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sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO DECIMOQUINTO

CANTO DECIMOQUINTO

[Lez. LVI]

«Ora cen porta l'un de' duri margini», ecc. Continuasi l'autore al precedente canto, in quanto nella fine d'esso mostra che gli argini di quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l'uno delli detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti: nella prima discrive l'autore la qualitá del luogo, e massimamente degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con alcuna dimostrazion d'esempli, ad intendere; nella seconda dimostra come da una schiera d'anime dannate in quel luogo guatato fosse, e riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá eravam dalla selva».

Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l'un de' duri margini». E in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono, ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi, se medesimi portando, andavano su per l'uno de' detti margini. E dice «l'uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due. E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello, erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo 'ncendio delle fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E 'l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l'acqua e gli argini», infra li quali s'inchiude. E sono questi argini grotte fatte per forza alle rive de' fiumi, accioché, crescendo essi, l'acqua non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente dicendo:

«Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l'isola d'Inghilterra; «Temendo 'l fiotto», del mare, «che ver'lor s'avventa», sospinto dall'impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti, «perché 'l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne' detti margini, senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí naturale, si muove due volte di levante inver'ponente, e altrettante si torna di ponente inver'levante; e quando di ver'levante viene inver'ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»: e questo è quello del quale l'autore intende qui, e contro al quale dice che i fiamminghi fanno riparo.

Appresso dimostra l'autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che, dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova infino al Friuli, e quella da' suoi eneti, aggiunta una lettera al nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale è una regione posta nell'Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali non si risolvono infino a tanto che l'aere non riscalda, del mese di maggio o all'uscita d'aprile; e allora, risolvendosi, cascano l'acque di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale v'ha grandissima quantitá. E perciò dice l'autore che i padovani, cioè quegli del distretto di Padova, fanno simiglianti schermi che i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli», cioè i campi e' lavorii delle villate e delle castella, le quali per lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la quale s'appropinqua. E, questi due esempli posti. dice che «A tale immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e' padovani, «Qual che si fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.

«Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch'io non avrei visto», cioè veduto, «dov'era, Per ch'io 'ndietro rivolto mi fossi», a riguardare; e ciò fu «Quando incontrammo d'anime», dannate, «una schiera», cioè molte, «Che venien lungo l'argine», sopra'l quale andavamo, «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza delle cose bisognerebbe; «E sí», cioè e cosí, «ver'noi aguzzavan le ciglia. Come vecchio sartor fa nella «runa», dell'ago, quando il vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia, percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava, «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: - «Qual maraviglia?» - (supple), è questa che io ti veggio qui.

«Ed io, quando 'l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato dall'incendio, il quale continuamente cadea; «Sí» gli occhi ficcai, «che'l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese», cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto; E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi: - Siete voi qui, ser Brunetto?»- quasi parlando admirative.

«E quegli» (supple) pregò dicendo: - «O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave, «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d'aver me alquanto teco.

Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá fu notaría, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare d'avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato Il tesoretto, se n'andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò Il tesoro; e ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l'autore il conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive, dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.

Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura alquanto innanzi l'autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia andar la traccia», - di queste anime, le quali tutte ti riguardano, le qual forse l'autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.

«Io dissi lui: - Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto insieme; «E se volete che con voi m'asseggia», cioè ristea, «Faròl, se piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e maestro.

«O figliuol - disse» ser Brunetto - «qual di questa greggia», cioè di questa brigata, «S'arresta punto, giace poi cent'anni Senza arrostarsi, quando» (
supple) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca. «Però va' oltre: io ti verrò a' panni», cioè appresso, «E poi», che io avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi eterni danni», - cioè il suo perpetuo tormento.

«Io non osava scender della strada», cioè dell'argine, «Per andar par di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di lui fosse disceso; «ma 'l capo chino Tenea», verso di lui, «com'», il tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.

«El cominciò: - Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino» sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l'ultimo dí», cioè anzi la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che mostra 'l cammino?» -

Alla qual domanda l'autor risponde: - «Lassú di sopra in la vita serena», - cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo luogo, «Rispuos'io lui, - mi smarri' in una valle».

Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice «mi smarri'», non dice mi «perde'», per darne a sentire che le cose perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro, li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l'hanno smarrita per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêntere e ravvedere, la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l'autore, che non era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi smarrí' in una valle».

E dice che vi si smarrí: «Avanti che l'etá mia fosse piena».

Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo quinto continuamente, o alla statura dell'uomo, o alle forze corporali s'aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l'etá dell'uomo «piena». Dice adunque l'autore che esso, avanti che egli a questa etá pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena pervenuto, si ravvedesse d'avere smarrita la via diritta e ritornasse in quella.

«Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d'essa: e qui dimostra esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.

«Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m'apparve, ritornando», io, «in quella», valle, sí come uomo spaventato dalle tre bestie che davanti mi s'erano parate, «E riducemi a ca'», cioè a casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l'anime nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo sí come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione, è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena, mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per questo calle», - cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla chiarezza della veritá.

«Ed egli a me: - Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole l'autore l'opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella nativitá d'alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per cui fanno la elevazione. E tra l'altre cose che essi piú puntalmente riguardano, è l'ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá predetta sale sopra l'orizzonte orientale della regione; e, avuto questo grado, considerano qual de' sette pianeti è piú potente in esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel dicono essere signore dell'ascendente e significatore della nativitá. E secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia, la quale allora v'ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è stata fatta. E però vuol qui l'autore mostrare che la sua stella, cioè il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu déi adoperare, senza stôrti da ciò per caso che t'avvegna, tu «Non puoi fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá, ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto dovergli avvenire: «Se ben m'accorsi nella vita bella», cioè nella presente.

E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare che esso fosse astrolago, e per quell'arte comprendesse ne' corpi superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser Brunetto, sí come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli costumi e gli studi dell'autore esser tali, che di lui si dovesse quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle, quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.

«E s'io non fossi sí per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno», intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale per la scienza si perviene. «Dato t'avrei all'opera conforto», sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per te non potevi cognoscere.

E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la cagione, mostrando quella essere tale, che la 'ngiuria della fortuna, la quale gli s'apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E dice: «Ma quello 'ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da esso fatte verso coloro li quali l'avevano servito e onorato, e quasi trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque cittá, accioché di tutti i fiorentini non s'intenda esser questa infamia d'ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».

Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de' discendenti di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d'Europa: la qual cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse l'edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma, fu per li romani disfatta, e parte de' suoi cittadini ne vennero ad abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che, in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell'antica lor cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano Firenze essere stata contro al piacere de' fiesolani reedificata, e abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono de' discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta, l'abitavano.

Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra' fiesolani e' fiorentini, le quali all'una parte e all'altra rincrescendo, vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e sicuramente usavano l'uno nella cittá dell'altro. Sotto la qual sicurtá i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiatisi i fiesolani con loro di dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono, insieme s'unirono. Nondimeno mostra qui l'autore, quella acerbezza antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in discendente de' fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti si fará, per tuo ben far, nemico», sí come quello al quale è in odio la vertú e l'operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico, seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol sotto questa metafora l'autore intendere non esser convenevole che tra uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.

[Lez. LVII]

Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi. Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani al conquisto dell'isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor cittá quasi vòta d'abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi erano a que' tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di partire col detto comune la preda che dell'acquisto recassono. E, avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno, ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che posero dall'una parte le porti e dall'altra le due colonne coperte di scarlatto, e diedero le prese a' fiorentini, li quali, senza troppo avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate, e, accioché i fiorentini di ciò non s'accorgessono, le vestirono di scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de' fiorentini, esser loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all'animo questa essere stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono, appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si verificassero ne' nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!

Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere avarissimi appare ne' lor processi. E, se ad altro non apparisse, appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men possenti non si stendesse. Appresso, ne' publici offici si fa prima la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie, le baratterie, le simonie e l'altre disonestá moventi da quella; e, perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell'usure, delle falsitá, de' tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si comprende ne' nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta la mala ventura o essere per averla. Parsi ne' nostri ragionamenti, ne' quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l'opere laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne e' danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo, troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle 'mprese, e tanto di noi medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone; teneri piú che 'l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d'avvilirlo. De' quali vizi, esso permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che non siam noi, ci troviamo sgannati.

Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da' lor costumi fa' che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza, in amicizie di grandi uomini. «Che l'una parte e l'altra», cioè i fiesolani e' fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che cacciato t'avranno: «ma lungi fia dal becco l'erba», cioè l'effetto dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme», cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S'alcuna surge ancor nel lor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la qual somiglia al letame, percioché di sopra l'ha chiamate bestie; «In cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di que' roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio (ma in ciò non sono io con l'autore d'una medesima opinione, percioché infino a' tempi de' primi imperadori era Roma ripiena della feccia di tutto il mondo, ed era dagl'imperadori preposta a' nobili uomini antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo non indecentemente, avendo riguardo a' vizi de' quali ne mostra esser maculati.

«Se fosse tutto pieno il mio dimando - Rispos'io lui, - voi non sareste ancora. Dell'umana natura», la quale per eterna legge ciò che nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo dimanderebbe, perciò «Che in la mente m'è fitta», cioè con fermezza posta, «ed or m'accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora ad ora. Mi mostravate come l'uom s'eterna», per lo bene e valorosamente adoperare. E cosí mostra l'autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni, insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto io l'abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr'io vivo, Convien che nella mia lingua si scerna», percioché sempre 
loderò, sempre vi commenderò.

«Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna, «scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo», cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s'a lei arrivo», chiosare e dichiarare e l'altre cose e quelle che dette m'avete. «Tanto vogl'io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch'alla fortuna», cioè a' casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere. «Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata m'è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e 'l villan la sua marra». - Queste parole dice per quello che ser Brunetto gli ha detto de' fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali qui discrive in persona di villani, cioè d'uomini non cittadini, ma di villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani, come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano adopera la marra.

«Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra, si volse indietro, e riguardommi. Poi disse: - Bene ascolta», cioè non invano ascolta, «chi la nota», - con effetto, la parola la quale tu al presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.), volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di fare.

«Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co' quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per fama.

«Ed egli a me: - Saper d'alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa risposta alla domanda che l'autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi voglia ser Brunetto dire (sí come assai bene appare appresso): se io ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti furono uomini di nome e famosi. E, detto d'alcuno, «Degli altri fia laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v'ha si fatti uomini, che lo 'nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è, e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro, per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione n'assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché 'l tempo», che conceduto m'è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice: «In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati grandi e di gran fama, D'un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al mondo lerci», cioè brutti.

Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser maculati di questo male. Il che puote avvenire l'aver piú destro, e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l'usanza de' giovani non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine è abominevole molto]; e, per questo comodo,

questi cosí fatti uomini, cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro appetito non farebbono.

«Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due notabili libri: nell'uno trattò diffusamente e bene Delle parti dell'orazione, nell'altro sub brevitá trattò Delle costruzioni. Non lessi mai né udi' che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s'intendano coloro li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e per l'etá temorosi e ubbidienti, cosí a' disonesti come agli onesti comandamenti de' lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse volte incappino in questa colpa.

«E Francesco d'Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto, «S'avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.

Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini, e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer Accorso chiosò tutto 'l Corpo di ragion civile, e furon le sue chiose tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s'usano per chiose ordinarie nel Codice e negli altri libri legali. E questo messer Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove si crede che ultimamente morisse.

Appresso dice che ancora v'avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che dal servo de' servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue lettere chiama «servo de' servi di Dio». E questo titolo primieramente per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s'appartiene di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea, predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue Omelie appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá. Ma questo di cui qui l'autor dice, dice che «Fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione».

Dicesi costui essere stato un messer Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano nel vulgo; per opera di messer Tommaso de' Mozzi, suo fratello, il quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar dinanzi dagli occhi suoi e de' suoi cittadini tanta abominazione, fu permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza. Il che l'autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò», morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omóri corrotti, tutti i nervi della persona gli s'erano rattrappati, come in assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne' piedi; e cosí per questa parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono innanzi quando all'atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere dall'autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi malvagiamente gli protese.]

«Di piú direi, ma 'l venir», al pari di te, «e 'l sermone Piú lungo esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch'io veggio, Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione. Gente vien, con la quale esser non deggio».

[Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati, e non osa l'una schiera esser con l'altra; e senza dubbio differenza ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie d'animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando due d'un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l'uomo e la femmina, eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto o l'uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti, e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]

E, dovendosi partire dall'autore, ultimamente gli dice: «Sieti raccomandato il mio Tesoro», cioè il mio libro, il quale io composi in lingua francesca, chiamato Tesoro: e questo vuole gli sia raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori, né sperino mai quassú tornare, né d'inferno uscire, è pure da loro disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi, dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata, e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro grandissimi difetti, de' quali l'uno sta nello sciocco opinare che non sia guadagno altro che quello che empie la borsa de' denari; e l'altro sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa sia la dolcezza della fama. E perciò m'aggrada di rintuzzare alquanto l'opinione asinina di questi cotali.]

[Empiono la borsa o la cassa l'arti meccaniche, le mercatanzie, le leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l'antiche istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini, e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l'arche d'oro e d'argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del nome suo: e questo basti aver detto dell'antiche. Delle piú ricenti non so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d'alcuno che giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col corpo e col nome loro s'è morta e convertita in fummo, quasi non fosse stata.]

[Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a' nobili ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non dirizza l'appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni sua potenzia, che l'ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome del suo divoto componitore. E, se eterno far nol puote, gli dá almeno per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo, lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi e ancor ne' moderni. E' son passati oltre a duemila secento anni che Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua origine quistione: i re, gl'imperadori, e' sommi prencipi mondani hanno sempre il suo nome quasi quello d'una deitá onorato, e infino a' nostri dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi volumi, la gloria della sua fama.]

[Io lascerò stare i fulgidi nomi d'Euripide, d'Eschilo, di Simonide, di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti, li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono; per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d'un lutifigolo, con pari consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e sono l'opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé, e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma esse hanno con seco insieme infino ne' dí nostri fatta non solamente venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola, nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un santuario non visitino e onorino.]

[E, accioché io a' nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo il nome suo nelle bocche, non dico de' prencipi cristiani, li quali i piú sono oggi idioti, ma de' sommi pontefici, de' gran maestri, e di qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi che l'opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora perirá il nome loro, quando tutte l'altre cose mortali periranno. Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio? Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s'accostano, o diranno che pur l'arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna? Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor non conosciute, e intorno a quelle s'avvolghino, le quali appena dalla bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:

Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam.

[Ora, come io ho detto de' poeti, cosí intendo di qualunque altro componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo Tesoro, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo. Poi segue: «e piú non cheggio»; - quasi dica: questo mi sará assai.

«Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a Verona 'l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché, partendosi ser Brunetto dall'autore, velocissimamente correa, l'assomiglia l'autore a questi cotali che quel drappo verde corrono: e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro», cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.

L'allegoría del presente canto, cioè, come la pena, scritta per l'autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si dirá di tutta questa spezie de' violenti.

miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XV

CANTO XV

[Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti.]

Ora cen porta l'un de' duri margini;

e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,

sì che dal foco salva l'acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,

temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,

fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,

per difender lor ville e lor castelli,

anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,

tutto che né sì alti né sì grossi,

qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossi

tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,

perch' io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d'anime una schiera

che venian lungo l'argine, e ciascuna

ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;

e sì ver' noi aguzzavan le ciglia

come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Così adocchiato da cotal famiglia,

fui conosciuto da un, che mi prese

per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

E io, quando 'l suo braccio a me distese,

ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,

sì che 'l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio 'ntelletto;

e chinando la mano a la sua faccia,

rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia

se Brunetto Latino un poco teco

ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».

I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco;

e se volete che con voi m'asseggia,

faròl, se piace a costui che vo seco».

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia

s'arresta punto, giace poi cent' anni

sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.

Però va oltre: i' ti verrò a' panni;

e poi rigiugnerò la mia masnada,

che va piangendo i suoi etterni danni».

Io non osava scender de la strada

per andar par di lui; ma 'l capo chino

tenea com' uom che reverente vada.

El cominciò: «Qual fortuna o destino

anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?

e chi è questi che mostra 'l cammino?».

«Là sù di sopra, in la vita serena»,

rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,

avanti che l'età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:

questi m'apparve, tornand' ïo in quella,

e reducemi a ca per questo calle».

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,

non puoi fallire a glorïoso porto,

se ben m'accorsi ne la vita bella;

e s'io non fossi sì per tempo morto,

veggendo il cielo a te così benigno,

dato t'avrei a l'opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno

che discese di Fiesole ab antico,

e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;

ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi

si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;

gent' è avara, invidiosa e superba:

dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,

che l'una parte e l'altra avranno fame

di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame

di lor medesme, e non tocchin la pianta,

s'alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa

di que' Roman che vi rimaser quando

fu fatto il nido di malizia tanta».

«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,

rispuos' io lui, «voi non sareste ancora

de l'umana natura posto in bando;

ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,

la cara e buona imagine paterna

di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna:

e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo

convien che ne la mia lingua si scerna.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,

e serbolo a chiosar con altro testo

a donna che saprà, s'a lei arrivo.

Tanto vogl' io che vi sia manifesto,

pur che mia coscïenza non mi garra,

ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:

però giri Fortuna la sua rota

come le piace, e 'l villan la sua marra».

Lo mio maestro allora in su la gota

destra si volse in dietro e riguardommi;

poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

Né per tanto di men parlando vommi

con ser Brunetto, e dimando chi sono

li suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono;

de li altri fia laudabile tacerci,

ché 'l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci

e litterati grandi e di gran fama,

d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,

e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,

s'avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de' servi

fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,

dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone

più lungo esser non può, però ch'i'

veggio là surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.

Sieti raccomandato il mio Tesoro,

nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

Poi si rivolse, e parve di coloro

che corrono a Verona il drappo verde

per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

lunes, 31 de agosto de 2020

La Divina Comedia, castellano, Canto XV

CANTO XV


Caminamos por uno de los bordes,


y tan denso es el humo del arroyo,


que del fuego protege agua y orillas.


Tal los flamencos entre Gante y Brujas,


temiendo el viento que en invierno sopla,


a fin de que huya el mar hacen sus diques;


y como junto al Brenta los paduanos


por defender sus villas y castillos,


antes que Chiarentana el calor sienta;


de igual manera estaban hechos éstos,


sólo que ni tan altos ni tan gruesos,


fuese el que fuese quien los construyera.


Ya estábamos tan lejos de la selva


que no podría ver dónde me hallaba,


aunque hacia atrás yo me diera la vuelta,


cuando encontramos un tropel de almas


que andaban junto al dique, y todas ellas


nos miraban cual suele por la noche


mirarse el uno al otro en luna nueva;


y para vernos fruncían las cejas


como hace el sastre viejo con la aguja.


Examinado así por tal familia,


de uno fui conocido, que agarró


mi túnica y gritó: «¡Qué maravilla!»


y yo, al verme cogido por su mano


fijé la vista en su quemado rostro,


para que, aun abrasado, no impidiera,


su reconocimiento a mi memoria;


e inclinando la mía hacia su cara


respondí: «¿Estáis aquí, señor Brunetto?»


«Hijo, no te disguste me repuso-


si Brunetto Latino deja un rato


a su grupo y contigo se detiene.»


Y yo le dije: «Os lo pido gustoso;


y si queréis que yo, con vos me pare,


lo haré si place a aquel con el que ando.»


«Hijo repuso , aquel de este rebaño


que se para, después cien años yace,


sin defenderse cuando el fuego quema.


Camina pues: yo marcharé a tu lado;


y alcanzaré más tarde a mi mesnada,


que va llorando sus eternos males.»


Yo no osaba bajarme del camino


y andar con él; mas gacha la cabeza


tenía como el hombre reverente.


Él comenzó: «¿Qué fortuna o destino

antes de postrer día aquí te trae?

¿y quién es éste que muestra el camino?»


Y yo: «Allá arriba, en la vida serena


le respondí me perdí por un valle,


antes de que mi edad fuese perfecta.


Lo dejé atrás ayer por la mañana;


éste se apareció cuando a él volvía,


y me lleva al hogar por esta ruta.»


Y él me repuso: «Si sigues tu estrella


glorioso puerto alcanzarás sin falta,


si de la vida hermosa bien me acuerdo;


y si no hubiese muerto tan temprano,


viendo que el cielo te es tan favorable,


dado te habría ayuda en la tarea.


Mas aquel pueblo ingrato y malicioso


que desciende de Fiesole de antiguo,


y aún tiene en él del monte y del peñasco,


si obras bien ha de hacerse tu contrario:


y es con razón, que entre ásperos serbales


no debe madurar el dulce higo.


Vieja fama en el mundo llama ciegos,


gente es avara, envidiosa y soberbia:


líbrate siempre tú de sus costumbres.


Tanto honor tu fortuna te reserva,


que la una parte y la otra tendrán hambre


de ti; mas lejos pon del chivo el pasto.


Las bestias fiesolanas se apacienten


de ellas mismas, y no toquen la planta,


si alguna surge aún entre su estiércol,


en que reviva la simiente santa


de los romanos que quedaron, cuando


hecho fue el nido de tan gran malicia.»


«Si pudiera cumplirse mi deseo


aún no estaríais vos le repliqué-


de la humana natura separado;


que en mi mente está fija y aún me apena,


querida y buena, la paterna imagen


vuestra, cuando en el mundo hora tras hora


me enseñabais que el hombre se hace eterno;

y cuánto os lo agradezco, mientras viva,

conviene que en mi lengua se proclame.


Lo que narráis de mi carrera escribo,


para hacerlo glosar, junto a otro texto,


si hasta ella llego, a la mujer que sabe.


Sólo quiero que os sea manifiesto


que, con estar tranquila mi conciencia,


me doy, sea cual sea, a la Fortuna.


No es nuevo a mis oídos tal augurio:


mas la Fortuna hace girar su rueda


como gusta, y el labrador su azada.»


Entonces mi maestro la mejilla


derecha volvió atrás, y me miró;


dijo después: «Bien oye el precavido.»


Pero yo no dejé de hablar por eso


con ser Brunetto, y pregunto quién son


sus compañeros de más alta fama.


Y él me dijo: «Saber de alguno es bueno;


de los demás será mejor que calle,


que a tantos como son el tiempo es corto.


Sabe, en suma, que todos fueron clérigos


y literatos grandes y famosos,


al mundo sucios de un igual pecado.


Prisciano va con esa turba mísera,


y Francesco D'Accorso; y ver con éste,


si de tal tiña tuvieses deseo,


podrás a quien el Siervo de los Siervos


hizo mudar del Arno al Bachiglión,


donde dejó los nervios mal usados.


De otros diría, mas charla y camino


no pueden alargarse, pues ya veo


surgir del arenal un nuevo humo.


Gente viene con la que estar no debo:


mi “Tesoro” te dejo encomendado,


en el que vivo aún, y más no digo.»


Luego se fue, y parecía de aquellos


que el verde lienzo corren en Verona


por el campo; y entre éstos parecía


de los que ganan, no de los que pierden.


sábado, 24 de octubre de 2020

ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA "DIVINA COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI.

ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA "DIVINA COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI.

ALL'INFERNO

«Nel mezzo del cammin di nostra vita»,

smarrito in una valle l'autore,

e la sua via da tre bestie impedita,

Virgilio, dei latin poeti onore,

da Beatrice gli apparve mandato

liberator del periglioso errore.

Dal qual poi che aperto fu mostrato

a lui di sua venuta la cagione,

e 'l tramortito spirto suscitato,

senza piú far del suo andar quistione,

dietro gli va, ed entra in una porta

ampia e spedita a tututte persone.

Adunque, entrati nell'aura morta,

l'anime triste vider di coloro

che senza fama usâr la vita corta;

io dico de' cattivi: eran costoro

da moscon punti, e senza alcuna posa

correndo givan, con pianto sonoro.

Quindi, venuti sopra la limosa

riva d'un fiume, vide anime assai,

ciascuna di passar volenterosa.

A cui Caròn: - Per qui non passerai! -

di lontan grida; appresso, un gran baleno

gli toglie il viso e l'ascoltar de' guai.

Dal qual tornato in sé, di stupor pieno,

di lá da l'acqua in piú cocente affanno,

non per la via che l'anime teniéno,

si ritrovò; e quindi avanti vanno,

e pargoletti veggon senza luce

pianger, per l'altrui colpa, eterno danno.

Dietro alle piante poi del savio duce

passa con altri quattro in un castello,

dove alcun raggio di chiarezza luce.

Quivi vede seder sovr'un pratello

spiriti d'alta fama, senza pene,

fuor che d'alti sospiri, al parer d'ello.

Da questo loco discendendo, viene

dove Minós esamina gli entranti,

fier quanto a tanto officio si conviene.

Quivi le strida sente e gli alti pianti

di quei che furon peccator carnali,

infestati da venti aspri e sonanti,

dove Francesca e Polo li lor mali

contano. E quindi Cerbero latrante

vede sopra a' gulosi, infra li quali

Ciacco conosce; e, procedendo avante,

truova Plutone, e' prodighi e gli avari

vede giostrar con misero sembiante.

Che sia Fortuna e la cagion de' vari

suoi movimenti Virgilio gli schiude:

e, discendendo poi con passi rari,

truovan di Stige la nera palude,

la qual risurger vede di bollori,

da' sospir mossi d'alme in essa nude,

dove gli accidiosi peccatori,

e gl'iracundi, gorgogliando in quella,

fanno sentir li lor grevi dolori.

Sopra una fiamma poi doppia fiammella

subito vede, ed una di lontano

surgere ancora e rispondere ad ella.

Quivi Flegias, adirato, il pantano

oltre gli passa, nel qual vede strazio

far di Filippo Argenti, e non invano.

E appena era di tal mirare sazio,

ch'a piè della cittá di Dite giunti,

senza esser lor d'entrarvi dato spazio,

si vide, e quindi da disdegno punti

per la porta serrata lor nel petto

da li spiriti piú da Dio disiunti.

E mentre quivi stavan con sospetto,

le tre Furie infernai sovra le mura

Tesifon, vider, Megera ed Aletto.

Appresso, acciò che l'orribil figura

del Gorgon non vedesse, il buon maestro

gli occhi gli chiuse, e fennegli paura.

Di scender poi per lo cammin silvestro,

per cui la porta subito s'aprío,

mostra, e 'l passare a loro in quella, destro.

Quivi dolenti strida ed alte udio,

che de' sepolcri uscivano affocati,

de' quai pieno era tutto il loco rio:

in quegli essere intese i trascutati

eresiarci, e tutti quelli ancora

ch'a Epicuro dietro sono andati.

Lí, ragionando, picciola dimora

con Farinata e con un altro face,

ch'alquanto a l'arca pareva di fora.

Disegna poi come lo 'nferno giace,

da indi in giú, distinto in tre cerchietti,

e poi dimostra con ragion vivace

perché dentro alle mura i maladetti

spiriti sien di Dite, e nel suo cerchio,

piú che color che ha di sopra detti.

Centauri truova poi sovr'al coperchio

d'un'altra valle sovra Flegetonte,

nel qual chi fe' al prossimo soverchio

bollir vede per tutto; e perché cónte

le vie salvagge, a passar la riviera

Nesso gli fa della sua groppa ponte.

Oltre passati, in una selva fiera

di spirti, in bronchi noderosi e torti

mutati, entraron per via straniera.

Tutti se stessi i miseri avien morti,

che li piangean, divenuti bronconi;

dove gli fe' Pier delle Vigne accorti

delle dolenti lor condizioni

e delle sue; e nella selva stessa,

dopo gli uditi miseri sermoni,

da nere cagne un'anima rimessa

vide sbranare, e seppe a tal martiro

dannato chi la sustanzia, commessa

all'util suo, biscazza. E quindi gîro

piú giú, dove piovean fiamme di foco,

fuor della selva, sovra un sabbion diro;

lá dove Campaneo, curante poco,

vider giacer sotto la pioggia grave

con piú molti arroganti; e 'n questo loco,

seguendo, mostra con rima soave

d'una statua, ch'è di piú metalli,

l'acqua cadere in quelle valli prave,

e quattro fiumi per piú intervalli

nel mondo occulto fare, infino al punto

piú basso assai che tutte l'altre valli.

Poi ser Brunetto abbrusciato e consunto

sotto l'orribil pioggia correr vede,

col quale alquanto, parlando, congiunto,

di sua futura vita prende fede.

Poi, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi,

Iacopo Rusticucci, infino al piede

di lui venuti, a' lor nuovi dimandi

sodisfa presto; e quinci procedette

dove anime trovò con tasche grandi

sedere a collo, sotto le fiammette,

di loro alcuni a l'arme conoscendo

stati usurieri, e per tre render sette.

Poi, sovra Gerion giú discendendo,

in Malebolge vene, ove i baratti

in diece vede, senza pro piangendo.

De' quali i primi da dimòn son tratti

con grandi scoreggiate per lo fondo,

scherniti e lassi, vilmente disfatti;

lá dove alcun ch'avea veduto al mondo

riconobbe, ch'era bolognese, Venedico, e ruffiano; a cui secondo

Iason venia, che tolse il ricco arnese

a' colchi. E quindi Alesso Interminelli

in uno sterco vide assai palese

pianger le sue lusinghe; e quindi quelli

che sottosopra in terra son commessi

per simonia; e lí par che favelli

con un papa Nicola; ed, oltre ad essi,

travolti vede quei che con fatture

gabbarono non ch'altrui, ma se istessi.

Quindi discendon lá ove l'oscure

pegole bollon chi baratteria

vivendo fece, e di quelle misture,

mentre che van con fiera compagnia

di diece diavol, parla un che fu tratto

da Graffiacan per la cottola via,

sé navarrese dicendo e baratto;

quinci com'el fuggi delle lor mani

racconta chiaro, e de' diavoli il fatto.

Sotto le cappe rance i pianti vani

degl'ipocriti poi racconta, e mostra

Anna e 'l suo suocer nelli luoghi strani

crocifissi giacer. Poi, nella chiostra

di Malebolge seguente, brogliare

fra' serpi vede della gente nostra,

quivi dannati per lo lor furare:

Agnolo e 'l Cianfa ed altri e Vanni Fucci;

li quai mirabilmente trasformare,

dopo nuovi atti, parlamenti e crucci,

e d'uomo in serpe, e poi di serpe in uomo,

in guisa tal, che mai vista non fucci,

discrive. E poi chi mal consiglio, comoda,
come Ulisse, in fiamme acceso andando,

vede riprender dattero per pomo.

Pria con Ulisse, e poscia ragionando

col conte Guido, passa; e, pervenuto

su l'altra bolgia, vede gente andando

tutta tagliata sovente e minuto,

per lo peccato della scisma reo

da lor nel mondo falso in suso avuto.

Lí Maometto fesso discernéo,

e quel Beltram che giá tenne Altaforte,

e Curio e 'l Mosca, e molti qual potéo.

Appresso vide piú misera sorte

degli alchimisti fracidi e rognosi,

u' seppe da Capocchio l'agra morte,

e Mirra e Gianni Schicchi e piú lebbrosi

vide, ed i falsator per fiera sete

ritruopichi fumare stando oziosi:

tra' quali in quella inestricabil rete

vide Sinón, ed il maestro Adamo

garrir con lui, come lègger potete.

Quindi, lasciando l'uno e l'altro gramo,

dal mezzo in su gli figli della terra

uscir d'un pozzo vede, ed al richiamo

del gran poeta intramendue gli afferra

Anteo, e lor sovr'al freddo Cocito

posa, nel quale in quattro parti serra

il ghiaccio i traditor: quivi ghermito

Sassol de' Mascheron nella Caina,

e 'l Camiscion de' Pazzi, ebbe sentito.

Poscia nell'Antenora, ivi vicina,

tra gli altri dolorosi vide il Bocca,

e di Gian Soldanier l'alma meschina,

ed altri molti, ch'ora a dir non tocca,

sí come l'arcivescovo Ruggieri,

ed il conte Ugolino, anima sciocca.

Piú oltre andando pe' freddi sentieri,

spiriti truova nella Ptolomea

giacer riversi ne' ghiacci severi.

Quivi, racconta, l'alma si vedea

di Brancadoria e di frate Alberico,

che senza pro de' frutti si dolea.

Appresso vede l'Avversario antico

nel centro fitto, e Iuda Scariotto,

e Cassio e Bruto, di Cesar nemico,

nell'infima Iudecca star di sotto.

Quindi, pe' velli del fiero animale

discendendo, e salendo, il duca dotto

lui di fuor tira da cotanto male

per un pertugio, onde le cose belle

prima rivide, e per cotali scale

usciron quindi «a riveder le stelle».


AL PURGATORIO


«Per correr miglior acqua alza le vele»

qui lo autore, e, seguendo Virgilio,

pe' dolci pomi sale e lascia il fiele.

Catón primier, fuor dell'eterno esilio,

truovano e seco parlan, procedendo;

poi dánno effetto al suo santo consilio.

Su la marina vede, discendendo

nell'aurora, piú anime sante,

e 'l suo Casella, al cui canto attendendo,

mentre l'anime nuove tutte quante

givan con lor, rimorsi da Catone,

fuggendo al monte ne girono avante.

Incerti quivi della regione,

truovan Manfredi ed altri, che moriro

per colpa fuor di nostra comunione

col perder tempo, adequare il martiro

alla lor colpa; e quindi, ragionando,

del solar corso gli solve il desiro

l'alto poeta sedendosi, quando

Belacqua vider per negghienza starsi;

e giá levati verso l'alto andando,

Bonconte ed altri molti incontro farsi

vider, li quali infino all'ultim'ora,

uccisi, a Dio penâro a ritornarsi.

Quindi Sordel trovar sol far dimora,

il qual, poi che l'autor molto ha parlato

contro ad Italia, il gran Virgilio onora.

Poi mena loro in un vallone ornato

d'erbe e di fior, nel qual, cantando, addita,

a Virgilio Sordello stando allato,

spiriti d'alta fama in questa vita,

tra' quai discesi, il Gallo di Gallura

riceve l'autor; quindi, finita

del di la luce, vede dell'altura

due angeli con due spade affocate

discender ad aver di costor cura.

Poscia, dormendo, con penne dorate

gli par che 'n alto un'aquila nel porti

d'infino al foco; quindi, alte levate

le luci, spaventato, da' conforti

fatto sicur di Virgilio, Lucia

gli mostra quivi loro avere scorti.

Del purgatorio gli addita la via,

dove venuti, qual fosse disegna

la porta, e' gradi onde a quel si salía,

chi fosse il portinaio, che veste tegna,

e quai fosser le chiavi, e che scrivesse

nella sua fronte, e che far si convegna

a chi passa lá dentro pone expresse.

E quindi come en la prima cornice

dichiara con fatica si giugnesse;

ed intagliate in alta parte dice

di quella istorie d'umiltá verace:

poi spirti carchi dall'una pendice

vede venir cantando, ed orar pace

per sé e per altrui, purgando quello

che ne' mortal superbia sozzo face;

tra' quali Umberto ed Odorisi, ad ello

appresso, e simil Provinzan Silvani

piangendo vide sotto il fascio fello.

Oltre passando pe' sentieri strani,

sotto le piante sue effigiati

vide gli altieri spiriti mondani.

Da uno splendido angiolo invitati

piú leggier salgono al giron secondo,

perché li «P» l'autor trovò scemati.

Lí alte voci, mosse dal profondo

ardor di caritá, udir volanti

per l'aere puro del levato mondo;

e poi che giunti furon piú avanti,

videro spirti cigliati sedere,

vestiti di ciliccio tutti quanti,

perché la invidia lor tolse il vedere:

Guido del Duca, Sapia e Rinieri

da Calvol truova lí piangere, e vere

cose racconta di tutti i sentieri

onde Arno cade, e simil di Romagna;

quindi altri suon sentiron piú severi.

Ed oltre su salendo la montagna,

da un altro angelo invitati foro,

parlando dell'orribile magagna

d'invidia, e dell'opposito, fra loro,

e, di sé tratto andando, vide cose

pacefiche in aspetto; né dimoro

fe' guari in quelle, che 'n caliginose

parti del monte entraron, dove l'ira

molti piangean con parole pietose.

Quivi gli mostra Marco quanto mira

nostra potenzia sia, e quanto possa

di sua natura, e quanto dal ciel tira.

Appresso usciti dall'aria grossa,

imaginando vede crudi effetti

venuti in molti da ira commossa.

Quivi gl'invia un angel; per che, stretti

alla grotta amendue, a non salire

dalla notte vegnente fûr costretti.

Posti a sedere incominciaro a dire

insieme dell'amor del bene scemo,

che 'n quel giron s'empieva con martire,

dove, sí come noi veder potemo,

distintamente Virgilio ragiona

come si scemi in uno ed altro estremo,

che sia amor, del quale ogni persona

tanto favella, e come nasca in noi.

L'abate li di San Zen da Verona

con altri assai correndo vede poi

e con lui parla, e seguel nell'oscuro

tempo, con altri retro a' passi suoi,

come sentendo si rifá maturo

d'accidia l'acerbo. Indi ne mostra

come, dormendo in sul macigno duro,

qual fosse vide la nemica nostra,

e come da noi partasi, e, sdormito,

come venisse nella quinta chiostra,

fattogli a ciò da uno angel lo 'nvito.

Quivi giacendo assai spiriti truova,

che d'avarizia piangon l'acquisito

in giú rivolti e, perch'el non sen mova

alcun, legati tutti; e quivi parla

con un papa dal Fiesco; appresso pruova

l'onesta povertá, ed a lodarla

Ugo Ciappetta induce, i cui nepoti

nascer dimostra tutti atti a schifarla,

pien d'avarizia e d'ogni virtú vòti;

e come poscia contro alla nequizia,

passato il dí, cantando, vi si noti.

Quindi, per tutto, novella letizia,

ed il monte tremare infino al basso

dimostra, mosso da vera giustizia.

Qui truova Stazio non a lento passo

salire in su, al qual Virgilio chiede

della cagion del triemito del sasso.

la quale Stazio assegna; indi succede

al priego suo ancora a nominarsi.

Quindi, com'uom ch'appena quel che vede

crede, dichiara Stazio avanti farsi

ad onorar Virgilio, e gli fa chiaro

lui, per contrario peccato agli scarsi,

aver per molti secoli l'amaro

monte provato. E giá nel cerchio sesto,

parlando insieme, uno albero trovâro

donde una voce lor disse il modesto

gusto di molti; e, piú propinqui fatti,

chiaro s'avvider ch'ogni ramo in questo

albero è vòlto in giú, e d'alto tratti

vider cader liquor di foglia in foglia,

e sotto ad esso spirti macri e ratti

vider venir piú che per altra soglia

dell'erto monte, e pure in sú la vista

alli pomi tenean, che sí gl'invoglia.

Cosí andando infra la turba trista,

raffigurollo l'ombra di Forese:

con lui favella; e della gente mista

piú riconobbe, e, tra gli altri, il lucchese

Bonagiunta Orbiccian; poi una voce

all'albero appressarsi lor difese.

Un angel quinci al martiro che cuoce

gl'invita, ed essi, per l'ora che tarda

era, ciascun n'andava sú veloce,

mostrando Stazio a lui, se ben si guarda,

nostra generazione, e come l'ombra

prenda sembianza di corpo bugiarda,

e come sia da passione ingombra:

e, sí andando, pervennero al foco,

prima che 'l santo monte facesse ombra;

lungo 'l qual trapassando per un poco

d'un sentieruolo udîr voci nemiche

al vizio di lussuria, ed in quel loco

piú anime conobbe, che 'mpudiche

furon vivendo, e Guido Guinizelli

gli mostra Arnaldo in sí aspre fatiche.

Ma, poi che s'è dipartito da elli,

a trapassar lo foco i cari duci

confortan lui, ch'appena in mezzo a quelli

il trapassò. Di quindi a l'alte luci

salir gl'invita uno angel che cantava,

pria s'ascondesser li raggi caduci.

Vede nel sonno poi Lia che s'ornava

di fior la testa, cantando parole

nelle quali essa chi fosse mostrava.

Quindi levato nel levar del sole,

Virgilio di sé stesso il fa maestro,

sul monte giunti, e può far ciò che vuole.

Venuti adunque nel loco silvestro

truova una selva, ed in quella si spazia

su per lo lito di Letè sinestro.

Vede una donna, che a lui di grazia

parla e con verissime ragioni:

del fiume il moto e dell'aura il sazia.

Di quinci a vie piú alte ammirazioni

venuto, sette candelabri e molte

genti precedere un carro, i timoni

del qual traeva, con l'alie in sú vòlte,

un grifon d'oro, quanto uccel vedeasi,

l'altro di carne, alle cui rote accolte

da ogni parte una danza moveasi

di certe donne, e nel mezzo Beatrice

del tratto carro splendida sedeasi.

Da cosí alta vista e sí felice

percosso, da Virgilio con Istazio

esser lasciato lagrimando dice.

Appresso questo non per lungo spazio,

con agre riprension la donna il morde,

senza aver luogo a ricoprir mendazio;

per che le sue virtú quasi concorde

li venner meno, e cadde, né sentisse

pria ch'alle sue orecchi, ad altro sorde,

pervenne: - Tiemmi; - onde, anzi ch'egli uscisse, da una donna tratto per lo fiume, l'acqua convenne che egli inghiottisse.

Poi quattro donne, secondo il costume

di loro, il ricevettero, e menârlo

di Beatrice avanti al chiaro lume.

Qual gli paresse il suo viso, pensarlo

ciascun che 'ntende può; poi la virtute

gli mancò qui a poter divisarlo.

I casi avversi appresso, e la salute

della Chiesa di Dio, sotto figmento

delle future come delle sute

cose, disegna; poi il cominciamento

di Tigri e d'Eufrate vede in cima

del monte, e con Matelda va contento,

e con Istazio, ad Eunòe prima;

donde bagnato, e rimenato a quelle

donne beate, finisce la rima,

«puro e disposto a salire alle stelle».


AL PARADISO


«La gloria di Colui che tutto move»

in questa parte mostra l'autore

a suo poder, qual ei la vide e dove.

Ed invocato d'Apollo l'ardore,

di sé incerto, retro a Beatrice

pe' raggi sen salí del suo splendore

nel primo ciel, lá, onde a ciascun dice,

men sofficiente, che retro a sua barca

piú non si metta fra 'l regno felice.

E mentre avanti cantando travarca,

de' segni della luna fa quistione

alla sua guida, e quella se ne scarca.

Poi c'ha udita la sua opinione,

e, premettendo alcuna esperienza,

chiaro nel fa con aperta ragione,

Piccarda vede, e della sua essenza

nel primo cielo «per manco di voto»

con lei favella; e, della sua presenza

partita, Beatrice a lui divoto

qual vïolenza il voto manco faccia

distingue ed apre; e simil gli fa noto

perché gli paia i cieli aprir le braccia

a diversi diversi, e come siéno

però presenti alla divina faccia;

quindi, con viso ancora piú sereno,

se sodisfare a' voti permutando

si possa o no, a lui dichiara appieno;

e nel ciel di Mercurio ragionando

veloci passan. Lí Giustiniano

prima di sé sodisfá al dimando;

appresso, quanto lo 'mperio romano

sotto il segno dell'aquila facesse

gli mostra in parte, e poi a mano a mano,

parlando seco, volle ch'el sapesse

Romeo in quella luce gloriarsi,

che fe' quattro reine di contesse.

Induce poi Beatrice a dichiararsi,

«come giusta vendetta giustamente

fosse vengiata»; e quindi trasportarsi

nel terzo ciel, veggendo piú lucente

la donna sua, s'avvide. Ivi con Carlo

Martel favella, il quale apertamente

gli solve ciò che 'l mosse a dimandarlo,

come di dolce seme nasca amaro;

quindi Cunizza viene a visitarlo,

e del futuro alquanto gli fa chiaro

sovra i lombardi, e con Folco favella,

che gli mostra Raab. Indi montâro

nella spera del sole, onde una bella

danza di molti spiriti beati

vede far festa, e nel girarsi snella;

de' quai gli furon molti nominati

da Tommaso d'Aquin, che di Francesco

molto gli parla poi e dei suoi frati.

Poi scrive un cerchio sovraggiugner fresco

a questo, e 'n quel parlar Bonaventura

da Bagnoreo del calagoresco

Domenico, nel qual fu tanta cura

della fé nostra e dell'orto divino,

quanta mai fosse in altra creatura.

Poi rincomincia Tommaso d'Aquino

com'egli intenda: «Non surse il secondo»

di Salamone, e con chiaro latino

gliele dimostra, ed un lume giocondo

l'accerta lor, piú lieti e piú lucenti,

come i lor corpi riavran del mondo.

Quindi nel quinto ciel di lucolenti

spiriti vede una mirabil croce,

della quale un de' suoi primi parenti

gli fa carezze, e con soave voce

gli si discuopre, e mostra quale stato

Fiorenza avesse, quando nel feroce

e labil mondo fu da pria creato;

quindi le schiatte piú di nome degne

nomina tutte, da lui dimandato.

Poi gli fa chiare le parole pregne

di Farinata, e 'n purgatoro udite,

a lui mostrando del futuro insegne.

Appresso ancor con parole espedite

gli nomina di quei santi fulgori

Iosuè, Iuda, Carlo e piú, scolpite

da lui nel nominar per gli splendori

cresciuti. E quindi nel Giove sen sale,

dove un'aquila fanno i santi ardori

di sé mirabile e bella, la quale

gli solve il dubbio d'un che nato sia

su lito, senza udire o bene o male

di Dio, mostrando quel che di lui fia;

quindi Davit e Traiano e Rifeo

gli mostra, ed altri en la sua luce dia.

Poi 'l chiarisce d'un dubbio che si feo

in lui, de' due che appaion pagani

nel primo aspetto. Quindi uno scaleo,

salito nel Saturno, di sovrani

lumi ripien discerne, onde altro scende

ed altro sale, e con Pier Damiani

ragiona lí; e qual quivi risplende

gli parla e noma piú contemplativi

quel Benedetto onde Casin dipende.

Sal nell'ottavo del poscia di quivi,

e, nel segno de' Gemini venuto,

le sette spere ed i corpi passivi

si vede sotto i piè. Poi conosciuto

Cefas, sua fede e suo creder confessa,

da lui richesto, a lui tutto compiuto.

Con voce appresso lucolenta e spressa

al baron di Galizia la speranza

dice che è, e che spetta per essa;

indi venire a cosí alta danza

Giovanni mostra, il qual del corpo morto

di lui di terra il cava d'ogni erranza.

Poi seguitando, al suo domando accorto,

che cosa sia la caritá, risponde,

e qual da lei gli proceda conforto.

Appresso scrive come alle gioconde

luci s'aggiunse quel padre vetusto

che prima fu da Dio creato, e donde

tutti nascemmo, e per lo cui mal gusto

tutti moiamo: il qual del suo uscire

laonde posto fu, e quanto giusto

in quello stesse, e quanto il gran desire

di quella gloria avesse, e la dimora

quanto fu lunga qui dopo 'l fallire

gli conta, ed altre cose. Indi colora,

quasi infiammato, il vicaro di Dio

contr'a' pastor che ci governano ora.

Poi come nel ciel nono sen salío

discrive, dove l'angelica festa

in nove cerchi vede e 'l suo disio;

di lor natura lí gli manifesta

con sermon lungo assai mirabil cose,

e della turba che ne cadde mesta.

Poi vede le milizie gloriose

del nuovo e dell'antico Testamento,

che bene ovrando a Dio si fêro spose

nel ciel piú alto sovra il fermamento,

dove 'l solio d'Enrico ancor vacante

discerne. E quivi lui, che stava attento

a riguardar le creature sante,

lascia Beatrice, ed in loco di lei

Bernardo con lo sguardo il guida avante,

dove, poi c'ha orazione a lei,

cui seder vede dove la sortiro

gli merti suoi, gli è mostrata colei

che sposa antica fu del primo viro,

Rachel, Sara, Rebecca e 'l gran Giovanni,

che pria il deserto, e poi provò il martíro.

Appresso poi in piú sublimi scanni

Francesco ed Agostino e Benedetto,

e quei che trapassâr ne' teneri anni,

vede, de' quali il dottor sopra detto,

dico Bernardo, ragionando ad ello,

caccia ogni dubbio fuor del suo concetto.

Quindi il santo grazioso e bello

piú ch'altro di Maria gli mostra il viso,

e davanti da lei quel Gabriello

che 'l decreto recò di paradiso

della nostra salute, tanto lieto

che qui per non poter ben nol diviso:

onesto l'uno e l'altro e mansueto.

Adamo e Pietro e poi il vangelista

Giovanni lí seder vede, ripleto

d'alta letizia, e quindi il gran legista

Moisé vede, e poi Lucia ed Anna;

e punto fa alla gioiosa vista.

Appresso, acciò che la divina manna

discenda in lui, e faccial poderoso

a veder ciò per che ciascun s'affanna,

umile quanto può, nel grazioso

cospetto della Madre d'ogni grazia,

insieme col dottor di lei focoso

orando, priega che la vista sazia

del primo Amor gli sia, e per lo lume,

che senza fine profondo si spazia,

ficca degli occhi suoi il forte acume;

poi, disegnando quanto ne raccolse,

termine pone al suo alto volume,

mostrando come in quel tutto si volse

l'alto disio ed alle cose belle,

e come ogni altro appetito gli tolse

«l'Amor che muove il sole e l'altre stelle».


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