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jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XVI

CANTO XVI

[Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza, de le quali al presente non è ricordo né fama.]

O poca nostra nobiltà di sangue,

se glorïar di te la gente fai

qua giù dove l'affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:

ché là dove appetito non si torce,

dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se' tu manto che tosto raccorce:

sì che, se non s'appon di dì in die,

lo tempo va dintorno con le force.

Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie,

in che la sua famiglia men persevra,

ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch'era un poco scevra,

ridendo, parve quella che tossio

al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;

voi mi date a parlar tutta baldezza;

voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io.

Per tanti rivi s'empie d'allegrezza

la mente mia, che di sé fa letizia

perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,

quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni

che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l'ovil di San Giovanni

quanto era allora, e chi eran le genti

tra esso degne di più alti scanni».

Come s'avviva a lo spirar d'i venti

carbone in fiamma, così vid' io quella

luce risplendere a' miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,

così con voce più dolce e soave,

ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto 'Ave'

al parto in che mia madre, ch'è or santa,

s'allevïò di me ond' era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta

e trenta fiate venne questo foco

a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco

dove si truova pria l'ultimo sesto

da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d'i miei maggiori udirne questo:

chi ei si fosser e onde venner quivi,

più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch'a quel tempo eran ivi

da poter arme tra Marte e 'l Batista,

eran il quinto di quei ch'or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch'è or mista

di Campi, di Certaldo e di Fegghine,

pura vediesi ne l'ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine

quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo

e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo

del villan d'Aguglion, di quel da Signa,

che già per barattare ha l'occhio aguzzo!

Se la gente ch'al mondo più traligna

non fosse stata a Cesare noverca,

ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,

che si sarebbe vòlto a Simifonti,

là dove andava l'avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de' Conti;

sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone,

e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone

principio fu del mal de la cittade,

come del vostro il cibo che s'appone;

e cieco toro più avaccio cade

che cieco agnello; e molte volte taglia

più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia

come sono ite, e come se ne vanno

di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno

non ti parrà nova cosa né forte,

poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,

sì come voi; ma celasi in alcuna

che dura molto, e le vite son corte.

E come 'l volger del ciel de la luna

cuopre e discuopre i liti sanza posa,

così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa

ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini

onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,

Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,

già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,

con quel de la Sannella, quel de l'Arca,

e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch'al presente è carca

di nova fellonia di tanto peso

che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond' è disceso

il conte Guido e qualunque del nome

de l'alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come

regger si vuole, e avea Galigaio

dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome.

Grand' era già la colonna del Vaio,

Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci

e Galli e quei ch'arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci

era già grande, e già eran tratti

a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti

per lor superbia! e le palle de l'oro

fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro

che, sempre che la vostra chiesa vaca,

si fanno grassi stando a consistoro.

L'oltracotata schiatta che s'indraca

dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente

o ver la borsa, com' agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;

sì che non piacque ad Ubertin Donato

che poï il suocero il fé lor parente.

Già era 'l Caponsacco nel mercato

disceso giù da Fiesole, e già era

buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:

nel picciol cerchio s'entrava per porta

che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta

del gran barone il cui nome e 'l cui pregio

la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;

avvegna che con popol si rauni

oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;

e ancor saria Borgo più quïeto,

se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,

per lo giusto disdegno che v'ha morti

e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:

o Buondelmonte, quanto mal fuggisti

le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,

se Dio t'avesse conceduto ad Ema

la prima volta ch'a città venisti.

Ma conveniesi, a quella pietra scema

che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse

vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,

vid' io Fiorenza in sì fatto riposo,

che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vid' io glorïoso

e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio

non era ad asta mai posto a ritroso,

né per divisïon fatto vermiglio».

miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XII

CANTO XII

[Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume.]

Era lo loco ov' a scender la riva

venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.

Qual è quella ruina che nel fianco

di qua da Trento l'Adice percosse,

o per tremoto o per sostegno manco,

che da cima del monte, onde si mosse,

al piano è sì la roccia discoscesa,

ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:

cotal di quel burrato era la scesa;

e 'n su la punta de la rotta lacca

l'infamïa di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;

e quando vide noi, sé stesso morse,

sì come quei cui l'ira dentro fiacca.

Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse

tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,

che sù nel mondo la morte ti porse?

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene

ammaestrato da la tua sorella,

ma vassi per veder le vostre pene».

Qual è quel toro che si slaccia in quella

c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,

che gir non sa, ma qua e là saltella,

vid' io lo Minotauro far cotale;

e quello accorto gridò: «Corri al varco; mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».

Così prendemmo via giù per lo scarco

di quelle pietre, che spesso moviensi

sotto i miei piedi per lo novo carco.

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi

forse a questa ruina, ch'è guardata

da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.

Or vo' che sappi che l'altra fïata

ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,

questa roccia non era ancor cascata.

Ma certo poco pria, se ben discerno,

che venisse colui che la gran preda

levò a Dite del cerchio superno,

da tutte parti l'alta valle feda

tremò sì, ch'i' pensai che l'universo

sentisse amor, per lo qual è chi creda

più volte il mondo in caòsso converso;

e in quel punto questa vecchia roccia,

qui e altrove, tal fece riverso.

Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia

la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia».

Oh cieca cupidigia e ira folle,

che sì ci sproni ne la vita corta,

e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!

Io vidi un'ampia fossa in arco torta,

come quella che tutto 'l piano abbraccia,

secondo ch'avea detto la mia scorta;

e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia

corrien centauri, armati di saette,

come solien nel mondo andare a caccia.

Veggendoci calar, ciascun ristette,

e de la schiera tre si dipartiro

con archi e asticciuole prima elette;

e l'un gridò da lungi: «A qual martiro

venite voi che scendete la costa?

Ditel costinci; se non, l'arco tiro».

Lo mio maestro disse: «La risposta

farem noi a Chirón costà di presso:

mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,

che morì per la bella Deianira,

e fé di sé la vendetta elli stesso.

E quel di mezzo, ch'al petto si mira,

il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell' altro è Folo, che fu sì pien d'ira.

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,

saettando qual anima si svelle

del sangue più che sua colpa sortille».

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:

Chirón prese uno strale, e con la cocca

fece la barba in dietro a le mascelle.

Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,

disse a' compagni: «Siete voi accorti

che quel di retro move ciò ch'el tocca?

Così non soglion far li piè d'i morti».

E 'l mio buon duca, che già li er' al petto,

dove le due nature son consorti,

rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto

mostrar li mi convien la valle buia;

necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.

Tal si partì da cantare alleluia

che mi commise quest' officio novo:

non è ladron, né io anima fuia.

Ma per quella virtù per cu' io movo

li passi miei per sì selvaggia strada,

danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,

e che ne mostri là dove si guada,

e che porti costui in su la groppa,

ché non è spirto che per l'aere vada».

Chirón si volse in su la destra poppa,

e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,

e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».

Or ci movemmo con la scorta fida

lungo la proda del bollor vermiglio,

dove i bolliti facieno alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;

e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni

che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.

Quivi si piangon li spietati danni;

quivi è Alessandro, e Dïonisio fero

che fé Cicilia aver dolorosi anni.

E quella fronte c'ha 'l pel così nero,

Azzolino; e quell' altro ch'è biondo,

Opizzo da Esti, il qual per vero

fu spento dal figliastro sù nel mondo».

Allor mi volsi al poeta, e quei disse:

«Questi ti sia or primo, e io secondo».

Poco più oltre il centauro s'affisse

sovr' una gente che 'nfino a la gola

parea che di quel bulicame uscisse.

Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,

dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio

lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».

Poi vidi gente che di fuor del rio

tenean la testa e ancor tutto 'l casso;

e di costoro assai riconobb' io.

Così a più a più si facea basso

quel sangue, sì che cocea pur li piedi;

e quindi fu del fosso il nostro passo.

«Sì come tu da questa parte vedi

lo bulicame che sempre si scema»,

disse 'l centauro, «voglio che tu credi

che da quest' altra a più a più giù prema

lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge

ove la tirannia convien che gema.

La divina giustizia di qua punge

quell' Attila che fu flagello in terra,

e Pirro e Sesto; e in etterno munge

le lagrime, che col bollor diserra,

a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,

che fecero a le strade tanta guerra».

Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.

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