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viernes, 28 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XXVIII

CANTO XXVIII

[Canto XXVIII, nel quale Beatrice distingue a l'auttore li nove ordini de li angeli gloriosi che sono nel nono cielo e il loro offizio.]

Poscia che 'ncontro a la vita presente

d'i miseri mortali aperse 'l vero

quella che 'mparadisa la mia mente,

come in lo specchio fiamma di doppiero

vede colui che se n'alluma retro,

prima che l'abbia in vista o in pensiero,

e sé rivolge per veder se 'l vetro

li dice il vero, e vede ch'el s'accorda

con esso come nota con suo metro;

così la mia memoria si ricorda

ch'io feci riguardando ne' belli occhi

onde a pigliarmi fece Amor la corda.

E com' io mi rivolsi e furon tocchi

li miei da ciò che pare in quel volume,

quandunque nel suo giro ben s'adocchi,

un punto vidi che raggiava lume

acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca

chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,

parrebbe luna, locata con esso

come stella con stella si collòca.

Forse cotanto quanto pare appresso

alo cigner la luce che 'l dipigne

quando 'l vapor che 'l porta più è spesso,

distante intorno al punto un cerchio d'igne

si girava sì ratto, ch'avria vinto

quel moto che più tosto il mondo cigne;

e questo era d'un altro circumcinto,

e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,

dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo sì sparto

già di larghezza, che 'l messo di Iuno

intero a contenerlo sarebbe arto.

Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno

più tardo si movea, secondo ch'era

in numero distante più da l'uno;

e quello avea la fiamma più sincera

cui men distava la favilla pura,

credo, però che più di lei s'invera.

La donna mia, che mi vedëa in cura

forte sospeso, disse: «Da quel punto

depende il cielo e tutta la natura.

Mira quel cerchio che più li è congiunto;

e sappi che 'l suo muovere è sì tosto

per l'affocato amore ond' elli è punto».

E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto

con l'ordine ch'io veggio in quelle rote,

sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto;

ma nel mondo sensibile si puote

veder le volte tanto più divine,

quant' elle son dal centro più remote.

Onde, se 'l mio disir dee aver fine

in questo miro e angelico templo

che solo amore e luce ha per confine,

udir convienmi ancor come l'essemplo

e l'essemplare non vanno d'un modo,

ché io per me indarno a ciò contemplo».

«Se li tuoi diti non sono a tal nodo

sufficïenti, non è maraviglia:

tanto, per non tentare, è fatto sodo!».

Così la donna mia; poi disse: «Piglia

quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;

e intorno da esso t'assottiglia.

Li cerchi corporai sono ampi e arti

secondo il più e 'l men de la virtute

che si distende per tutte lor parti.

Maggior bontà vuol far maggior salute;

maggior salute maggior corpo cape,

s'elli ha le parti igualmente compiute.

Dunque costui che tutto quanto rape

l'altro universo seco, corrisponde

al cerchio che più ama e che più sape:

per che, se tu a la virtù circonde

la tua misura, non a la parvenza

de le sustanze che t'appaion tonde,

tu vederai mirabil consequenza

di maggio a più e di minore a meno,

in ciascun cielo, a süa intelligenza».

Come rimane splendido e sereno

l'emisperio de l'aere, quando soffia

Borea da quella guancia ond' è più leno,

per che si purga e risolve la roffia

che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride

con le bellezze d'ogne sua paroffia;

così fec'ïo, poi che mi provide

la donna mia del suo risponder chiaro,

e come stella in cielo il ver si vide.

E poi che le parole sue restaro,

non altrimenti ferro disfavilla

che bolle, come i cerchi sfavillaro.

L'incendio suo seguiva ogne scintilla;

ed eran tante, che 'l numero loro

più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.

Io sentiva osannar di coro in coro

al punto fisso che li tiene a li ubi,

e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro.

E quella che vedëa i pensier dubi

ne la mia mente, disse: «I cerchi primi

t'hanno mostrato Serafi e Cherubi.

Così veloci seguono i suoi vimi,

per somigliarsi al punto quanto ponno;

e posson quanto a veder son soblimi.

Quelli altri amori che 'ntorno li vonno,

si chiaman Troni del divino aspetto,

per che 'l primo ternaro terminonno;

e dei saper che tutti hanno diletto

quanto la sua veduta si profonda

nel vero in che si queta ogne intelletto.

Quinci si può veder come si fonda

l'esser beato ne l'atto che vede,

non in quel ch'ama, che poscia seconda;

e del vedere è misura mercede,

che grazia partorisce e buona voglia:

così di grado in grado si procede.

L'altro ternaro, che così germoglia

in questa primavera sempiterna

che notturno Arïete non dispoglia,

perpetüalemente 'Osanna' sberna

con tre melode, che suonano in tree

ordini di letizia onde s'interna.

In essa gerarcia son l'altre dee:

prima Dominazioni, e poi Virtudi;

l'ordine terzo di Podestadi èe.

Poscia ne' due penultimi tripudi

Principati e Arcangeli si girano;

l'ultimo è tutto d'Angelici ludi.

Questi ordini di sù tutti s'ammirano,

e di giù vincon sì, che verso Dio

tutti tirati sono e tutti tirano.

E Dïonisio con tanto disio

a contemplar questi ordini si mise,

che li nomò e distinse com' io.

Ma Gregorio da lui poi si divise;

onde, sì tosto come li occhi aperse

in questo ciel, di sé medesmo rise.

E se tanto secreto ver proferse

mortale in terra, non voglio ch'ammiri:

ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse

con altro assai del ver di questi giri».

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