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martes, 25 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XXXIII

CANTO XXXIII

[Canto XXXIII, il quale si è l'ultimo de la seconda cantica, ove si racconta sì come Beatrice dichiaroe a Dante quelle cose ch'elli vide, trattando e dimostrando le future vendette e de la ingiuria nel predetto carro del grifone; e infine, veduti li quattro fiumi del Paradiso, escono verso il cielo.

'Deus, venerunt gentes', alternando

or tre or quattro dolce salmodia,

le donne incominciaro, e lagrimando;

e Bëatrice, sospirosa e pia,

quelle ascoltava sì fatta, che poco

più a la croce si cambiò Maria.

Ma poi che l'altre vergini dier loco

a lei di dir, levata dritta in pè,

rispuose, colorata come foco:

'Modicum, et non videbitis me;

et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me'.

Poi le si mise innanzi tutte e sette,

e dopo sé, solo accennando, mosse

me e la donna e 'l savio che ristette.

Così sen giva; e non credo che fosse

lo decimo suo passo in terra posto,

quando con li occhi li occhi mi percosse;

e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,

mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,

ad ascoltarmi tu sie ben disposto».

Sì com' io fui, com' io dovëa, seco,

dissemi: «Frate, perché non t'attenti

a domandarmi omai venendo meco?».

Come a color che troppo reverenti

dinanzi a suo maggior parlando sono,

che non traggon la voce viva ai denti,

avvenne a me, che sanza intero suono

incominciai: «Madonna, mia bisogna

voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».

Ed ella a me: «Da tema e da vergogna

voglio che tu omai ti disviluppe,

sì che non parli più com' om che sogna.

Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe,

fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda

che vendetta di Dio non teme suppe.

Non sarà tutto tempo sanza reda

l'aguglia che lasciò le penne al carro,

per che divenne mostro e poscia preda;

ch'io veggio certamente, e però il narro,

a darne tempo già stelle propinque,

secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque.

E forse che la mia narrazion buia,

qual Temi e Sfinge, men ti persuade,

perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;

ma tosto fier li fatti le Naiade,

che solveranno questo enigma forte

sanza danno di pecore o di biade.

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a' vivi

del viver ch'è un correre a la morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,

di non celar qual hai vista la pianta

ch'è or due volte dirubata quivi.

Qualunque ruba quella o quella schianta,

con bestemmia di fatto offende a Dio,

che solo a l'uso suo la creò santa.

Per morder quella, in pena e in disio

cinquemilia anni e più l'anima prima

bramò colui che 'l morso in sé punio.

Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima

per singular cagione essere eccelsa

lei tanto e sì travolta ne la cima.

E se stati non fossero acqua d'Elsa

li pensier vani intorno a la tua mente,

e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,

per tante circostanze solamente

la giustizia di Dio, ne l'interdetto,

conosceresti a l'arbor moralmente.

Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto

fatto di pietra e, impetrato, tinto,

sì che t'abbaglia il lume del mio detto,

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,

che 'l te ne porti dentro a te per quello

che si reca il bordon di palma cinto».

E io: «Sì come cera da suggello,

che la figura impressa non trasmuta,

segnato è or da voi lo mio cervello.

Ma perché tanto sovra mia veduta

vostra parola disïata vola,

che più la perde quanto più s'aiuta?».

«Perché conoschi», disse, «quella scuola

c'hai seguitata, e veggi sua dottrina

come può seguitar la mia parola;

e veggi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina».

Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricorda

ch'i' stranïasse me già mai da voi,

né honne coscïenza che rimorda».

«E se tu ricordar non te ne puoi»,

sorridendo rispuose, «or ti rammenta

come bevesti di Letè ancoi;

e se dal fummo foco s'argomenta,

cotesta oblivïon chiaro conchiude

colpa ne la tua voglia altrove attenta.

Veramente oramai saranno nude

le mie parole, quanto converrassi

quelle scovrire a la tua vista rude».

E più corusco e con più lenti passi

teneva il sole il cerchio di merigge,

che qua e là, come li aspetti, fassi,

quando s'affisser, sì come s'affigge

chi va dinanzi a gente per iscorta

se trova novitate o sue vestigge,

le sette donne al fin d'un'ombra smorta,

qual sotto foglie verdi e rami nigri

sovra suoi freddi rivi l'alpe porta.

Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri

veder mi parve uscir d'una fontana,

e, quasi amici, dipartirsi pigri.

«O luce, o gloria de la gente umana,

che acqua è questa che qui si dispiega

da un principio e sé da sé lontana?».

Per cotal priego detto mi fu: «Priega

Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,

come fa chi da colpa si dislega,

la bella donna: «Questo e altre cose

dette li son per me; e son sicura

che l'acqua di Letè non gliel nascose».

E Bëatrice: «Forse maggior cura,

che spesse volte la memoria priva,

fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.

Ma vedi Eünoè che là diriva:

menalo ad esso, e come tu se' usa,

la tramortita sua virtù ravviva».

Come anima gentil, che non fa scusa,

ma fa sua voglia de la voglia altrui

tosto che è per segno fuor dischiusa;

così, poi che da essa preso fui,

la bella donna mossesi, e a Stazio

donnescamente disse: «Vien con lui».

S'io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i' pur cantere' in parte

lo dolce ber che mai non m'avria sazio;

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l'arte.

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire a le stelle.

sábado, 22 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XXIII

CANTO XXIII

[Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.]

Mentre che li occhi per la fronda verde

ficcava ïo sì come far suole

chi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo più che padre mi dicea: «Figliuole,

vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto

più utilmente compartir si vuole».

Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto,

appresso i savi, che parlavan sìe,

che l'andar mi facean di nullo costo.

Ed ecco piangere e cantar s'udìe

'Labïa mëa, Domine' per modo

tal, che diletto e doglia parturìe.

«O dolce padre, che è quel ch'i' odo?»,

comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno

forse di lor dover solvendo il nodo».

Sì come i peregrin pensosi fanno,

giugnendo per cammin gente non nota,

che si volgono ad essa e non restanno,

così di retro a noi, più tosto mota,

venendo e trapassando ci ammirava

d'anime turba tacita e devota.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,

palida ne la faccia, e tanto scema

che da l'ossa la pelle s'informava.

Non credo che così a buccia strema

Erisittone fosse fatto secco,

per digiunar, quando più n'ebbe tema.

Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco

la gente che perdé Ierusalemme,

quando Maria nel figlio diè di becco!'.

Parean l'occhiaie anella sanza gemme:

chi nel viso de li uomini legge 'omo'

ben avria quivi conosciuta l'emme.

Chi crederebbe che l'odor d'un pomo

sì governasse, generando brama,

e quel d'un'acqua, non sappiendo como?

Già era in ammirar che sì li affama,

per la cagione ancor non manifesta

di lor magrezza e di lor trista squama,

ed ecco del profondo de la testa

volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;

poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».

Mai non l'avrei riconosciuto al viso;

ma ne la voce sua mi fu palese

ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese

mia conoscenza a la cangiata labbia,

e ravvisai la faccia di Forese.

«Deh, non contendere a l'asciutta scabbia

che mi scolora», pregava, «la pelle,

né a difetto di carne ch'io abbia;

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle

due anime che là ti fanno scorta;

non rimaner che tu non mi favelle!».

«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta,

mi dà di pianger mo non minor doglia»,

rispuos' io lui, «veggendola sì torta.

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;

non mi far dir mentr' io mi maraviglio,

ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».

Ed elli a me: «De l'etterno consiglio

cade vertù ne l'acqua e ne la pianta

rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.

Tutta esta gente che piangendo canta

per seguitar la gola oltra misura,

in fame e 'n sete qui si rifà santa.

Di bere e di mangiar n'accende cura

l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo

che si distende su per sua verdura.

E non pur una volta, questo spazzo

girando, si rinfresca nostra pena:

io dico pena, e dovria dir sollazzo,

ché quella voglia a li alberi ci mena

che menò Cristo lieto a dire 'Elì',

quando ne liberò con la sua vena».

E io a lui: «Forese, da quel dì

nel qual mutasti mondo a miglior vita,

cinqu' anni non son vòlti infino a qui.

Se prima fu la possa in te finita

di peccar più, che sovvenisse l'ora

del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,

come se' tu qua sù venuto ancora?

Io ti credea trovar là giù di sotto,

dove tempo per tempo si ristora».

Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto

a ber lo dolce assenzo d'i martìri

la Nella mia con suo pianger dirotto.

Con suoi prieghi devoti e con sospiri

tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,

e liberato m'ha de li altri giri.

Tanto è a Dio più cara e più diletta

la vedovella mia, che molto amai,

quanto in bene operare è più soletta;

ché la Barbagia di Sardigna assai

ne le femmine sue più è pudica

che la Barbagia dov' io la lasciai.

O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?

Tempo futuro m'è già nel cospetto,

cui non sarà quest' ora molto antica,

nel qual sarà in pergamo interdetto

a le sfacciate donne fiorentine

l'andar mostrando con le poppe il petto.

Quai barbare fuor mai, quai saracine,

cui bisognasse, per farle ir coperte,

o spiritali o altre discipline?

Ma se le svergognate fosser certe

di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,

già per urlare avrian le bocche aperte;

ché, se l'antiveder qui non m'inganna,

prima fien triste che le guance impeli

colui che mo si consola con nanna.

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!

vedi che non pur io, ma questa gente

tutta rimira là dove 'l sol veli».

Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente

qual fosti meco, e qual io teco fui,

ancor fia grave il memorar presente.

Di quella vita mi volse costui

che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda

vi si mostrò la suora di colui»,

e 'l sol mostrai; «costui per la profonda

notte menato m'ha d'i veri morti

con questa vera carne che 'l seconda.

Indi m'han tratto sù li suoi conforti,

salendo e rigirando la montagna

che drizza voi che 'l mondo fece torti.

Tanto dice di farmi sua compagna

che io sarò là dove fia Beatrice;

quivi convien che sanza lui rimagna.

Virgilio è questi che così mi dice»,

e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra

per cuï scosse dianzi ogne pendice

lo vostro regno, che da sé lo sgombra».

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