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miércoles, 21 de octubre de 2020

COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA". PROEMIO.

COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"

PROEMIO

[Lez. I]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá, quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia, nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del prologo del suo Timeo, per sé dicendo: «Namcum omnibus mos sit et quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo furore atque implacabili raptemur amentia?». E, se Platone confessa sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi sotto il poetico velo della Commedia del nostro Dante; e massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá, come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque, accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo, poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi che nel secondo del suo Eneida scrive Virgilio:

Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,

aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,

da deinde auxilium, pater, ecc.

[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga, estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro; la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di filosofia sia il presente libro supposto.]

[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia, cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni sono, sí come manifestamente apparirá nel processo.

adunque il suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire obbligato. La causa formale è similmente doppia, perciò ch'egli è la forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella secondo la quale ciascun canto si divide in 
rittimi. La forma, o vero il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo, reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso, dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato della miseria, allo stato della felicitá.]

[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la Commedia di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano le cantiche della Commedia di Dante Alighieri fiorentino». La quale, percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche della Commedia di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]

[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo, percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio, è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa, volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé contenente piú canti.]

[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato «commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de' comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché «commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da «comos,», che in latino viene a dire «villa», e «odos», che viene a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia, nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar latino che nel materno.]

[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano: la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è, secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie «scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto «scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama «canti» le parti della sua Commedia. E cosí, accioché fine pognamo agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono, ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato, figurativamente parlando. Il tutto della commedia (per quello che per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.

[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «Qui misere credit, creditur esse miser». E qual cosa è piú misera che credere al patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da prestare alle loro parole.]

[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu, quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli, datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo «amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici, a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi, e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá, com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo del Paradiso. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma, percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello, non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata nella sua Commedia da lui recitata.]

[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono; per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del trentesimo canto del Purgatorio, nel quale essa, parlandogli, gli dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò, soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del Paradiso, lá dove Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo basti intorno al titolo avere scritto.]

[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale, secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica: percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo, non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]

[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello 'Nferno». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura sopravverranno, il mio poco ingegno

e la debolezza della mia memoria, intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá, che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della santa Chiesa me ne sommetto.]

[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello 'Nferno»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso, qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per Isaia, il quale dice: «Dilatavit infernus animam suam, et aperuit os suum absque ullo termino»; e Vergilio nel sesto dell'Eneida dice: «Inferni ianua regis»; e Iob: «In profundissimum infernum descendet anima mea». Per le quali autoritá appare essere inferno.]

[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «Circumdederunt me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me»; e in altra parte dice: «Descendant in infernum viventes»; quasi voglia dire «nelle miserie della presente vita».]

[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione, dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca; volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze, degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo questo cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo inferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disiderate e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il quale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'un termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i vari tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eaco e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che in quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono, percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per loro intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di quelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali pene ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]

[Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose il figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui la qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non ardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendosene adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non vogliono de' loro tesori se non vedergli.]

[Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo, secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone, richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i centauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse di volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li quali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia occupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; e di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè gli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro a' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa

pena, che sono sempre in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le serpi s'intendono.]

[Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente richiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nferno dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli che d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li quali sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornar possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono lasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requie s'affliggono.]

[Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse uccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senza fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano: volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali, avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor guida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello che giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi, farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminata sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito sodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma, accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i poeti gentili.]

[Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere vicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo limbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: e questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di questo mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano, disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, che l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]

[Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo di pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «Mortuus est dives, et sepultus est in inferno». Ed il salmista: «In inferno autem quis confitebitur tibi?». E che questo sia, si legge nel Vangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendo sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il dito minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E di questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto canto in giú.]

[Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno; conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto, scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare essere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel libro undicesimo della sua Odissea, Ulisse per mare essere stato mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere da Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere pervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna luce di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il quale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo nel sesto del suo Eneida l'entrata dello 'nferno essere appo il lago d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:

Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,

scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;

quam super haud ullae poterant impune volantes

tendere iter pennis: talis sese halitus atris

faucibus effundens supera ad convexa ferebat:

unde locum Graii dixerunt nomine Avernum, ecc.

E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla in inferno. Stazio, nel primo del suo Thebaidos, dice questo luogo essere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, la quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «Traenaron»: e di quindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:

.......illa per umbras,

et caligantes animarum examine campos

Traenareae limen petit irremeabile portae, ecc.

E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, in tragoedia Herculis furentis, dove dice Cerbero infernal cane essere stato tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro, dicendo cosí:

Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor

percussit oculos lucis, ecc.

Pomponio Mela, nel primo libro della sua Cosmografia, dice questo luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel mare maggiore, scrivendo in questa forma: «In eo primum Mariatidinei urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant», ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello affermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]

[La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale, discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello, aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa in queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole», discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto allo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e in parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono per lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]

[Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de' peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna prigione.]

[Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale averne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel sesto dell'Eneida si legge, il chiama Averno, dove dice:

Tros Anchisiades, facilis descensus Averni.

E nominasi questo luogo Averno, ab «a», quod est «sine», «vernus», quod est «laetitia»:

cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:

.......tum Tartarus ipse

bis patet in praeceps, ecc.

E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i miseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato libro, dove dice:

Perque domos Ditis vacuas, et inania regna.

Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite, cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissima moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel libro spesse volte allegato, dove scrive:

Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci.

Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel processo apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro, dicendo:

Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes.

E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli s'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramente riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove dice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come nell'Apocalisse si legge ove dice: «Bestia quae ascendet de abysso, faciet adversus illos bellum»; e in altra parte: «Data est illi clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi». Il qual nome significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti al presente aver narrati questi.]

[Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si vegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo. Dicono adunque questi cotali: - Secondo che ciascun ragiona, Dante fu litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare? - A' quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama, come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi latini, cosí:

Ultima regna canam fluido contermina mundo,

spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt

pro meritis cuicumque suis, ecc.

E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo: e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da' signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e rendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebei e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e per conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si sommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino, tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che, se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., ut supra.]

CANTO TERZO, I, SENSO LETTERALE

CANTO TERZO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. IX]

«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato; nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».

Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino, dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno; sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá, percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre, al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono dannati.

«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui «eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano, percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire «eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «quia in inferno nulla est redemptio», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da morte spogliò il limbo.

«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno s'entrava; «Perch'io» (supple) dissi: - «Maestro», Virgilio; e ben fa qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello che dir vogliono, «m'è duro», - cioè malagevole ad intendere.

«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (
supple) rispose, «come persona accorta», cioè intendente:

«Qui», cioè in questa entrata, «si convien lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto dell'
Eneida, dove la Sibilla dice ad Enea:

Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo.

«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben dell'intelletto», - cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].

«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che, vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si confortò tutto.

«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle, secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.

«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed egli a me: - Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi: «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio, - disse»; la settima ed ultima quivi: «Finito questo».

Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno, «sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue», cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli, come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno; «Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore, per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi, esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone» nella sua Meteora, dove chi vuole può pienamente vedere di questa materia.

«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto; «Dissi: - Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?», - secondo che le loro voci manifestano.

«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Questo misero modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.

Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene, questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo «mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare; di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza infamia e senza lodo».

«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro» [si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir «coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro, ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo» il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero come non doveano.

«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè «aggelos», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore» o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito beato].

«Che non furon ribelli», (supple) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.

[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro ne dimostra nel secondo delle Sentenzie, e di queste due l'una non peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò, tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie, che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]

E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo: «Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché, cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue, se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga, essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro, percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei», angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber d'elli», - veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere alleggiamento della pena loro.

«Ed io: - Maestro», (
supple) dissi, «che è tanto greve», cioè qual tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?» - cioè sí amaramente. «Rispose», cioè Virgilio:
- «Dicerolti molto breve».

E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne; «E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa», cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di 
loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani, il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa», percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte, quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e, guardando, «passa» - e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de' riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da alcuno veduta o conosciuta.

«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando, «correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente», d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi, resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento, colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.

«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè: «Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato. E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio, poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati da Dio fossero, dicevano: - Renunzia, Celestino! renunzia, Celestino! - Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale gli disse: - Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali renunziare il papato. - Il quale come a doverla fare il vide disposto, essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato: e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa, venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato. Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo, percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo suo.

Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere errato e detto contro a quello articolo che si canta nel Simbolo, cioè: «Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam»; in quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo, il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che, quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato; percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro, l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe oggi chi credesse quello esser vero.

Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il quale, essendo primogenito di Isac, come nel Genesi si legge, percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele: Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel Genesi si legge, Esaú fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.

«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi», dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a' nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «quia non sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est»; cosí dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si esercitano in male adoperare.

«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de' gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá, scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona «sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo; «e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi», cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «volo vis», che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime de' miseri cattivi.

«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi; «Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi: - Maestro», a Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume», - cioè per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Le cose», delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera d'Acheronte». -

Secondo che scrive Pronapide nel suo Protocosmo, Acheronte è un fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e, vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo: come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno, e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a Titano. temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione: quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e degli altri.

«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.

«Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del presente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire verso loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'Eneida scrive:

Portitor has horrendus aquas et flumina servat

terribili squalore Charon, ecc.

per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave Un vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché la gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere, percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun colore esser colorato;] «Gridando: - Guai a voi, anime prave!», cioè malvage. «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. E tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore, «Pártiti da cotesti, che son morti»; - quasi voglia dire: percioché con loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mi partiva», per suo comandamento, «Disse: - per altra via», che per questa, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioè nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di navilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti», - cioè ti valichi.

«E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui: - Carón». Questo Carón, secondo che Crisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola sará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte, come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo: «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e dov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella divina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú non dimandare»; - quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a te si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle parole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosa piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra chiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la quale spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui, che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume. «Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella torbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.

«Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di cammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti», come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio di quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva» ecc.).

«Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il bestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcuna cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano a bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono, si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima; «il luogo», (supple) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati furono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme», percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi; «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», a sedere o in altra guisa.

«Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo «autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo», sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i vestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro dell'Eneida, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme d'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santi uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí come sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una ad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti, «com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.

«Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E avanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera», cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo dimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito della terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «quia multi sunt vocati, pauci vero electi».

«Figliuol mio, - disse» In questa sesta parte della suddivisione gli apre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, e perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E dice: - «Figliuol mio»; - mostra in questa parola Virgilio paterna affezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro», percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domanda fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io sappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono e debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, percioché continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu liberale. - «Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion nell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senza confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati commessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti della cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono, «qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e di ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio», cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la quale hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto a quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima buona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che non vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole, e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir suona», - avendo intesa la cagione del suo rammarichio.

[Lez. X]

«Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione del presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremore della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza dell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna». «Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credere che sieno, ma usa il vocabolo largamente, auctoritate poëtica; e dé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí forte».

Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché l'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che a coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci, se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio si truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí come il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa l'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.

«Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor mi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati, rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono pallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute dalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvolta un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti predette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per paura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri in guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura anche se ne son morti.

«La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti pianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nella concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente accostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si può dire l'inferno essere lacrimoso.

«Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad Aristotile piace nel secondo della Meteora, d'esalazioni calde e secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcun freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so. Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare che vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aere mosso paia vento.

«Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la natura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quello movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche vampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «La qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo, avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere stato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come l'uom cui sonno piglia».

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