, «d'una turba», d'anime, «che passava», ivi vicino a loro, «Sotto la pioggia dell'aspro martíro», cioè di quelle fiamme. «Venían ver'noi», correndo; «e ciascuna gridava: - Sóstati tu, che all'abito ne sembri Essere alcun di nostra terra prava», - cioè di Firenze. E puossi in queste parole comprendere, in quanto dicono che «all'abito ne sembri», che quasi ciascuna cittá aveva un suo singular modo di vestire distinto e variato da quello delle circunvicine; percioché ancora non eravam divenuti inghilesi né tedeschi, come oggi agli abiti siamo.

«Aimè! che piaghe», cotture, come hanno quegli che con le tenaglie roventi sono attanagliati, «vidi ne' lor membri, Ricenti e vecchie, dalle fiamme accese», fatte. «Ancor men duol, pur ch'io me ne rimembri», cioè ricordi. Suole l'autore nelle parti precedenti sempre mostrarsi passionato, quando vede alcuna pena, della quale egli si sente maculato: non so se qui si vuole che l'uomo intenda per questa compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa scellerata colpa; e però il lascio a considerare agli altri.

«Alle lor grida», le quali chiamando facevano, «il mio dottor s'attese»; e, conosciutigli, «Volse il viso ver'me, e: - Ora aspetta, - Disse; - a costor si vuole esser cortese», cioè d'aspettargli e d'udirgli. E in ciò mostra sentire costoro essere uomini autorevoli e famosi, li quali, quantunque dannati sieno, nondimeno quelle cose, che valorosamente operarono, gli fanno degni d'alcuna onorificenza. E poi segue: «E se non fosse il fuoco che saetta La natura del luogo», sí come la divina giustizia vuole, «io dicerei che meglio stesse a te», andando loro incontro, «ch'a lor la fretta», - di correr verso di te.

«Ricominciâr, come noi ristemmo, ei», cioè essi, «L'antico verso», cioè chiamandoci; «e, quando a noi fûr giunti, Fêro una ruota di sé tutti e trei».

«Qual soleano i campion far nudi ed unti, Avvisando lor presa e lor vantaggio». Usavano gli antichi, e massimamente i greci, molti giuochi e di diverse maniere, e questi quasi tutti facevano nelli lor teatri, accioché da' circunstanti potessero esser veduti; e quella parte del teatro, dove questi giuochi facevano, chiamavan «palestra». E tra gli altri giuochi, usavano il fare alle braccia, e questo giuoco si chiamava «lutta». E a questi giuochi non venivano altri che giovani molto in ciò esperti, e ancora forti e atanti delle persone, e chiamavansi «atlete», li quali noi chiamiamo oggi «campioni»; e, per potere piú espeditamente questo giuoco fare, si spogliavano ignudi, accioché i vestimenti non fossero impedimento o vantaggio d'alcuna delle parti; ed, oltre a questo, accioché piú apertamente apparisse la virtú del piú forte, s'ugnevan tutti o d'olio o di sevo o di sapone: la quale unzione rendeva grandissima difficultá al potersi tenere, percioché ogni piccol guizzo, per opera dell'unzione, traeva l'uno delle braccia all'altro; e cosí unti, avanti che venissero al prendersi, si riguardavan per alcuno spazio, per prendere, se prender si potesse, alcun vantaggio nella prima presa. E questo è ciò che l'autore in questa comparazione vuol dimostrare.

E poi, per compiere la comparazion, segue: «Prima che sien tra lor battuti e punti». Parla qui l'autore metaphorice, percioché a questo giuoco non interviene alcuna battitura o puntura corporale, ma mentale puote intervenire, in quanto colui, che ha il piggior del giuoco, è battuto e punto da vergogna.

Poi segue: «Cosí, rotando», volgevansi questi tre in modo di ruota, per non istar fermi, e come che si volgessono, sempre tenevano il viso vòlto verso l'autore e con lui parlavano; e questo è quello che vuol dire: «ciascuna il visaggio Drizzava a me; sí che 'n contrario il collo Faceva a' piè continuo viaggio»; in quanto il collo si torceva verso l'autore, ove i piedi talvolta si volgevano, e secondo che il moto circulare richiedeva, verso il sabbione.

E, cosí rotandosi, cominciò l'un di loro a dire all'autore: - «E se miseria d'esto luogo sollo», cioè non tanto fermo, percioché di sopra la rena, la quale è di sua natura rara, è malagevole a fermare i piedi; «Rende in dispetto noi», facendoci parere degni d'essere avuti poco a pregio, e per conseguente, «e' nostri prieghi, - Cominciò l'uno», di loro a dire, e, oltre a ciò, - «il tristo aspetto e brollo», in quanto siamo dal continuo fuoco cotti e disformati; ma, non ostante questa deformitá, «La fama nostra», la qual di noi nel mondo lasciammo, «il tuo animo pieghi», a compiacerne di questo, cioè «A dirne chi tu se', che i vivi piedi Cosí sicuro per lo 'nferno freghi»; quasi voglia dire: percioché questo ne fa assai maravigliare.

E, accioché esso renda l'autore liberale a dover far quello che addomanda, prima che la risposta abbia di ciò, che egli addomanda, nomina i compagni suoi e sé, dicendo: «Questi, l'orme di cui pestar mi vedi», dice di colui che davanti gli andava, l'orme del quale conveniva a lui, che il seguiva correndo, pestare, cioè scalpitare, «Tutto», cioè posto, «che nudo e dipelato vada», percioché le fiamme, le quali cadevano accese, gli avevano tutta arsa la barba e' capelli, e però dice «dipelato»; «Fu di grado maggior», di nobiltá di sangue e di stato e d'operazioni, «che tu non credi», vedendolo cosí pelato e cotto: «Nepote fu della buona Gualdrada», cioè figliuolo del figliuolo di questa Gualdrada, e cosí fu nepote.

Questa Gualdrada, secondo che soleva il venerabile uomo Coppo di Borghese Domenichi raccontare, al qual per certo furono le notabili cose della nostra cittá notissime, fu figliuola di messer Bellincion Berti de' Ravignani, nostri antichi e nobili cittadini: ed essendo per avventura in Firenze Otto quarto imperadore, e quivi per farla piú lieta della sua presenza andato alla festa di San Giovanni, avvenne che insieme con l'altre donne cittadine, sí come nostra usanza è, la donna di messer Berto venne alla chiesa, e menò seco questa sua figliuola, chiamata Gualdrada, la quale era ancor pulcella. E postesi da una parte con l'altre a sedere, percioché la fanciulla era di forma e di statura bellissima, quasi tutti i circunstanti si rivolsero a riguardarla, e tra gli altri lo 'mperadore, il quale, avendola commendata molto e di bellezza e di costumi, domandò messer Berto, il quale era davanti da lui, chi ella fosse. Al quale messer Berto, sorridendo, rispose: - Ella è figliuola di tale uomo, che mi darebbe il cuore di farlavi basciare, se vi piacesse. - Queste parole intese la fanciulla, sí era vicina a colui che le dicea, e, alquanto commossa della opinione che il padre aveva mostrata d'aver di lei, che ella, quantunque egli volesse, si dovesse lasciar basciare ad alcuno men che onestamente; levatasi in piede, e riguardato alquanto il padre, e un poco per vergogna mutata nel viso, disse: - Padre mio, non siate cosí cortese promettitore della mia onestá, ché per certo, se forza non mi fia fatta, non mi bascerá mai alcuno, se non colui il quale mi darete per marito. - Lo 'mperadore, che ottimamente la 'ntese, commendò maravigliosamente le parole e la fanciulla, affermando seco medesimo queste parole non poter d'altra parte procedere che da onestissimo e pudico cuore; e perciò subitamente venne in pensiero di maritarla. E, fattosi venir davanti un nobil giovane chiamato Guido Beisangue, che poi fu chiamato conte Guido vecchio, il quale ancora non avea moglie, e lui confortò e volle che la sposasse: e donògli in dote un grandissimo territorio in Casentino e nell'Alpi, e di quello lo intitolò conte. E questi poi di lei ebbe piú figliuoli, tra' quali ebbe il padre di colui di cui qui si ragiona, il quale volle che nominato fosse Guido, percioché il primo suo figliuolo fu. E, percioché questa Gualdrada fu valorosa e onorabile donna, la cognomina qui l'autor «buona»; e perciò da lei dinomina il nipote, perché per avventura estimò lei essere stata donna da molto piú che il marito non fu uomo.

Appresso questo, dice l'autore il nome di questo nepote della Gualdrada, dicendo: «Guido Guerra ebbe nome». Il sopranome di questo Guido si crede venisse da un disiderio innato d'arme, il quale si dice che era in lui, d'esser sempre in opere di guerra. «Ed in sua vita Fece col senno assai e con la spada».

Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò, dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s'ampliò molto.

«L'altro, ch'appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe esser gradita», percioché furon l'opere sue laudevoli.

Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di graride animo e d'operazion commendabili e di gran sentimento in opera d'arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo, sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.

«Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento, «Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben riempie' dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.

«E certo La fiera moglie, piú ch'altro, mi nuoce», in ciò che io sia dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere, come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi da lei, stimolandolo l'appetito carnale, egli si diede alla miseria di questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini curando che dell'ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella perdizione eterna avere questo supplicio.]

[Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie, anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa, assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender qualunque femmina, l'uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale egli compose Contro a Gioviniano eretico, che Teofrasto, il qual fu solenne filosafo e uditore d'Aristotile, compose un libro il qual si chiama De nuptiis, e in parte di quello domanda se il savio uomo debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo, dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d'onesti parenti, e se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere; incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa innanzi all'altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun che possa a' libri e alla moglie servire.]

[Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l'oro, le gemme, le serve e gli arnesi delle camere. Appresso, dall'aver moglie procede che tutte le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella: - Donna cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da tutti, e io tapinella tra' ragunamenti delle femmine sono avuta in dispetto. - Appresso: - Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina? Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien'dal mercato, che m'hai tu recato? - E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse incontanente suspicano che l'amore, che il marito porta ad alcuna altra persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze, potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l'asino, il bue, il cane, e' vilissimi servi, e ancora i vestimenti e' vasi e le sedie e gli orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]

[Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l'uomo la chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna altra persona d'amare il padre di lei, e qualunque altro parente o persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio, incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e, dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in odio; e, se il marito non consentirá tosto a' piacer suoi, di presente ricorre a' veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú, vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl'indovini, e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori de' preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se egli vieterá che essi non v'entrino, incontanente la moglie si reputa ingiuriata, in ciò che il marito mostra d'aver sospeccion di lei. Ma che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica, alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de' lor costumi, e certi sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa quella cosa la quale d'ogni parte è combattuta.]

[E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna, quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare e stanno dintorno all'uomo infermo gli amici e' servi domestici, obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci la sua sollecitudine, l'anima di colui ch'è infermo turbi infino alla disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s'egli avverrá che la moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova), piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che mai furono; ed ha l'animo libero, il quale in quella parte che piú gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d'uomini, egli parla con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è solo.]

[Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché 'l nome nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi, partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá, paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi son gli amici e i propinqui, li quali tu t'avrai eletti, che non son quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d'avere.]

[Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò che da Teofrasto, possiam comprendere per l'esemplo del misero messer Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne alcuna si dispongono, percioché rade volte s'abbatte l'uomo a Lucrezia e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la notte nel letto son diavoli.]

[Lez, LIX]

Poi séguita l'autore: «S'io fossi stato»; dove comincia la quinta parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste tre ombre sieno e 'l priego loro, dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse. Dice adunque: «S'io fossi stato dal fuoco coperto», che non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell'argine, «tra lor di sotto, E credo che 'l dottor l'avria sofferto», considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch'io mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura», ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea ghiotto», cioè disideroso.

«Poi cominciai: - Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia», cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me, «Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè degna d'onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.

Poi che l'autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo aveva detto («E se miseria d'esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor dire se egli era della lor cittá, e dice: - «Di vostra terra sono», cioè della cittá vostra, «e sembrami L'ovra di voi» laudevole (non il peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l'amaritudine del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva, dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo pe' dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca», cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond'io, per lo tuo me', penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè infino al profondo dello 'nferno, «pria convien ch'io torni», - cioè discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle cose precedenti stata mostrata.

«Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale, poi che l'autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse, ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e dice: - «Se lungamente», cioè per molti anni, «l'anima conduca Le membre tue», cioè ti servi in vita - «rispose quegli allora», cioè messer Iacopo, - «E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura, disiderate molto da' mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par che riguardi piú all'onore della republica, all'altezza delle 'mprese, e ancora agli esercizi dell'arme, nelle quali costoro furono onorevoli e magnifici cittadini; «di' se dimora, Nella nostra cittá, sí come suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n'è gita fuora», cioè partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la cagione che il muove a dubitare e a domandarne.

«Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra' grandi e gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare gli animi de' faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l'aver poche volte peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá co' compagni», da' quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne cruccia con le sue parole», - dicendone che del tutto partita se n'è.

Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o due l'anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme, non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora invitavan talvolta de' lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell'albergo e piú onorevolmente ricevere. E tra loro sempre si ragionava di cortesia e d'opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda se piú in Firenze s'usa, conciosiacosaché alli lor tempi s'usasse, disiderando di saperlo dall'autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il qual visse sí lungamente, che mostra che a' suoi tempi quella usanza vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.

E a questa domanda fa l'autore la seguente risposta: - «La gente nuova, e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sí che tu giá ten piagni. - Cosí gridai con la faccia levata».

Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente per la famiglia de' Cerchi, li quali poco davanti a' tempi dell'autore erano venuti del Pivier d'Acone ad abitare in Firenze; e subitamente, per l'esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché, come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n'eran seguite: la qual cosa l'autore, sí come colui al qual toccava, turbato e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi, disse.

«E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta», fatta alla lor domanda, «Guatâr l'un l'altro, come al ver si guata», cioè turbati, dando piena fede alle parole.

«Se l'altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella quale, poi che l'autore ha risposto alla lor domanda, ed egli pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo: - «Se l'altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al presente hai fatto, - «Risposer tutti, - il satisfare altrui, Felice te, che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d'esti luoghi bui», cioè oscuri dello 'nferno, «E torni a riveder le belle stelle», su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui», in inferno, «Fa' che di noi alla gente favelle», - non in dire come noi siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale dell'onore della nostra cittá, e duolci d'udire che cortesia o valor si sia partita di quella.

«Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d'uomini che fuggissero a tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè parve che volassero. «Un amen», questa dizione «amen», la qual si dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno, «cosí», prestamente, «com'ei furon spariti, Per che al maestro parve di partirsi», poi s'eran partiti essi.

«Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella quale, poi che l'autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite, dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell'acqua», la qual cadeva nell'ottavo cerchio dello 'nferno, e però faceva suono, «n'era sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena uditi», l'un l'altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d'una acqua che cade discendendo dell'Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per lo cammin dritto da Firenze a Forlí.

«Come quel fiume, c'ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver'levante, Dalla sinistra costa d'Appennino». Monte Veso è un monte nell'Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po. Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell'Alpi dalla parte di ver'ponente, e d'Appennino di ver'levante, e mette in mare per piú foci, e tra l'altre per quella di Primaro, presso a Ravenna; e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l'uomo da Po inver' levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone, percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi discende a Ravenna, e lungo le mura d'essa corre, e forse due miglia piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l'autore che egli viene dalla sinistra costa d'Appennino. Intorno alla qual cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel monte ch'è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver'mezzodi, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze, Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra d'Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina, dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante, sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il mare Adriano.

Dice adunque l'autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c'ha proprio cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra costa d'Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver'levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d'Appennino». E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c'ha prima proprio cammino da monte Veso inver'levante dalla sinistra costa d'Appennino, Che si chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome», Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma Montone è chiamato.

Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi Forum Livii, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor ciance d'una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse in rerum natura, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.

«Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell'Alpe, per cadere ad una scesa». Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo chiamato l'Eremo, e, discendendo a guisa d'un fossato, giú cade non guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d'un balzo giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a tempo piovoso corre con piú acqua.

«Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio di ciò che l'autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l'abate del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di questo luogo, dove quest'acqua cade, sí come in luogo molto comodo agli abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri, metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è quello che l'autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser ricetto», cioè stanza e abitazione.

«Cosí giú d'una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell'acqua tinta», di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che 'n poca ora avria l'orecchia offesa», percioché 'l troppo romore, a chi non è uso, offende e noia l'udire.

«Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta», quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle dipinta», quella bestia delle tre che 'l suo andare impediva. «Poscia che l'ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Sí come 'l duca m'avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a lui aggroppata ed avvolta. Ond'e' si volse ver'lo destro lato. Ed alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in quell'alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per lo avviluppamento d'esso.

Per la qual cosa l'autor dice: - «Ei pur convien che novitá risponda - Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio faceva, - «al nuovo cenno, Che 'l maestro con l'occhio si seconda», cioè segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l'occhio sopra l'acqua, e questo faceva piú credere all'autore che novitá dovesse rispondere.

«Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color che non veggion pur l'opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran col senno!» In queste parole assai notabili, n'ammonisce l'autore e ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a' savi uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto pensiero spesse volte s'accorgono de' nostri disidèri. E queste parole dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé quello che egli disiderava, cioè Gerione.

E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all'autore, il qual, seguendo, dice: «El disse a me: - Tosto verrá di sopra», a quest'acqua, «Ciò ch'io attendo, e», ciò, «che 'l tuo pensier sogna», cioè non certo vede, «Tosto convien ch'al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti. E, percioché quello, che seguir dee, pare all'autor medesimo una cosa incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza dire, se la materia l'avesse patito.

Dice adunque: «Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna», cioè che somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l'uom chiuder le labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui che 'l dice, «fa vergogna», a quel cotal che 'l dice; in quanto color, che l'odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo bugiardo.

«Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S'elle non sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti; e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l'ammaestramento di quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella presente Commedia si posson dir «note» quelle parti estreme de' versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E chiama l'autor qui questo suo libro Commedia, la quale è una spezie di poesia; e percioché d'essa nel principio della presente opera fu pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.

Poi l'autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch'io vidi per quell'aer grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro». Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion dimostra come questa figura notando venisse suso, e dice: «Sí come torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare, «Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l'áncora»: «l'áncora» è uno strumento di ferro, il quale dall'un de' lati ha piú rampiconi, e dall'altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch'aggrappa», cioè piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.

Usano i marinari quando vengono ne' porti con li lor legni, accioché il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte opposita alla terra, alcune ancore, e queste co' rampiconi loro si ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale l'áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l'áncora fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o altro dove ella s'appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l'ancora, come sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e sviluppila da' luoghi ove avviluppata è, accioché sú tirar si possa. Li quali poi, insú ritornando, fanno l'atto il quale qui l'autor dice che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno fatto da Virgilio. E l'atto di questo cotale dice che è: «Che 'nsu si stende», con le braccia, dalla spessezza dell'acqua aiutato a ritirarsi insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza dell'acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.

L'allegorie le quali in questo canto sono, cioè il supplicio di quelle anime dannate, con le quali l'autor mostra che lungamente parlasse, sono una medesima cosa con quella, la quale è nel canto quindicesimo, precedente a questo, e ancora con quella che è nel quattordicesimo; delle quali, percioché d'una medesima qualitá sono con quella che ancora è a recitare, e che è nel canto seguente, come altra volta di sopra è detto, si riserva a dimostrare dove appresso della terza spezie di coloro che a Dio e alle sue cose fanno violenza si tratterá: e però qui non curo dirne alcuna cosa. Appresso, quello che nella fine del presente canto si discrive della corda data a Virgilio dall'autore, e dello animale che, per lo cenno da Virgilio fatto, venne sopra 'l fiume, percioché ad un medesimo fine aspetta con quella fiera della quale l'autor tratta nel principio del seguente canto, per non fare d'una medesima materia due diversi sermoni, riserverò a dire dove di quella fiera diremo.

viernes, 2 de octubre de 2020

El Convivio, castellano, tratado segundo

Tratado segundo.

Canción primera.

Los que entendiendo movéis el tercer cielo,
oíd el lenguaje de mi corazón,

que yo no se expresar, tan nuevo me parece.
El cielo que creó vuestra valía,
vos las que sois gentiles criaturas,

me trajo a aqueste estado en que me encuentro:
de aquí, pues, que el hablar de la vida que llevo,
parezca dirigirse dignamente a vos;
por ello os ruego que me lo entendáis.

Os diré la novedad del corazón,

de cómo llora en él el alma triste

y cómo habla un espíritu contra ella,

que los rayos le traen de vuestra estrella.

Solía ser vida del corazón doliente

un suave pensamiento que se iba

muchas veces a los pies de Vuestro Señor.

Donde una dama, veía estar en gloria,

de quien hablábame tan dulcemente,

que mi alma decía: «Yo allí ir quiero».

Ahora aparece quien a huir le obliga

y se adueña de mí con fuerza tal,

que el temblor de mi corazón se muestra fuera.

Éste me hace mirar a una dama,

y dice: «Quien ver quiere la salud,

haga por ver los ojos de esta dama»,

si es que no teme angustias de suspiros.

Halla un contrario tal que lo destruye

el pensamiento humilde que hablarme suele
de un ángela en el cielo coronada.
El alma llora, tanto aún le duele,

y dice: «¡Triste de mí, y cuán me huye

el compasivo que me ha consolado!»

De mis ojos dice esta afanosa.

¡Mal hora fue en la que los vio tal dama!

¿Por qué no me creían a mí de ella?

Decía yo: «Sin duda en los sus ojos

debe estar el que mata a mis iguales,

y no me valió darme entera cuenta

que no mirasen tal, pues que fui muerta».

«No fuiste muerta, pero estás perdida,

alma nuestra que tanto te lamentas»,

dice un gentil espíritu de amor;

porque esa hermosa dama que tú sientes,

tu propia vida ha trastrocado tanto,

que tienes miedo de ella, tan cobarde te has vuelto.

Mírala cuán piadosa y cuán humilde,

cuán es sabia y cortés en su grandeza:

piensa, por tanto, en llamarla dama;

pues que, si no te engañas, has de ver

de tan altos milagros el adorno,

que dirás: «Amor, señor verdadero,

he aquí tu esclava, haz cuanto te plazca».

Canción creo yo que serán pocos

los que entender bien sepan tu lenguaje,

tan obscura y trabajosamente lo dices;

de aquí que si por caso te acaeciera

que te hallases delante de personas

que no creas que la hayan entendido,

ruégote entonces que te consueles

diciéndoles dilecta canción mía:

Considerad siquier cuán soy hermosa.

- I -

Ya que, hablando a manera de proemio, me ministro, mi pan está suficientemente preparado en el Tratado precedente, el tiempo pide y clama por que mi nave salga de puerto. Por lo cual, dirigido el timón de la razón al rumbo de mi deseo, lánzome al piélago con la esperanza de hallar camino suave y laudable puerto de salvación al fin de mi cena. Pero, a fin de que sea más provechoso mi alimento, antes de que llegue el primer manjar, quiero mostrar cómo se debe comer.

Digo que, tal como en el primer capítulo se ha referido, ha de ser esta exposición literal y alegórica. Y para dar a entender tal, es menester saber que los escritos puédense entender y se deben exponer principalmente en cuatro sentidos. Llámase el uno literal, y es éste aquél que no va más allá de la letra propia de la narración adecuada a la cosa de que se trata; de lo que es ciertamente ejemplo apropiado la tercera canción, que trata de la nobleza. Llámase el otro alegórico, y éste es aquel que se esconde bajo el manto de estas fábulas, y es una verdad escondida bajo bella mentira. Como cuando dice Ovidio que Orfeo con la cítara amansaba las fieras y conmovía árboles y piedras; lo cual quiere decir que el hombre sabio, con el instrumento de su voz, amansa y humilla los corazones crueles y conmueve a su voluntad a los que no tienen vida de ciencia y de arte; y los que no tienen vida racional, son casi como piedras. Y en el penúltimo Tratado se mostrará por qué los sabios hallaron este escondite. Los teólogos toman en verdad este sentido de otro modo que los poetas; mas como quiera que mi intención es seguir aquí la manera de los poetas, tomaré el sentido alegórico según es usado por los poetas.

El tercer sentido se llama moral; y éste es el que los lectores deben intentar descubrir en los escritos, para utilidad suya y de sus descendientes; como puede observarse en el Evangelio, cuando Cristo, subiendo al monte para transfigurarse, de los doce apóstoles llevóse tres consigo; en lo cual puede entenderse moralmente que en las cosas muy secretas debemos tener poca compañía.

Llámase el cuarto sentido anagógico, es decir, superior al sentido, y es éste cuando espiritualmente se expone un escrito, el cual, más que en el sentido literal por las cosas significadas, significa cosas sublimes de la gloria eterna; como puede verse en aquel canto del Profeta que dice que con la salida de Egipto del pueblo de Israel hízose la Judea santa y libre. Pues aunque sea verdad cuanto según en la letra se manifiesta, no lo es menos lo que espiritualmente se entiende; esto es, que al salir el alma del pecado, se hace santa y libre en su potestad.

Y al demostrar esto, siempre debe ir delante lo literal, como aquél en cuyo sentido están incluidos los demás, y sin el cual sería imposible e irracional entender los demás y principalmente el alegórico. Es imposible, porque en toda cosa que tiene interior y exterior es imposible llegar adentro si antes afuera no se llega. Por lo cual, comoquiera que en los escritos el sentido literal es siempre lo de fuera, es imposible llegar a los demás sin antes ir al literal. Además, es imposible, porque en todas las cosas naturales y artificiales es imposible proceder a la forma sin estar antes dispuesto el sujeto sobre el cual la forma ha de constituirse. Como es imposible que aparezca la forma del oro, si la materia, es decir su sujeto, no está primero digesta y preparada; ni que aparezca la forma del arca, si la materia, es decir, la madera, no está primero dispuesta y preparada. Por lo cual, dado que el sentido literal es siempre sujeto y materia de los demás, principalmente del alegórico, es imposible lograr venir primero a conocimiento de los demás que al suyo. Además es imposible, porque en todas las cosas naturales y artificiales es imposible proceder, si primero no se ha hecho el fundamento, como en la casa y en el estudio. Por lo cual, dado que el demostrar es edificación de ciencia y la demostración literal fundamento de las demás, principalmente de la alegórica, es imposible llegar a las demás antes que a aquélla.

Además, puesto que fuese posible, seria irracional, es decir, fuera de todo orden, y, por lo tanto, se procedería con mucho trabajo y mucho error. De aquí que, como dice el filósofo en el primero de la Física, la naturaleza quiere que en nuestro conocimiento se proceda ordenadamente, esto es, procediendo de lo que conocemos mejor a lo que no conocemos tan bien. Digo que quiere la naturaleza, en cuanto esta vía de conocimiento es naturalmente innata en nosotros. Y, por tanto, si los demás sentidos se entienden menos que el literal - como, en efecto, se ve manifiestamente- sería irracional proceder a demostrarlos, si antes no estuviese demostrado el literal. Por estas razones, pues, sobre cada canción argumentaré primero el sentido literal y después argumentaré su alegoría, esto es, la escondida verdad; y a veces tocaré incidentalmente a los demás sentidos, según las conveniencias de lugar y de tiempo.

II.

Comenzando, pues, digo que ya la estrella de Venus por dos veces había girado en ese su círculo que la hace mostrarse vespertina y matutina, según los dos diversos tiempos, después del tránsito de aquella bienaventurada Beatriz que vive en el cielo con los ángeles y en la tierra con mi alma, cuando aquella dama gentil, de quien hice mención al fin de la Vida Nueva, aparecióse a mis ojos por vez primera, acompañada de Amor, y tomó puesto en mi mente. Y, como dicho está por mí en el librito alegado, acaeció que, más por su gentileza que por elección mía, consentí en ser suyo; porque compadecida con tanta misericordia de mi vida viuda se mostraba, que los espíritus de mis ojos hiciéronse grandes amigos suyos. Y una vez amigos, tal hicieron dentro de mí, que mi beneplácito mostróse contento con desposarse con aquella imagen. Mas, como amor no nace súbitamente ni se hace grande y perfecto, sino que necesita algún tiempo y alimento de pensamientos, principalmente allí donde hay pensamientos contrarios que lo impiden, fue menester, antes que este nuevo amor fuese perfecto, mucha batalla entre el pensamiento que le alimentaba y aquel que le era contrario, el cual tenía aún la fortaleza de mi mente por la gloriosa Beatriz. Porque el uno recibía socorro continuamente por la parte de delante, y el otro por detrás, por parte de la memoria. Y el socorro de delante aumentaba todos los días -lo que no podía el otro- de tal suerte, que impedía volver el rostro atrás. Por lo que me pareció tan admirable y asimismo tan duro de sufrir, que resistirle no pude; y casi gritando -por disculparme de la novedad, en la cual parecíame hallarme falto de fortaleza- dirigí la voz hacia aquella parte de donde procedía la victoria del nuevo pensamiento, que era victoriosísimo, como virtud celestial, y comencé a decir:

Los que entendiendo movéis el tercer cielo.

Para bien emprender la comprensión de tal canción es menester conocer primero sus partes, y así será fácil su comprensión a la vista. A fin de que no sea menester repetir estas palabras en la exposición de las demás, digo que es mi intención guardar el orden que se adoptará en este Tratado para todos.

Así, pues, digo que la canción propuesta contiene tres partes principales. La primera es el primer verso de ella, en la que se induce a oír lo que decir intento a ciertas inteligencias, o, siguiendo el modo más usado, digamos ángeles, los cuales están en la revolución del cielo de Venus, como motores de él. Son la segunda los tres versos que siguen tras el primero, en la cual se manifiesta lo que dentro se sentía espiritualmente entre diversos pensamientos. La tercera es el quinto y último verso, en la cual suele el hombre hablar a la obra misma, como para confortarla. Y todas estas tres partes se han de demostrar por orden, como se ha dicho más arriba.

III.

Para ver más latinamente el sentido literal, que es el ahora propuesto, de la primera parte arriba dividida, ha de saberse quiénes y cuántos son los llamados a oírme, y cuál es el tercer cielo que digo que ellos mueven. Y primero hablaré del cielo; luego hablaré de aquellos a quienes hablo. Y aunque de estas cosas a la verdad poco puede saberse, en aquello que ve la humana razón se deleita más que con lo mucho y lo cierto de las cosas de las cuales se juzga conforme al sentido, según la opinión del filósofo, en De los animales.

Digo, pues, que del número y situación de los cielos se ha opinado por muchos diversamente, aunque la verdad se encuentre por último. Aristóteles creyó, siguiendo únicamente la antigua rudeza de los astrólogos, que había también ocho cielos, el último de los cuales, y que todo contenía, era aquel donde están fijas las estrellas, es decir, la octava esfera; y que más allá de él no había otro alguno. También creyó que el cielo del sol estaba inmediato al cielo de la luna, es decir, el segundo respecto a nosotros, y puede ver quien quiera esta errónea opinión en el segundo libro de Cielo y Mundo, que está en el segundo de los libros naturales. A la verdad, se excusa de ello en el duodécimo de la Metafísica, donde demuestra haber seguido incluso la opinión ajena allí donde le ha sido menester hablar de Astrología.

Tolomeo luego, advirtiendo que la octava esfera se movía con varios movimientos, al ver apartarse su círculo del círculo derecho que se mueve de Oriente a Occidente, obligado por los principios de la Filosofía, que necesariamente pide un primer móvil simplicísimo, supuso que había otro cielo a más del estrellado, el cual hacía aquella revolución de Oriente a Occidente. La cual digo que se cumple casi en veinticuatro horas, es decir, en veintitrés horas y catorce partes de las quince de otra, señalando burdamente. Así que, según él y según lo que se tiene en Astrología y en Filosofía -pues que fueron vistos tales movimientos-, nueve son los cielos movibles; la situación de los cuales es manifiesta y determinada, según lo que por arte perspectiva, aritmética y geométrica se ha visto sensible y racionalmente, y por otras experiencias sensibles; como en el eclipse del sol se demuestra sensiblemente que la luna está bajo el sol; y como por testimonio de Aristóteles, que vio con los ojos -según lo que dice en el segundo de Cielo y Mundo- a la luna, estando media entrar por bajo de Marte, por la parte oscura, y estar Marte tan celado, que reapareció por la parte de luz de la luna que estaba hacia Occidente.

IV.

Y éste es el orden de la situación; el primero de los enumerados es aquel donde está la luna; el segundo es aquel donde está Mercurio; el tercero es aquel donde está Venus; el cuarto es aquel donde está el sol; el quinto es aquel donde está Marte; el sexto es aquel donde está Júpiter; el séptimo, aquel donde está Saturno; el octavo es el de las estrellas fijas; el noveno es aquel que no es sensible sino por el movimiento que arriba se ha dicho, al cual muchos llaman cielo cristalino, esto es, diáfano o transparente. En verdad, a más de todos éstos, los católicos ponen al cielo empíreo, que quiere decir tanto como cielo de llama o luminoso; y suponen que es inmóvil por tener en sí en cuanto a cada parte lo que su materia quiere. Y éste es causa del velocísimo movimiento del primero movible; pues por el ferventísimo deseo que cada una de las partes del noveno cielo, inmediato a aquél, tiene de estar unida con cada una de las partes del divinísimo y quieto décimo cielo, se dirige a él con tanto deseo, que su velocidad es casi incomprensible. Y quieto y pacífico es el lugar de aquella suma deidad, que es única en verse por completo. Es éste el lugar de los espíritus bienaventurados, según lo quiere la Santa Iglesia, que no puede decir mentira; y aún más Aristóteles parece opinar así, a quien bien lo entienda, en el primero de Cielo y Mundo. Éste es el soberano edificio del mundo, en el cual todo el mundo se incluye y fuera del cual nada existe; y no está en lugar alguno, sino que sólo fue formado en la primera Mente, a la cual llaman los griegos Protonoe. Esto es aquella magnificencia de que habló el salmista, cuando dice a Dios: «Levantóse tu magnificencia sobre los cielos». Y así, recogiendo cuanto se ha dicho, parece ser que hay diez cielos, de los cuales el de Venus es el tercero; del cual se hace mención en aquella parte que es mi intención explicar.

Y ha de saberse que cada cielo debajo del cristalino tiene dos firmes polos en cuanto a sí propio; y el noveno los tiene firmes, fijos e inmutables en todos los respectos; y cada cual, así el noveno como los demás, tiene un círculo, que se puede llamar ecuador de su propio cielo; el cual, en cualquier parte de su revolución, está igualmente remoto del uno y del otro polo, como puede ver sensiblemente quien dé vueltas a una manzana o a otra cosa redonda. Y este círculo, tiene más rapidez en su movimiento que cualquier otra parte de su cielo en cada cielo, como puede ver quien bien considere. Y cada parte, cuanto más cerca está de él, tanto más rápidamente se mueve; cuanto más remota está y más cerca del polo, más tarde es; porque su revolución es menor, y necesariamente ha de ser al mismo tiempo que la mayor. Digo, además, que cuanto más cercano está el cielo al círculo del ecuador, tanto más noble es en comparación con sus polos; porque tiene más movimiento, más actualidad, más vida y más forma, y le toca más de aquello que está sobre él, y, por consiguiente, es más virtuoso. De aquí que las estrellas del cielo estrellado están más llenas de virtud entre sí cuanto más cerca están de este círculo.

Y sobre este círculo en el cielo de Venus, del cual se trata al presente, hay una esferilla que por sí misma gira en ese cielo; el cielo de la cual llaman los astrólogos epiciclo. Y así como la gran esfera gira con dos polos, así también gira esta pequeña; y así es más noble cuanto más cerca está de aquél; y sobre el arco o cúmulo de este círculo está fija la reluciente estrella de Venus. Y aunque se ha dicho que hay diez cielos, según la estricta verdad, este número no los comprende todos; que éste de que se ha hecho mención, es decir, el epiciclo, en el cual está fija la estrella, es un cielo per se o esfera; y no tiene una misma esencia con el que lo sustenta, aunque sea más connatural con él que con los demás, y con eso llámasele un cielo y denomínanse el uno y el otro por la estrella. No es cosa de tratar al presente cómo son los demás cielos y las demás estrellas; basta lo que se ha dicho de la verdad del tercer cielo, del cual

entiendo al presente y del cual cumplidamente se ha explicado lo que al presente es menester.

V.

Una vez mostrado en el capítulo precedente cuál es este tercer cielo y cómo está dispuesto en sí mismo, queda por demostrar quiénes son los que le mueven. Debe, pues, saberse primeramente que los motores de aquél son sustancias privadas de materia, es decir, inteligencias, a las cuales la gente vulgar llama ángeles. Y de estas criaturas, así como de los cielos, han opinado muchos diversamente, aunque la verdad se haya encontrado. Hubo ciertos filósofos, de los cuales parece ser Aristóteles en su Metafísica -aunque en el primero de Cielo y Mundo incidentalmente parezca opinar de otro modo-, que creyeron que éstas eran solamente tantas cuantas circunvoluciones hubiese en el cielo, y no más; diciendo que las demás estarían eternamente en vano, sin empleo; lo cual era imposible, dado que su existencia es su ejercicio. Hubo otros, como Platón, hombre excelentísimo, que supusieron, no sólo tantas inteligencias cuántos son los movimientos del cielo, sino, además, cuántas son las especies de las cosas; y así, una especie todos los hombres, y otra todo el oro, y otra todas las riquezas, y así de todo; y quisieron que así como las inteligencias de los cielos son engendradoras de aquéllos, cada cual del suyo, así éstas fueron engendradoras de las demás cosas y ejemplos cada una de su especie, y llámales Platón ideas, que vale tanto como decir formas y naturalezas universales. Los gentiles las llamaban dioses y diosas, aunque no las entendían filosóficamente como Platón; y adoraban sus imágenes y les hacían grandísimos templos, como a Juno, a la cual llamaron diosa del poder; como a Vulcano, al cual llamaron dios del fuego; como a Palas o Minerva, a la cual llamaron diosa de la sabiduría, y a Ceres, a la cual llamaron diosa de la cosecha. Las cuales opiniones así formadas manifiestan el testimonio de los poetas que pintan en diversos lugares el hábito de los gentiles en sus sacrificios y en su fe; y también se manifiestan en muchos nombres antiguos que les han quedado por nombre y sobrenombre a los lugares y edificios antiguos, como puede comprobar quien quiera. Y aunque estas opiniones nos han sido dadas por la razón humana y por experiencia nada liviana, no vieron todavía la verdad, ya fuese por defecto de la razón, ya por defecto de doctrina; que aún por la razón puede verse en cuánto mayor número están las criaturas susodichas que los efectos que los hombres pueden entender. Y la razón es ésta: nadie duda, filósofo ni gentil, judío ni cristiano, ni de secta alguna, que no estén llenas de toda bienaventuranza, ya todas, ya la mayor parte, y que aquellas bienaventuradas no estén en perfectísimo estado. Por lo cual, como quiera que aquella que es aquí la humana naturaleza, no sólo tiene una bienaventuranza, sino dos, como lo son la de la vida civil y la de la vida contemplativa, sería irracional que viésemos que aquéllas tenían bienaventuranza de la vida activa, es decir, civil, en el gobierno del mundo, y que no tenían la de la contemplativa, que es más excelente y más divina. Y dado caso que aquella que tiene la bienaventuranza del gobernar no pueda tener la otra, porque su intelecto es uno y perpetuo, es menester que haya otras fuera de este ministerio, que vivan especulando solamente. Y como esta vida es más divina, y cuanto más divina es la cosa más semejante es a Dios, manifiesto está que esta vida es más amada por Dios; y si es más amada, más amplia le ha sido su bienaventuranza, y si más amplia le ha sido concedida, más vivientes le ha dado que a la otra; por lo que se deduce que es mucho mayor el número de aquellas criaturas de lo que los efectos demuestran. Y no está en contra de lo que parece decir Aristóteles en el décimo de la Ética, de que a las sustancias separadas les sea también necesaria la vida especulativa. Asimismo, a la especulación de algunas sigue la circunvolución del cielo, que es gobierno del mando, el cual es como una civilidad comprendida en la especulación de los motores. La otra razón es que ningún efecto es mayor que la causa; porque la causa no puede dar lo que no tiene; de donde, como quiera que el divino intelecto es causa de todo y principalmente del intelecto humano, el humano no sobrepuja a aquél; antes bien, es desproporcionadamente sobrepujado; conque si nosotros, por la razón susodicha y por otras muchas, entendemos que Dios ha podido hacer innumerables criaturas espirituales, manifiesto es que ha hecho tal mayor número. Otras muchas razones pueden verse; mas basten al presente. Y no se maraville nadie si éstas y otras razones que podamos tener de esto no se demuestran del todo, pues debemos, sin embargo, admirar del mismo modo su excelencia, que excede los ojos de la mente humana, como dice el filósofo en el segundo de la Metafísica, y afirma su existencia; ya que no teniendo ninguna idea de ellas, por la cual comience nuestro conocimiento, resplandece con todo en nuestro intelecto alguna luz de su vivísima esencia, en cuanto vemos las susodichas razones y otras muchas; del mismo modo que quien teniendo los ojos cerrados, afirma que el aire está iluminado por un poco de resplandor, o del mismo modo que el rayo que pasa por las pupilas del murciélago; que no de otra manera están cerrados nuestros ojos intelectuales, mientras el alma está atada y encarcelada por los órganos de nuestro cuerpo.

VI.

Dicho está que, por defecto de doctrina, los antiguos no vieron la verdad de las criaturas espirituales, aunque el pueblo de Israel fuese en parte enseñado por sus profetas, en quienes Dios les había hablado por muchas maneras de hablar y por muchos modos, como dice el apóstol. Pero nosotros hemos sido enseñados en ellos por Él, que procede de Aquél; por Él que lo hizo; por Él que lo conserva; es decir, por el Emperador del Universo, que es Cristo, hijo del soberano Dios e hijo de María Virgen (mujer, en verdad, e hija de Joaquín y de Ana), hombre verdadero, el cual fue muerto por nosotros porque nos trajo la vida; el cual fue luz que nos ilumina en las tinieblas, como dice Juan Evangelista, y que nos dijo la verdad de-aquella cosa que nosotros no podíamos saber ni ver sin él verdaderamente. La primera cosa y el primer secreto que tal mostró fue una de las criaturas antes dichas: lo fue aquel su gran legado, que se llegó a María, joven doncella de trece años, de parte del Salvador celestial.

Este nuestro Salvador dijo con su boca que el Padre podía darle muchas legiones de ángeles. No negó esto cuando le fue dicho que el Padre había mandado a los ángeles que le ayudasen y sirviesen. Por lo cual nos es manifiesto que aquellas criaturas existen en grandísimo número; y por eso su esposa y secretaria la Santa Iglesia -de la cual dice Salomón: «¿Quién en ésta que sube del desierto, llena de las cosas que deleitan, apoyada en su amigo? - dice, cree y predica aquellas nobilísimas criaturas son casi innumerables; y las divide en tres jerarquías, que vale tanto como decir tres principados santos o divinos. Y cada jerarquía tiene tres órdenes; así que la Iglesia tiene y afirma nueve órdenes de criaturas espirituales. El primero es el de los ángeles; el segundo, el de los arcángeles; el tercero, el de los tronos; y estos tres órdenes forman la primera jerarquía; primera no en cuanto a nobleza, no en cuanto a creación -que más nobles son las otras y todas fueron creadas juntamente-, sino primera en cuanto a nuestra subida a su altura. Luego están las dominaciones, después las virtudes, luego los principados; y éstos forman la segunda jerarquía. Sobre éstos están las potestades y los querubines, y sobre todos están los serafines; y éstos forman la tercera jerarquía. Y es razón potísima de su especulación, tanto el número en que están las jerarquías como aquel en que están las órdenes. Pues dado que la Divina Majestad tiene tres personas, con una sola sustancia, puédese contemplarla triplemente. Porque se puede contemplar la potencia suma del Padre, la cual mira a la primera jerarquía, esto es, aquella que es primera por nobleza y que nosotros consideramos última. Y puédese contemplar, la suma Sabiduría del Hijo; y ésta mira a la segunda jerarquía. Y puédese contemplar la suma y ferventísima Caridad del Espíritu Santo; y ésta mira a la tercera jerarquía, la cual, más próxima a nosotros, ofrece los dones que recibe. Y dado que cada persona de la Divina Trinidad puede considerarse triplemente, hay en cada jerarquía tres órdenes que contemplan diversamente. Puédese considerar al Padre, sólo respecto a Él; y ésta es la contemplación que hacen los serafines, los cuales ven más de la primera causa que toda otra naturaleza angélica. Puédese considerar al Padre en cuanto tiene relación con el Hijo, es decir, cómo se separa de Él y cómo con Él se une; y esto es lo que contemplan los querubines. Puédese también considerar al Padre en cuanto de Él procede el Espíritu Santo, y cómo se separa de Él, y cómo con Él se une; y ésta es la contemplación que hacen las potestades. Y de este modo se puede especular acerca del Hijo y del Espíritu Santo. Por lo cual son menester nueve maneras de espíritus contemplativos para mirar la luz que únicamente se ve por entero a sí misma. Mas no se ha de callar aquí una palabra. Y así digo que todos estos órdenes se perdieron apenas fueron creados, acaso en su décima parte, para restaurar la cual fue luego creada la humana naturaleza. Los números, los órdenes, las jerarquías, narran los cielos movibles, que son nueve; y el décimo anuncia la unidad y estabilidad de Dios. Y por eso dice el salmista: «Los cielos proclaman la gloria de Dios, y la obra de sus manos anuncia el firmamento». Por lo cual es de razón creer que los motores del cielo de la luna sean del orden de los ángeles; y los de Mercurio sean los arcángeles; y los de Venus sean los tronos, los cuales, nacidos del amor del Espíritu Santo, hacen su obra connatural en él, es decir, el movimiento de aquel cielo lleno de amor. Del cual toma la forma de dicho cielo un virtuoso ardor, por el cual las almas de aquí abajo se encienden en amor, conforme a su disposición. Y como los antiguos advirtieron que aquel cielo era aquí abajo causa de amor, dijeron que Amor era hijo de Venus, como lo atestigua Virgilio en el primero de la Eneida, donde dícele Venus al Amor: «Hijo, virtud mía, hijo del Sumo Padre, que de los dardos de Tifeo no te curas». Y Ovidio, en el quinto de Metamorfoseos, cuando dice que Venus le dijo al Amor: «Hijo, armas mías, poder mío». Y existen estos tronos, que al gobierno de estos tronos están entregados, no en gran número, acerca del cual opinan diversamente filósofos y astrólogos, conforme a las diversas opiniones acerca de sus circunvoluciones, aunque todos están acordes en que son tantos cuantos movimientos hace; los cuales, según se encuentra epilogada en el Libro de la agregación de las estrellas, por la mejor demostración de los astrólogos son tres: uno, en cuanto la estrella se mueve por su epiciclo; otro, en cuanto el epiciclo se mueve con todo el cielo juntamente con el del sol; el tercero, en cuanto todo aquel cielo se mueve, siguiendo el movimiento de la estrellada esfera de Occidente a Oriente, en cien años un grado. De modo que para estos tres movimientos hay tres motores. Además se mueve todo este cielo y gira con el epiciclo, de Oriente a Occidente, una vez cada día natural. El cual movimiento Dios sólo sabe si lo produce el intelecto o la rapidez del primero movible; a mí paréceme presuntuoso juzgar tal. Estos motores producen únicamente entendiendo la circunvolución en el sujeto propio que mueve cada cual. La nobilísima forma del cielo, que tiene en sí el principio de esta naturaleza pasiva, gira tocada de la virtud motriz que a ello entiende; y digo tocada, no corporalmente, sino por tacto de virtud que a aquél se dirige. Y estos motores son aquellos a los cuales se pretende hablar y a los cuales hago mi demanda.

Conforme a lo que se dijo más arriba, en el tercer capítulo de este Tratado, para entender bien la primera parte de la canción propuesta, era menester hablar de aquellos cielos y de sus motores; y en los tres precedentes capítulos, de ellos se ha hablado. Digo, por lo tanto, a aquellos que demostré ser motores del cielo de Venus: los que entendiendo -es decir, con sólo el intelecto, como se ha dicho más arriba-, movéis el tercer cielo, oíd el lenguaje; y no digo oíd, con el oído que tienen, que es entender con el intelecto. Digo oíd el lenguaje de mi corazón; esto es, que está dentro de mí, que aún no se ha mostrado de por de fuera. Ha de saberse que en toda esta canción, según uno y otro sentido, tómase el corazón por el secreto interior y no por ninguna parte especial del alma o del cuerpo.

Luego que les he llamado a oír lo que decir quiero, señalo dos razones por las cuales es menester que les hable: es la una la novedad de mi condición, la cual, por no ser experimentada de los demás hombres, no sería comprendida como de aquellos que entienden sus efectos en su obra. Y apunto esta razón cuando digo: «Que yo no sé expresar, tan nuevo me parece». La otra razón es: cuando el hombre recibe beneficio o injuria primeramente si puede buscar al que se lo hizo antes que a otros, a fin de que si es beneficio se muestre reconocido hacia el bienhechor; y si es injuria, induzca al que tal hizo a buena misericordia con dulces palabras. Y apunto esta razón cuando digo: el cielo que creó vuestra valía, vos las que sois gentiles criaturas, me trajo a aqueste estado en que me encuentro; es decir, vuestra obra, vuestra circunvolución, es la que a la presente condición me ha traído. Por lo cual concluyo y digo que el hablarles yo a ellas debe ser como se ha dicho; y tal digo en: de aquí, pues, que el hablar de la vida que llevo parece dirigirse dignamente a vos.

Y después de señaladas estas razones, ruégoles entendimiento, cuando digo: por eso os ruego que me lo entendáis. Mas como en toda suerte de discurso, el que lo dice debe atender principalmente a la persuasión, es decir, a la complacencia del auditorio, que es principio de todas las demás persuasiones, como los retóricos saben, y es la más poderosa persuasión para hacer atento al auditorio el prometer decir nuevas y grandes cosas; sigo yo al ruego hecho para que me escuchen con esta persuasión, es decir, complacencia, anunciándoles mi intención, la cual es decir cosas nuevas, esto es, la división que hay en mi alma, y grandes cosas, esto es, la valía de su otra estrella. Y digo esto en las últimas palabras de esta primera parte: os diré la novedad del corazón, de cómo llora en él el alma triste y cómo habla un espíritu contra ella, que los rayos le traen de nuestra estrella.

Para la plena comprensión de estas palabras, digo que éste no es sino un pensamiento frecuente para encomiar y embellecer esta nueva dama: y este alma no es sino otro pensamiento acompañado de consentimiento, que repugnando éste, encomia y embellece la memoria de la gloriosa Beatriz. Mas como aun el último sentido de la mente, es decir, el consentimiento, teníase por este pensamiento que la memoria ayudaba, llamóle a él alma y al otro espíritu; del mismo modo que solemos llamar la ciudad a los que la tienen y no a los que la combaten, aunque unos y otros sean ciudadanos.

Digo, además, que este espíritu viene por los rayos de la estrella; porque ha de saberse que los rayos de cada cielo son el camino por el cual desciende su virtud a estas cosas de aquí abajo. Y como los rayos no son otra cosa que una luz que viene por el aire desde el principio de la luz hasta la cosa iluminada, y no hay luz sino en la parte de la estrella, porque el otro cielo es diáfano -es decir, transparente-, no digo que venga este espíritu -es decir, este pensamiento- de todo su cielo, sino de su estrella. La cual es de tanta virtud, por la nobleza de sus motores, que en nuestras almas y en las demás cosas nuestras tienen grandísimo poder, no obstante estar a una distancia de nosotros, cuando esté más cerca, de ciento sesenta y siete veces la que hay al centro de la tierra, que es de tres mil doscientas cincuenta millas. Y ésta es la exposición literal de la primera parte de la canción.

VII.

Puede ser suficientemente comprendida, por las palabras antedichas, el sentido literal de la primera parte; por lo cual hemos de proceder con la segunda, en la que se manifiesta lo que de la batalla sentía en mi interior. Y esta parte tiene dos divisiones, y en la primera, es decir, en el primer verso, narro las cualidades de esta diversidad, según la raíz que de ellas tenía dentro de mí. Y primeramente lo que decía la parte que perdía; lo cual está en el verso que hace el segundo de esta parte y tercero de la canción.

Así, pues, para evidencia del sentido de la primera división, ha de saberse que las cosas deben ser denominadas por la última nobleza de su forma, del mismo modo que el hombre por la razón y no por el sentido ni por lo que sea

menos noble. De aquí que cuando se dice que vive el hombre, debe entenderse que el hombre usa de la razón, que es su vida especial. Y acto de su parte más noble. Y por eso quien se aparta de la razón y usa sólo la parte sensitiva, no vive como hombre sino que vive como bestia, cual dice el excelentísimo Boecio: «Vive el asno». Con verdad hablo, ya que el pensamiento es acto propio de la razón, que como las bestias no piensan, es que no lo tienen; y no digo sólo las bestias menores, más aún aquellas que tienen apariencia humana y espíritu de pécora o de otra bestia abominable. Digo, pues, que vida de mi corazón, es decir, de mi interior, solía ser un suave pensamiento -suave vale tanto cuanto embellecido, dulce, placentero, deleitoso-, y este pensamiento íbase muchas veces a los pies del Señor de éstos a quienes hablo, que no es sino Dios; es decir, que yo, pensando, contemplaba el reino de los bienaventurados. Y digo al punto la causa final, por la cual yo ascendía pensando, cuando digo: donde una dama veía estar en gloria, para dar a entender que yo estaba cierto, y lo estoy por su graciosa revelación, de que ella estaba en el cielo. Por lo cual yo, pensando tantas veces cuantas me era posible, íbame allí como arrebatado.

Luego a seguida digo el efecto de este pensamiento, para dar a entender su dulzura, la cual era tanta que me hacía desear la muerte para ir adonde ella estaba; y digo, esto en: de quien hablábame tan dulcemente, que mi alma decía: yo allí ir quiero. Y ésta es la raíz de una de las diferencias en mí. Y ha de saberse que aquí se dice pensamiento y no alma de aquel que subía a ver a la bienaventurada, porque era pensamiento especial para aquel acto. Entiéndese por alma, como se ha dicho en el capítulo precedente, al pensamiento general con consentimiento.

Luego, cuando digo: ahora aparece quien a huir le obliga, narro la raíz de la otra diferencia, diciendo que, del mismo modo que este pensamiento de arriba suele ser vida de mi vida, así aparece otro que hace cesar aquél. Digo huir, por mostrar cuán contrario es, ya que naturalmente un contrario ahuyenta al otro; y el que huye muestra huir por falta de virtud. Y digo que este pensamiento que de nuevo aparece tiene poder para tomarme y vencer mi alma, diciendo que se enseñorea tanto, que el corazón, es decir, mi interior, tiembla y mi exterior muestra nuevo semblante.

De seguida nuestro el poderío de este nuevo pensamiento por su efecto, diciendo que me hace mirar a una dama y me dice palabras lisonjeras; es decir, habla ante los ojos de mi afecto inteligible, por mejor inducirme, prometiéndome que la vista de sus ojos es su salud. Y por mejor hacérselo creer al alma inexperta, dice que no debe mirar los ojos de esta dama nadie que tema angustia de suspiros. Y es una bella manera retórica cuando parece por de fuera afearse la cosa y verdaderamente por dentro se embellece. No podía este nuevo pensamiento de amor inducir mejor a mi mente a consentir, que con hablar profundamente de la virtud de sus ojos.

VIII.

Una vez mostrado cómo y por qué nace el amor y la diversidad que me combatía, es menester proceder a explicar el sentido de aquella parte en la cual contienden en mí diversos pensamientos. Digo que primeramente es menester hablar de la parte del alma, es decir, del antiguo pensamiento, y luego del otro, por la razón de que siempre aquello que se propone decir el que habla se debe reservar para después, porque lo último que se dice queda mejor en el ánimo del oyente. De aquí que, pues es mi intención más bien el decir y razonar lo que la obra de éstos a quienes hablo hace, que lo que deshace, fue de razón el hablar y razonar primeramente de la condición de la parte que se corrompía y luego de aquella otra que se engendraba.

En verdad, aquí nace una duda sin declarar la cual no se ha de pasar adelante. Podría decir alguien: dado que amor sea efecto de estas inteligencias -a quienes hablo-, y aquél de antes fuese amor del mismo modo que éste después, ¿por qué la virtud corrompe al uno y engendra al otro? -toda vez que antes debiera salvar a aquél, por la razón de que toda causa ama a su efecto, y, amándole, salva al otro-. A esta pregunta puede responderse brevemente que el efecto de éstos es amor, como se ha dicho; y como no lo pueden salvar sino en aquellos sujetos que están sometidos a su circunvolución, lo transmiten de aquella parte que está fuera de su potestad a la que cae dentro de ella; es decir, del alma partida de esta vida a lo que en ella está; del mismo modo que la humana naturaleza transmite en la forma humana su conservación, del padre al hijo, ya que no puede perpetuamente en el mismo padre conservar su efecto. Digo efecto, en cuanto el alma y el cuerpo unidos son efecto de aquella que perpetuamente dura, que se ha convertido en naturaleza sobrehumana; así se resuelve la cuestión.

Mas ya que se ha apuntado aquí algo acerca, de la inmortalidad del alma, haré una digresión hablando de ella, porque con esto daré cumplido fin al hablar de lo que en vida fue la bienaventurada Beatriz, de la cual no quiero hablar más en este libro. A modo de proposición, digo que, de todas las bestialidades, es la más estulta, vil y dañosa la que cree que no hay otra vida después de ésta; por lo cual, si revolvemos todos los escritos, tanto de los filósofos como de los demás sabios escritores, están todos concordes en que en nosotros hay algo de perpetuidad. Y esto parece opinar Aristóteles en el tratado del Alma; esto parece opinar todo estoico; esto parece opinar Tulio, especialmente en el libro De la vejez; esto parecen opinar todos los poetas que han hablado conforme a la fe de los gentiles; esto quiere toda ley, judíos, sarracenos, tártaros, y todos cuantos viven según una razón. Pues que si todos estuviesen engañados, se seguiría una imposibilidad que aun el comprenderla sólo sería horrible. Todos estamos ciertos de que la naturaleza humana es la más perfecta de todas las naturalezas de aquí abajo; y esto nadie lo niega, y Aristóteles lo afirma cuando dice en el duodécimo libro de los Animales que el hombre es, de todos los animales, el más perfecto. De aquí que, dado que muchos que viven sean enteramente mortales, como animales brutos, y estén mientras viven sin esperanza tal, es decir, de otra vida, si nuestra esperanza fuese vana, mayor sería nuestra falta que la de ningún otro animal, puesto que han sido ya muchos los que han dado esta vida por aquélla; y así se seguiría que el animal más perfecto, es decir, el hombre, fuese el imperfectísimo -lo cual es imposible-, y que aquella parte, es decir, la razón, que es su perfección mayor, fuese la causa de su mayor defecto; decir lo cual parece extravagante. Y seguiríase, además, que la naturaleza, contra sí misma, había puesto tal esperanza en la mente humana, pues que ya se ha dicho cómo muchos han corrido a la muerte del cuerpo para vivir en la otra vida; y esto es asimismo imposible.

Además vemos la continua experiencia de nuestra inmortalidad en las adivinaciones de nuestros sueños, los cuales no podrían existir si no hubiese en nosotros una parte inmortal, puesto que inmortal ha de ser el revelador, ya sea corpóreo o incorpóreo, si se piensa con sutileza. Y digo corpóreo o incorpóreo por las diversas opiniones que de ello encuentro, y aquel que esté movido o informado por informador inmediato debe ser proporcionado al informador; y del mortal al inmortal no hay proporción alguna.

Certifícalo, además, la veracísima doctrina de Cristo, la cual es vía, verdad y luz: vía, porque por ellos, sin impedimento, caminamos a la feliz inmortalidad; verdad, porque no padece error; luz, porque nos ilumina en las tinieblas de la ignorancia mundana. Esta doctrina digo que nos hace creyentes sobre todas las demás razones, porque nos la ha dado Aquel que ve y mide nuestra inmortalidad, la cual no podemos ver perfectamente mientras nuestra inmortalidad esté mezclada con nuestro ser mortal; mas lo vemos perfectamente; y por la razón lo vemos con sombra de oscuridad, a causa de la mezcla de lo mortal con lo inmortal. Y debe ser argumento poderosísimo esto de que en nosotros exista lo uno y lo otro; yo así lo creo, así lo afirmo y así estoy cierto de pasar a otra vida mejor después de ésta, allí donde vive aquella gloriosa dama de la que mi alma estuvo enamorada, cuando contendía como se dirá en el capítulo siguiente.

IX.

Tornando a mi propósito, digo que en el verso que comienza: halla contrario tal que lo destruye, es mi intención manifestar lo que dentro de mí hablaba mi alma, es decir, el antiguo pensamiento contra el nuevo. Y primero manifiesto brevemente la causa de su lamentoso discurso, cuando digo: halla contrario tal que lo destruye el pensamiento humilde que hablarme suele de un ángela en el cielo coronada. Esto es aquel pensamiento especial del cual se ha dicho más arriba que solía ser vida del corazón doliente.

Luego cuando digo: el alma llora, tanto aún le duele, manifiesto que mi alma está aún de su parte y habla con tristeza; y digo que dice palabras de lamentación, como si se maravillase de la súbita transmutación, al decir: ¡Triste de mí y cuán me huye el compasivo que me ha consolado! Bien puede decir consolado, que en su gran pérdida, habíale dado mucha consolación este pensamiento que subía al cielo.

Luego después digo que se vuelve todo mi pensamiento, es decir, el alma, a la cual llamo esta afanosa, y habla contra los ojos; y esto se manifiesta en De mis ojos habla esta afanosa. Y digo que dice de ellos y contra ellos tres cosas: es la primera que maldice la hora en que esta dama los vio. Y ha de saberse en este punto que, aunque en un momento dado puedan presentarse muchas cosas a la vista, en verdad sólo se ve aquella que viene en línea recta al extremo de la pupila, y sólo ella se graba en la imaginación. Y esto sucede porque el nervio por el cual corre ni espíritu visual está dirigido a aquella parte; y por eso unos ojos parecen mirar a otros sin que mutuamente se vean; porque del mismo modo que el ojo que mira recibe la forma en la pupila por línea recta, así por la misma línea su forma va a aquel a que está mirando; y muchas veces, al apuntar en esta línea, dispara el arco de aquel a quien toda arma es ligera. Por eso cuando digo que tal dama los vio, es tanto como decir que se miraron sus ojos y los míos.

La segunda cosa que dice es que reprende su desobediencia cuando dice:

¿Y por qué no me creían a mí de ella?

Luego procede a la tercera cosa, y dice: que no debe reprenderse a sí mismo, sino a ellos por no obedecer; ya que dice que alguna vez había dicho de esta dama: en sus ojos tendría fuerza sobre mí, si tuviese libre el camino de venir; y dice esto en: Yo decía. En sus ojos, etc. Y ha de creerse, por lo tanto, que mi alma conocía estar dispuesta a recibir el acto de esta dama; y por eso lo tenía; que el acto del agente se advierte en el dispuesto paciente, como dice el filósofo en el segundo libro Del alma. Y por eso, si la cosa tuviese espíritu de temor, más temería ir al rayo del sol que no la piedra; porque su disposición recibe aquel concepto más fuerte.

Por último, manifiesta el alma en su discurso haber sido peligrosa su presunción, cuando dice: Y no me valió el darme entera cuenta que no mirasen tal, pues que fui muerta. Que no mirasen a aquel de quien primero había dicho: al que mató los míos; y así termina sus palabras, a las cuales responde el nuevo pensamiento, como se declarará en el siguiente capítulo.

X.

Mostrado está el sentido de aquella parte en que habla el alma, es decir, el antiguo pensamiento que se corrompe. Ora debe mostrarse de seguida el sentido de la parte en que habla el nuevo pensamiento adverso. Y esta parte contiénese toda en el verso que comienza: No fuiste muerta. Para entender bien lo cual ha de dividirse en dos; pues en la primera parte, que comienza: No fuiste muerta, dice, por lo tanto -continuando hasta sus últimas palabras-: No es verdad que hayas muerto; mas la causa por que te parece estar muerta es un desmayo en que has caído vilmente por esta dama que se te ha aparecido. Y aquí es de notar, como dice Boecio en su Consolación, que «todo súbito cambio de cosas no sucede sin algún desfallecimiento de ánimo». Y esto quiere decir el reproche de este pensamiento, el cual se llama gentil espíritu de amor, para dar a entender que mi consentimiento se plegaba ante él; y así se puede entender esto principalmente, y conocer su victoria, cuando dice antes:

Alma nuestra, haciéndose familiar de aquélla.

Luego, como se ha dicho, ordena lo que ha de hacer esta alma reprendida para llegar a ella, y así le dice: Mira cuán piadosa y cuán humilde. Dos cosas son éstas que son remedio propio del temor de que parecía sobrecogido el ánimo; las cuales grandemente unidas, hacen esperar bien de la persona, y principalmente la piedad, la cual, hace resplandecer con su luz toda otra bondad. Por lo cual Virgilio, hablando de Eneas, piadoso le llama en su mayor alabanza; mas piedad no es lo que cree el vulgo, esto es, dolerse del mal ajeno; antes bien, éste es especial efecto suyo, que se llama misericordia y es compasión. Mas la piedad no es compasiva, antes bien, es una noble disposición del ánimo, preparada para recibir amor, misericordia y otras caritativas pasiones.

Luego dice: Mira, además, cuán es sabia y cortés en su grandeza. Donde dice tres cosas, las cuales, según aquellas que pueden ser adquiridas por nosotros, hacen a la persona en muy gran manera amable. Dice sabia. Ahora bien, ¿qué hay más hermoso en una dama que es saber? Dice cortés. Ninguna cosa le cuadra mejor a una dama que la cortesía. Y no se engañan también con este vocablo los míseros vulgares que creen que la cortesía no es sino la generosidad; porque la generosidad es una cortesía especial, no general. Cortesía y honestidad son una misma cosa, y como antiguamente las virtudes y buenas costumbres usábanse en las cortes -como hoy se usa lo contrario-, se sacó este vocablo de las cortes; y tanto fue decir cortesía, cuanto uso de corte. Vocablo que si hoy se dedujese de las cortes, principalmente de Italia, no sería otra cosa que decir torpeza. Dice en su grandeza. La grandeza temporal, a la cual se hace aquí referencia, está especialmente bien acompañada con las dos bondades antedichas; porque es como una luz que muestra lo bueno y lo demás de la persona claramente. ¡Y cuánto saber y cuánta virtuosa costumbre no se descubren por no tener esta luz! ¡Y cuánta materia y cuánto vicio se disciernen gracias a esta luz! Más les valiera a los míseros locos, estultos y viciosos, estar en baja condición, que ni en el mundo, ni después de esta vida serán tan infamados. En verdad, por esto dice Salomón en el Eclesiastés: «Y otra pésima enfermedad vi bajo el sol; a saber, riquezas conservadas para mal de su dueño». Luego a seguida le ordena, es decir, a mi alma, que de ora llame a esta su dama, prometiéndole que se alegraría grandemente de ello, cuando se dé entera cuenta de sus gracias; y dice esto en: Pues que si no te engañas, lo verás. No dice más hasta el fin de este verso. Y aquí termina el sentido literal de todo cuanto digo en esta canción, hablando a aquellas inteligencias celestiales.

XI.

Por último, según lo que más arriba dijo la letra de este Comentario cuando dividí las partes principales de esta canción, vuelvo el rostro de mi discurso a la canción misma, y a ella le hablo. Y a fin de que esta parte sea plenamente comprendida, digo que generalmente se llama en toda canción Tornada,

porque los troveros que primero la usaron lo hicieron para que, una vez cantada la canción, se tornase a ella con cierta parte del canto. Pero yo rara vez lo hice con tal intención; y para que los demás se diesen cuenta, rara vez empleé el orden de la canción en cuanto es preciso al número y a la nota; mas lo hice sólo cuando era menester decir alguna cosa para ornamento de la canción fuera de su sentido, como se verá en ésta y en las demás. Y por eso digo ahora que la bondad y la belleza de cada razonamiento están partidas y divididas entre ellas, pues que la bondad está en el sentido, y la belleza en el ornamento de las palabras; y una y otra están con deleite, si bien la bondad sea la más deleitosa. Por donde, dado que la bondad de esta canción fuese difícil de ser entendida por las diferentes personas que en ella se lanzan a hablar, por lo que se requieren muchas distinciones, y fuese fácil ver la belleza, me pareció necesario a la canción que los demás pusiesen mas atención a la belleza que a la bondad. Y esto es lo que digo en esta parte.

Mas como sucede muchas veces que el amonestar parece presuntuoso en ciertas condiciones, suele el retórico hablar indirectamente a otro, dirigiendo sus palabras, no a aquel a quien se las dice, sino a otra persona. Y esta manera es la que aquí, en verdad, se emplea; porque las palabras van a la canción y la intención a los hombres. Digo, por lo tanto: Yo creo, canción, que raros serán, esto es, pocos, los que te entiendan bien. Y digo la causa, que es doble. Primero, porque hablas trabajosamente -digo trabajosamente por lo que ya se ha dicho-; y luego, porque hablas oscuro -oscuro digo, en cuanto a la novedad del sentido-. Luego después la amonesto y digo: Si por ventura sucede que vas allí donde estén personas que, según tu entender, te parezca dudar, no desfallezcas, mas diles: Pues que no veis mi bondad, parad mientes al menos en mi belleza. Con lo cual no quiero decir otra cosa, sino como se ha dicho más arriba. ¡Oh, hombres, que no podéis ver el sentido de esta canción! No la rechacéis, sin embargo; mas parad mientes en su belleza, que es grande, tanto por construcción, la cual compete a los gramáticos, cuanto por el orden del discurso, que compete a los retóricos, y por el número de sus partes, que compete a los músicos. Las cuales cosas puede ver cuán bellas son quien bien las considere. Y éste es todo el sentido literal de la primera canción, que por primer manjar hase antes entendido.

XII.

Pues que ya se ha declarado suficientemente el sentido literal, hay que proceder a la exposición alegórica y verdadera. Y por eso, principiando una vez más desde el comienzo, digo que según perdí el primer deleite de mi alma, de que se ha hecho mención más arriba, con tristeza tanta me compungí, que ningún consuelo me bastaba. Con todo, después de algún tiempo, mi imaginación, que proponíase sanar, decidió -pues que ni mi consuelo ni el ajeno me servían- volver al modo que de consolarme había tenido algún desconsolado. Y púseme a leer el libro, desconocido para muchos, de Boecio, en el cual, maltrecho y desgraciado, habíase consolado él. Y oyendo además que Tulio había escrito otro libro, en el cual, hablando de la amistad, había apuntado palabras de la consolación de Lelio, hombre excelentísimo, en la muerte de Escipión su amigo, púseme a leerlo. Y aunque al principio me fuese duro penetrar su sentido, lo penetré al fin tanto cuanto podían el arte de la gramática que yo tenía y mi ingenio, por medio del cual ingenio veía muchas cosas, como casi soñando veía antaño; tal como en la Vida Nueva puede verse.

Y así como suele suceder que el hombre va buscando plata, y sin intención encuentra oro, que preséntale oculta ocasión, no tal vez sin divino mandato, yo, que buscaba consolarme, no solamente encontré remedio a mis lágrimas, sino palabras de entonces de ciencias y de libros, considerando las cuales, juzgaba justamente que la filosofía, señora de estos autores, de estas ciencias y de estos libros, era sublime cosa. Y me la imaginaba formada como una dama gentil; y no podía imaginármela en acto alguno que no fuese misericordioso; por lo cual, tan de grado la miraba el sentido de la verdad, que apenas podía apartarlo de ella. Y de este fantasear comencé a ir hacia donde ella se mostraba verdaderamente, es decir, en las escuelas de los religiosos y en las disputas de los filosofantes; así que en poco tiempo, treinta meses a lo sumo, comencé a sentir tanto su dulzura, que su amor ahuyentaba y destruía todo otro pensamiento. Por lo cual, elevándome del pensamiento del primer amor a la virtud de éste, como maravillándome, abrí la boca al hablar en la canción propuesta, mostrando mi condición bajo figura de otras cosas; porque de la dama de que yo me enamoraba, no era digna la rima de ningún lenguaje vulgar, ni estaban los oyentes tan bien dispuestos, que tan presto aprendieran las palabras no ficticias, y hubieran prestado tan poca fe al sentido verdadero como al ficticio, porque del verdadero creíase que estuviese por entero dispuesto a aquel amor como no se creía de éste. Comencé, por lo tanto, a decir:

Los que entendiendo movéis el tercer cielo.

Y como, según se ha dicho, esta dama fue la hija de Dios y reina de todo, la muy noble y hermosísima Filosofía, se ha de ver quiénes fueron estos motores y este tercer cielo. Y primero el tercer cielo, conforme al orden indicado. Y no es menester proceder aquí dividiendo y exponiendo a la letra; porque por medio de la pasada explicación, traducida la palabra ficticia, de lo que suena a lo que quiere decir, este sentido se ha declarado suficientemente.

XIII.

Para ver lo que por tercer cielo se entiende, primeramente se ha de ver lo que quiero decir por este solo vocablo: cielo, y luego se verá cómo y por qué nos fue menester este tercer cielo. Digo que por cielo entiendo la ciencia, y por cielos las ciencias, por tres semejanzas que los cielos tienen con las ciencias, principalmente por el orden y número en que parecen convenir, como se verá tratando del vocablo tercer.

La primera semejanza es la revolución de uno y otro en torno a un inmóvil suyo. Porque todo cielo movible da vueltas en torno a su centro, el cual no se mueve; ciencia se mueve en torno a su objeto, el cual no mueve aquélla, porque ninguna ciencia demuestra el propio objeto, sino que lo presupone.

La segunda semejanza es la iluminación de uno y otro. Porque todo cielo ilumina las cosas visibles; y así cada ciencia ilumina las inteligencias.

Y la tercera semejanza es el inducir la perfección en las cosas dispuestas. En la cual inducción, en cuanto a la primera perfección, esto es, de la generación sustancial, están concordes todos los filósofos en que su causa son los cielos, aunque lo expliquen diversamente: quiénes, por los motores, como Platón, Avicena y Algacel; quiénes, por las estrellas -especialmente las almas humanas-, como Sócrates, y también Platón y Dionisio Académico; y quiénes por virtud celestial, que está en el calor natural del germen, como Aristóteles y las demás peripatéticos. Así, las ciencias son causa de la inducción de la segunda perfección en nosotros; por hábito de las cuales, podemos especular la verdad, que es nuestra última perfección, como dice el filósofo en el sexto libro de la Ética, cuando dice lo bueno y verdadero del intelecto. Por éstas y otras semejanzas, puédese llamar cielo a la ciencia.

Ahora hemos de ver por qué se dice tercer cielo. Para lo cual es menester considerar una comparación que hay en el orden de los cielos con el de las ciencias. Como se ha referido, pues, más arriba, los siete cielos más próximos a nosotros son los de los planetas; luego hay otros dos cielos sobre éstos movibles, y uno, sobre todos, quieto. A los siete primeros corresponden las siete ciencias del Trivio y del Cuatrivio, a saber: Gramática, Dialéctica, Retórica, Aritmética, Música, Geometría y Astrología. A la octava esfera, es decir, a la estrellada, corresponde la ciencia natural, que se llama Física, y la primera ciencia, que se llama Metafísica; a la novena esfera corresponde la ciencia moral; y al cielo quieto corresponde la ciencia divina, que se llama Teología. Y hemos de ver brevemente la razón de que esto sea así.

Digo que el cielo de la Luna se asemeja a la Gramática, porque se puede comparar con ella. Porque si se mira bien a la luna, se ven dos cosas propias de ella que no se ven en las demás estrellas; es la una la sombra que hay en ella, la cual no es otra cosa sino raridad de su cuerpo, en la cual no pueden terminar los rayos del sol y repartirse como en las demás partes; es la otra la variación de su luminosidad, que ora luce por un lado, ora luce por, el otro, según el sol la ve. Y la Gramática tiene estas dos propiedades, porque, por su infinitud, los rayos de la razón en mucha parte no terminan en ella, especialmente en los vocablos; y luce, ora por aquí o por allá, en cuanto están en uso ciertos vocablos, ciertas declinaciones, ciertas construcciones que antes no lo estuvieron, y muchas lo estuvieron que todavía lo estarán; como dice Horacio en el principio de la Poetría, cuando dice: «Renacerán muchos vocablos que habían decaído», etc.

El cielo de Mercurio se puede comparar a la Dialéctica por dos propiedades: porque Mercurio es la estrella más pequeña del cielo; porque la cantidad de su diámetro no es más que de doscientas treinta y dos millas, según expone Alfragano, que dice ser aquél una vigésimoctava parte del diámetro de la tierra, el cual tiene seis mil quinientas millas. La otra propiedad es que está más velada de los rayos del sol que ninguna otra estrella. Y estas dos propiedades existen en la Dialéctica; porque la Dialéctica tiene menos cuerpo que ninguna otra ciencia; por lo cual está perfectamente compilada y terminada en todo el texto que en el arte antigua y en la nueva se encuentra; y está más velada que ninguna otra ciencia, en cuanto procede con argumentos más sofísticos y probables que otra alguna.

El cielo de Venus se puede comparar a la Retórica por dos propiedades: una es la claridad de su aspecto, que es más suave a la vista que ninguna otra estrella; otra es su aparición, ora a la mañana, ora a la tarde. Y estas dos propiedades existen en la Retórica, porque la Retórica es la más suave de todas las ciencias, porque tal se propone principalmente. Aparece de mañana, cuando el retórico habla a la vista del oyente; aparece de noche, es decir, detrás, cuando el retórico habla por el remoto medio de la letra.

El cielo del Sol se puede comparar a la Aritmética por dos propiedades: una es que de su luz se informan todas las demás estrellas; la otra es que los ojos no pueden mirarla. Y estas dos propiedades existen en la Aritmética, porque de su luz se iluminan todas las ciencias, ya que sus objetos todos son considerados bajo algún número, y en la consideración de aquéllos, siempre con número se procede. Del mismo modo que en la ciencia natural es objeto el cuerpo movible, el cual cuerpo tiene en sí razón de continuidad, y ésta tiene en sí razón de número infinito. Y la condición más principal de la ciencia natural es considerar los principios de las cosas naturales, las cuales son tres, a saber: materia, privación y forma; en los cuales se ve este número, no sola mente en todos juntos, sino que además en cada uno hay número, si se considera con sutileza. Porque Pitágoras, según dice Aristóteles en el primer libro de la Metafísica, suponía principios de las cosas naturales lo par y lo impar, considerando que todas las cosas son número. La otra propiedad del sol vese todavía en el número, del cual trata la Aritmética, porque el ojo del intelecto no le puede mirar; ya que el número, considerado en sí mismo, es infinito; y esto no lo podemos entender nosotros.

El cielo de Marte se puede comparar a la Música, por dos propiedades: es la una su más hermosa relación, porque, enumerando los cielos movibles, por cualquiera que se comience, ya sea el ínfimo o el sumo, el cielo de Marte es el quinto; está en medio de todos, a saber: de los primeros, los segundos, los terceros y los cuartos. La otra es que Marte seca y enciende las cosas; porque su color es semejante al del fuego, y por eso aparece de color de fuego, cuándo más, cuándo menos, según el espesor y raridad de los vapores que le siguen; los cuales se encienden muchas veces por sí mismos, tal como está determinado en el libro primero de la Meteora. Y por eso dice Albumassar que el encendimiento de tales vapores significa muertes de reyes y transmutación de reinos; porque son efectos del señorío de Marte. Y Séneca dice por eso que en la muerte de Augusto emperador vio en lo alto una bola de fuego. Y en Florencia, al principio de su destrucción, fue vista en el aire, en figura de cruz, una gran cantidad de estos vapores secuaces de a estrella de Marte. Y estas dos propiedades existen en la música, la cual es toda ella relativa, como se ve en las palabras armonizadas y en los cantos, de los cuales resulta tanto más dulce armonía cuanto más bella es la relación; la cual en tal ciencia es más bella que ninguna, porque principalmente se la propone. Además, la música atrae a sí los espíritus humanos, que son casi principalmente vapores del corazón, de modo que casi cesan de obrar por completo; de tal modo está el alma entera cuando se la oye, y la virtud de todos ellos corre al espíritu sensible que recibe el sonido.

El cielo de Júpiter se puede comparar a la Geometría por dos propiedades: es la una que se mueve entre dos cielos que repugnan a su buena temperatura, como son el de Marte y el de Saturno. Por lo cual, Tolomeo dice en el libro alegado que Júpiter es estrella de complexión templada, en medio del frío de Saturno y del calor de Marte. La otra es que se muestra entre todas las estrellas, blanca, como plateada. Y estas cosas existen en la ciencia de la Geometría. La Geometría se mueve entre dos que la repugnan, como son el punto y el círculo -y digo círculo en sentido amplio, a toda cosa redonda, ya sea cuerpo, ya superficie-; porque, como dice Euclides, el punto es principio de aquélla, y, según dice, el círculo es su figura más perfecta, por lo cual tiene razón de fin. Así que entre punto y círculo, como entre principio y fin, se mueve la Geometría. Y estos dos repugnan a su certeza; porque el punto, por su indivisibilidad, es inconmensurable, y el círculo, por su arco, es imposible se le cuadre perfectamente, y, por lo tanto, es imposible medirle con precisión. Y además la Geometría es blanquísima, en cuanto no tiene mácula de error, y ciertísima por sí y por su sierva, que se llama perspectiva.

El cielo de Saturno tiene dos propiedades, por las cuales se puede comparar a la Astrología: una es la tardanza de su movimiento por los doce signos; que veintinueve años y más, según los escritos de los astrólogos, necesita de tiempo su círculo; la otra es que está más alto que todos los demás planetas. Y estas dos propiedades existen en la Astrología; porque para cumplir su círculo, es decir, en su aprendizaje, ha menester grandísimo espacio de tiempo, tanto para sus demostraciones, que son más que de ninguna otra de las ciencias susodichas, como para la experiencia que para discernir bien en ella se necesita. Además está más alta que todas las demás, porque, como dice Aristóteles en el principio Del alma, la ciencia es alta en nobleza, por la nobleza de su objeto y por su certeza. Ésta, más que ninguna de las susodichas, es noble y alta por su objeto alto y noble, como es el movimiento del cielo; es alta y noble por su certeza, la cual no tiene defecto, como procedente de perfectísimo y regular principio. Y si alguno la cree con defecto, no es de ella, sino, como dice Tolomeo, de nuestra negligencia, y a ésta se debe imputar.

XIV.

Después de las comparaciones hechas de los siete primeros cielos, hay que proceder con los otros, que son tres, como varias veces se ha referido. Digo que el cielo estrellado se puede comparar a la Física por tres propiedades y a la Metafísica, por otras tres; porque muéstranos de sí dos cosas visibles, como son las muchas estrellas, y la Galaxia, es decir, ese blanco círculo que el vulgo llama Camino de Santiago; y muéstranos uno de los polos y el otro nos

esconde; y muéstranos un solo movimiento de Oriente a Occidente que casi nos lo esconde. Por lo cual hemos de ver por orden, primero, la comparación de la Física, y luego, la de la Metafísica.

Digo que el cielo estrellado nos muestra muchas estrellas; porque, según han visto los sabios de Egipto, hasta la última estrella que descubrieron en el meridiano, suponen mil veintidós cuerpos de estas estrellas de que hablo. Y en esto tiene grandísima semejanza con la Física, si se consideran sutilmente estos tres números, a saber: dos, veinte y mil; porque por el dos se entiende el movimiento local, que es de necesidad de un punto a otro. Y por el veinte significa el movimiento de la alteración, pues dado que del diez para arriba no se va alternando sino ese diez con los otros nueve y consigo mismo, y la más hermosa alteración que recibe es la suya propia, y la primera que recibe es veinte, es de razón que este número signifique dicho movimiento. Y por el mil significa el movimiento de aumento, porque en el nombre, es decir, este mil, es el número mayor, y no se puede aumentar más sino multiplicando éste. Y sólo estos tres movimientos muestra la Física, como está probado en el quinto de su primer libro.

Y por la Galaxia tiene semejanza este cielo grande con la Metafísica. Porque se ha de saber que los filósofos han tenido diversas opiniones acerca de la Galaxia. Porque los pitagóricos dijeron que el sol erró alguna vez en su camino, y, pasando por otras partes inadecuadas a su hervor, quemó el lugar por donde pasara; y quedó aquella señal del incendio. Y creo que se inspiraron en la fábula de Faetonte, que refiere Ovidio en el principio del segundo de Metamorfoseos. Otros -como Anaxágoras y Demócrito- dijeron que aquello era luz del sol reflejada en aquella parte. Y estas opiniones afirmaron con razones demostrativas. Lo que de ello nos dijera Aristóteles no puede saberse con certeza, porque su sentido no es el mismo en una que en otra transcripción. Y creo que fuese error de los transcriptores; porque en la Nueva parece decir que ello es una acumulación en aquella parte, bajo las estrellas, de los vapores que siempre arrastran; y esto no parece ser cierto. En la Antigua dice que la Galaxia no es sino una multitud de estrellas fijas en aquella parte, y tan pequeñas, que de aquí abajo no las podemos distinguir; mas de ellas procede esa albura a que llamamos Galaxia. Y puede ser que el cielo en esa parte sea más espeso, y de ahí que retenga y muestre luz tal; y esta opinión parecen tener con Aristóteles, Avicena y Tolomeo. Por donde, dado que la Galaxia sea un efecto de esas estrellas, las cuales nosotros no podemos ver, mas por su efecto entendemos tales cosas, y pues la Metafísica trata de las sustancias primeras, las cuales no podemos de la misma manera entender sino por sus efectos, manifiesto está que el cielo estrellado tiene gran semejanza con la Metafísica.

Además, por el polo que vemos, significa las cosas que no tienen materia, que no son sensibles, de las cuales trata la Metafísica; y por eso tiene dicho cielo grande semejanza con una y con otra ciencia. Además, por los dos movimientos, significa estas dos ciencias; porque por el movimiento en que se revuelve cada día y hace una nueva circunvolución de punto a punto, significa las cosas corruptibles, que cotidianamente cumplen su camino, y su materia se muda de forma en forma; y de éstas trata la Física. Y por el movimiento casi insensible que hace de Occidente a Oriente, de un grado en cien años, significa las cosas incorruptibles, las cuales tuvieron en Dios comienzo de creación y no tendrán fin; y de éstas trata la Metafísica. Y por eso digo que este movimiento significa aquéllas que ese circunvolución comenzó y que no tendría fin; porque fin de la circunvolución es volver a un mismo punto, al cual no volverá este cielo, conforme a este movimiento. Porque desde el comienzo del mundo ha girado poco más de la sexta parte; y nosotros estamos ya en la última edad del siglo, y esperamos, en verdad, la consumación del celestial movimiento. Y así, manifiesto es que el cielo estrellado, por muchas propiedades, se puede comparar a la Física y a la Metafísica.

El cielo cristalino contado antes como primero movible, tiene semejanza asaz manifiesta con la Filosofía moral; porque la Filosofía moral, según dice Tomás acerca del segundo de la Ética, nos prepara para las demás ciencias. Pues como dice el filósofo en el quinto de la Ética, la justicia legal prepara las ciencias para aprender, y ordena, para que no sean abandonadas, que aquéllas sean aprendidas y enseñadas; así el dicho cielo ordena con su movimiento la cotidiana revolución de todos los demás; por la cual cada uno de todos ellos reciben aquí abajo la virtud de todas sus partes. Porque si la revolución de éste no ordenase tal, poco de su virtud o de su vista llegaría aquí abajo. De donde, suponiendo que fuese posible que este noveno cielo no se moviese, la tercera parte del cielo no se hubiera visto aún en ningún lugar de la tierra; y Saturno permanecería oculto catorce años y medio a todos los lugares de la tierra, y Júpiter se escondería seis años, y Marte casi un año, y el Sol ciento ochenta y dos días y catorce horas -digo días, por decir tanto tiempo cuanto miden esos días-, y Venus y Mercurio casi como el Sol se celarían y se mostrarían, y la Luna durante catorce días y medio permanecería oculta a todas las gentes. No habría aquí abajo, en verdad, generación ni vida de animales ni de plantas; no habría noche, ni día, semana, mes ni año; mas todo el universo estaría desordenado, y el movimiento de los demás sería vano. Y no de otro modo, al cesar la Filosofía moral, las demás ciencias estarían ocultas algún tiempo, y no habría generación, ni vida feliz, y en vano estarían escritas y halladas de antiguo. Por lo cual manifiesto está que este cielo tiene semejanza con la Filosofía moral.

Además, el cielo empíreo, por su paz, aseméjase a la divina creencia que llena está de toda paz; la cual no padece litigio alguno de opiniones o argumentos sofísticos, por la excelentísima certeza de su objeto, que es Dios. Y de ésta dice Él a sus discípulos: «Mi paz os doy, mi paz os dejo», dándoles y dejándoles su doctrina, que e la ciencia de que yo hablo. De ésta dice Salomón: «Sesenta son las reinas y ochenta las amigas concubinas; y de las siervas adolescentes nos puede contar el número; una es mi paloma y mi perfecta». A todas las ciencias llama reinas, amantes y siervas; y a ésta llama paloma porque no hay en ella mácula de litigio; y a ésta llama perfecta, porque hace ver la verdad perfectamente, en la cual se aquieta nuestra alma. Y por eso, así razonada la comparación de los cielos con las ciencias, puede verse que por el tercer cielo entiendo la Retórica, la cual se asemeja al tercer cielo, como más arriba se muestra.

XV.

Por las semejanzas dichas puede verse quienes son estos motores a quienes hablo, que son motores de aquél; como Boecio y Tulio, los cuales, con la suavidad de su discurso, me inclinaron, como se ha dicho antes, al amor, esto es, al estudio de esta dama gentilísima, la Filosofía, con los rayos de su estrella, la cual es la escritura de aquélla; por donde, en toda ciencia, la escritura se estrella llena de luz, la cual aquella ciencia demuestra. Y, una vez manifestado esto, puede verse el verdadero sentido del primer verso de la canción propuesta, por la exposición ficticia y literal. Y por esta misma exposición puede entenderse suficientemente el primer verso hasta aquella parte donde dice: Éste me hace mirar a una dama. Ahora bien; ha de saberse que esta dama es la Filosofía; la cual es en verdad dama llena de dulzura, adornada de honestidad, admirable de sabiduría, gloriosa de libertad, como en el tercer Tratado, donde se tratará de su nobleza, está manifiesto.

Y allí donde dice: Quien quiera ver la salud haga por ver los ojos de esta dama, los ojos de esta dama son sus demostraciones, las cuales, dirigidas a los ojos del intelecto, enamoran el alma libre en las condiciones. ¡Oh, dulcísimos e inefables semblantes y súbitos raptadores de la mente humana, que en las demostraciones, en los ojos de la Filosofía aparecéis, cuando ésta a sus amantes habla! En verdad, en nosotros está la salud por la cual quien os mira es bienaventurado y salvo de la muerte, de la ignorancia y de los vicios.

Donde se dice: Si es que no teme angustia de suspiros, aquí se ha de entender, si no teme labor de estudio y litigio de dudas, las cuales, desde el principio de las miradas de esta dama, surgen multiplicándose, y luego, continuando su luz, producen así como nubecillas matutinas al rostro del Sol, y permanece libre y lleno de certeza el intelecto familiar, como el aire de los rayos meridianos, purgado e ilustrado.

El tercer verso se entiende todavía por la exposición literal hasta donde dice: El alma llora. Aquí se ha de tener en cuenta alguna moralidad que se puede notar en estas palabras; que no debe el hombre olvidar por un amigo mayor los vicios recibidos del menor; mas si se ha de seguir sólo al uno y dejar al otro, se ha de seguir al mejor, abandonando al otro con alguna honesta lamentación; en la cual da ocasión de que le ame más aquel a quien sigue.

Luego, donde dice: De mis ojos, no quiere decir sino que fue dura la hora en que la primera demostración de esta dama entró en los ojos de mi intelecto, la cual fue causa muy inmediata de este enamoramiento. Y allí donde dice: Mis iguales, se entienden las almas libres de los míseros y viles deleites y de los hábitos vulgares, y dotadas de ingenio y de memoria, y dice luego: mata; y dice luego: soy muerta; lo cual parece contrario a lo dicho más arriba de la salud de esta dama. Mas ha de saberse que aquí habla una de las partes y allí habla la otra; las cuales litigan diversamente, según está manifiesto más arriba. Por donde no es de maravillar si allí dice sí y aquí dice no, si bien se considera quién desciende y quién sube.

Luego, en el cuarto verso, donde dice: Un gentil espíritu de amor, entiéndese un pensamiento que nace de mi estudio. Por lo cual ha de saberse que por amor en esta alegoría se entiende siempre ese estudio, el cual es aplicación del ánimo enamorado de la cosa a la cosa misma. Luego cuando dice: De tan altos milagros el adorno, anuncia que en ella se verá el ornamento de los milagros; y dice verdad: que los adornos de las maravillas es el ver la causa de aquéllas, las cuales demuestra, como en el principio de la Metafísica parece sentir el filósofo, diciendo que para ver estos adornos comenzaron los hombres a enamorarse de esta dama. Y de este vocablo, a saber, maravilla, se tratará plenamente en el siguiente Tratado. Todo lo demás que sigue luego de esta canción está suficientemente manifiesto por la argumentación. Y así, al fin de este segundo Tratado, digo y afirmo que la dama de quien me enamoré después del primer amor fue la bellísima y honestísima hija del Emperador del Universo, la cual Pitágoras puso por nombre Filosofía. Y aquí se termina el segundo Tratado, que, como primer manjar, se ha servido antes.

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