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sábado, 24 de octubre de 2020

RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»

RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»

INFERNO

Comincia la prima parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Inferno, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, e di quella prima parte il canto primo. Nel quale l'autore mostra sé smarrito in una valle e impedito da tre bestie, e come Virgilio, apparitogli, se gli offerse per duca a trarlo di quel luogo, mostrandogli per qual via.

Comincia il canto secondo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, fatta la sua invocazione, muove un dubbio a Virgilio della sua andata. Il quale Virgilio, mostrandogli chi 'l mosse, e come tre benedette curan di lui nel cielo, gliel solve, e rassicuralo, ed entrano in cammino.

Comincia il canto terzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra come in quello entrasse e vedesse i cattivi piagnendo correr forte, trafitti da vespe e da mosconi; e appresso come molte anime s'adunavano alla riva d'Acheronte, le quali tutte Caron passava, ma lui passar non volle.

Comincia il canto quarto dello 'Nferno. Nel quale l'autor mostra come si ritrovò nel primo cerchio di quello; e quivi scrive esser quegli che per difetto di battesimo son dannati, e dichiaragli Virgilio come giá n'avea veduti trarre alquanti. Poi, venuti loro incontro quattro poeti, con loro entrano in un castello, dove nobili uomini d'arme, filosofi e valorose donne vede.

Comincia il canto quinto dello 'Nferno. Nel quale l'autore, discendendo nel secondo cerchio, truova Minos, e appresso i peccatori carnali da aspro vento percossi; e quivi con madonna Francesca da Polenta parla, e ode come con Paolo de' Malatesti si congiugnesse per amore.

Comincia il canto sesto dello 'Nferno. Nel quale l'autor discende nel terzo cerchio, nel quale sotto grave pioggia son tormentati i gulosi. Quivi truova Cerbero, e parla con Ciacco, il quale gli predice certe cose future a' fiorentini divisi.

Comincia il canto settimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, scendendo nel giron quarto, truova Plutone, e vede i prodighi e gli avari incontro a sé volger grandissimi sassi; e Virgilio gli dimostra che cosa è la Fortuna; e quindi, scendendo nel giron quinto, vede la padule di Stige, e in quella ode esser tormentati gl'iracundi e gli accidiosi.

Comincia il canto ottavo dello 'Nferno. Nel quale l'autor mostra che, salito sopra la barca di Flegias, s'avventò alla banda di quella Filippo Argenti, e come, sospinto da Virgilio nell'acqua, fu straziato dagli altri spiriti; e appresso come, venuti alla porta di Dite, fu da' demòni serrata nel petto a Virgilio.

Comincia il canto nono dello 'Nferno. Nel quale, poi che Virgilio ha detto che altra volta fece quel cammino, gli mostra le tre Furie, e chiudegli gli occhi, accioché non vegga il Gorgone. E appresso scrive come messo di Dio fece aprir la porta, ed essi entraron dentro, e trovaro l'arche affocate degli eretici.

Comincia il canto decimo dello 'Nferno. Nel quale l'autor parla con Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio.

Comincia il canto decimoprimo dello 'Nferno. Nel quale Virgilio mostra, dal luogo dove è in giú, lo 'nferno esser distinto in tre cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che quegli, che lasciati hanno, non son nella cittá di Dite racchiusi.

Comincia il canto decimosecondo dello 'Nferno. Nel quale mostra l'autore come Virgilio facesse partire il minotauro, fattosi loro incontro, e rendegli la ragione d'una grotta caduta; e come truovano i centauri, e pervengono al fiume di Flegetone, nel quale vede bollire rubatori e tiranni; e poi Nesso il porta dall'altra parte.

Comincia il canto decimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in bronchi, di ciò parlando con Piero dalle Vigne, e appresso coloro li quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati da cagne nere.

Comincia il canto decimoquarto dello 'Nferno. Nel quale l'autor mostra sé esser venuto sovra un sabbione ardente, sopra il qual piovono continue fiamme, e dove si puniscono quegli che violentamente hanno adoperato incontro a Dio e contro alla natura, e avanti agli altri vede punir Campaneo. Poi gli dimostra Virgilio come d'una statua di diversi metalli si creano tutti i fiumi dello 'nferno.

Comincia il canto decimoquinto dello 'Nferno. Nel quale l'autore discrive il tormento de' sogdomiti, e truova ser Brunetto Latino, il quale gli predice alcuna cosa della sua futura vita.

Comincia il canto decimosesto dello 'Nferno. Nel quale l'autor parla, in quel medesimo luogo che di sopra, con tre spiriti; poi, data una corda a Virgilio, mostra come egli, con quella pescando, facesse venir fuor Gerione.

Comincia il canto decimosettimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore discrive la forma della fraude e il tormento degli usurieri, e come, saliti sovra Gerione, passarono il fiume.

Comincia il canto decimottavo dello 'Nferno. Nel quale l'autore prima discrive come sia fatto Malebolge; e appresso mostra come i ruffiani siano con iscuriate battuti da demòni; e ultimamente come i lusinghieri piangano in uno sterco.

Comincia il canto decimonono dello 'Nferno. Nel quale l'autore, disceso nella terza bolgia, dimostra qual sia il tormento de' simoniaci, e parla con papa Niccola, il quale gli predice d'alcun papa futuro simoniaco; e quindi esclama l'autore contro al detto papa.

Comincia il canto vigesimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore discende nella quarta bolgia, nella qual truova coloro li quali vollero antivedere, fatturieri e maliosi, tutti travolti; e alcuna cosa parla della origine di Mantova.

Comincia il canto vigesimoprimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, venuto nella quinta bolgia, mostra come in una bogliente pegola si puniscano i barattieri e come in quella è gittato un lucchese; e come, volendo andare avanti, son dati loro dieci diavoli in compagnia.

Comincia il canto vigesimosecondo dello 'Nferno. Nel quale l'autor discrive come i dimòni presero con gli uncini un navarrese, il quale, alcune cose raccontate, subito si gittò nella pegola; per lo qual ripigliare i demòni, volando sopra la pece, s'impegolarono.

Comincia il canto vigesimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore scrive come, temendo de' dimòni, li quali impacciati avean lasciati, Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl'ipocriti, vestiti di cappe rance.


Comincia il canto vigesimoquarto dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i ladroni, tormentati variamente da serpi, tra' quali primieramente truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice.

Comincia il canto vigesimoquinto dello 'Nferno. Nel quale l'autore nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini trasformarsi maravigliosamente in diverse forme.

Comincia il canto vigesimosesto dello 'Nferno. Nel quale mostra l'autore come pervenne all'ottava bolgia, nella qual dice esser puniti i frodolenti consiglieri in fiamme di fuoco; e quivi ode da Ulisse il fine suo.

Comincia il canto vigesimosettimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore nella sopradetta bolgia discrive aver trovato il conte Guido da Monte Feltro, a cui racconta lo stato di Romagna, e ode le colpe sue.

Comincia il canto vigesimottavo dello 'Nferno. Nel quale l'autore dimostra nella nona bolgia con l'esser tutti tagliati punirsi i scismatici; e quivi, riconosciutine molti, parla con Beltram dal Bornio, e con certi altri.

Comincia il canto vigesimonono dello 'Nferno. Nel quale l'autore, disceso nella decima bolgia, mostra primieramente come in quella, essendo maculati di rogna e di scabbia, si puniscano gli alchimisti; e quivi parla con Capocchio d'Arezzo; poi, piú avanti, mostra con altre pene punirsi ogni falsario.

Comincia il canto trigesimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, continuando nella predetta bolgia, ne nomina alquanti, e tra gli altri maestro Adamo, discrivendo la riotta stata tra 'l maestro Adamo e Simon greco in sua presenza.

Comincia il canto trigesimoprimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore dimostra sé esser pervenuto al pozzo dello abisso, e quello essere intorniato di giganti, e sé con Virgilio essere da Anteo disposti nel nono ed ultimo cerchio dello 'nferno.

Comincia il canto trigesimosecondo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro che tradiscono i fratelli e' congiunti, parlando con Camiscion de' Pazzi, n'ode piú nominare. E poi, procedendo nell'Antenora, dove in simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor cittá, truova Bocca degli Abati, il quale piú altri gli nomina dannati in quel luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro all'arcivescovo Ruggieri.

Comincia il canto trigesimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, udita la ragione e 'l modo della morte del conte Ugolino, procedendo nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader l'anime, parendo qua sú ancora il corpo vivo.

Comincia il canto trigesimoquarto dello 'Nferno. Nel quale l'autore passa nella Giudeca, e vede il Lucifero e Giuda Scariotto e altri spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a' velli del Lucifero, si cala e esce dello 'nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a riveder le stelle.

Qui finisce la prima parte della Cantica, over Comedia, di Dante Alighieri, chiamata Inferno.


PURGATORIO

Comincia la seconda parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Purgatorio, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di quella seconda parte comincia il canto primo. Nel quale l'autore, fatta la sua invocazione, discrive sotto qual parte del cielo sia la regione dove arrivò; e quindi, trovato Catone uticense e il suo cammin dimostratogli, ne va alla marina, dove Virgilio, secondo il comandamento di Catone, gli lava il viso e cignelo d'un giunco.

Comincia il canto secondo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra come, essendo alla marina piú spiriti arrivati e smontati in terra, tra essi riconobbe il Casella, ottimo cantatore, al canto del quale mentre essi stavano tutti attenti, sopra venne Catone, dal quale ripresi, tutti verso il monte cominciarono a fuggire.

Comincia il canto terzo del Purgatoro. Nel quale Virgilio mostra perché egli come Dante non faccia ombra. Appresso, al cominciar dell'erta, truovano il re Manfredi con piú altri, della porta del purgatoro schiusi a tempo, percioché morirono scomunicati.

Comincia il canto quarto del Purgatoro. Nel quale Virgilio mostra la ragione all'autore, per che quivi dal sole sieno feriti in su l'ómero destro. Poi truova Belacqua con quegli che in sin lo stremo indugiaron la penitenza.

Comincia il canto quinto del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra aver trovato Bonconte di Monte Feltro e altri assai, stati per forza uccisi e indugiatisi ad pentere in fino a l'ultima ora.

Comincia il canto sesto del Purgatoro. Nel qual Virgilio solve a l'autore un dubbio mossogli del pregare che gli spiriti faceano che per lor si pregasse. Poi truovan Sordello da Mantova, e appresso l'autore parla contro ad Italia; e ultimamente contro a Fiorenza.

Comincia il canto settimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, poi s'ebber fatta festa insieme Virgilio e Sordello, che Sordello gli menasse in un grembo del monte, dove vide Ridolfo imperadore e piú altri magnifichi spiriti.

Comincia il canto ottavo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come due angeli discesero da cielo a guardia del luogo dove erano; e appresso come truova giudice Nino e Currado marchese Malespina, con li quali alquanto parla.

Comincia il canto nono del Purgatoro. Nel quale l'autor dimostra come, adormentatosi, gli parve da una aquila esser portato infino al fuoco; per che destatosi, si trovò presso alla porta del purgatoro, dove, secondo che Virgilio gli dice, l'avea portato una donna. E quindi dice sé essere andato alla detta porta, la quale discrive come fatta sia, e similmente uno angelo che sopra quella stava, e come gli scrivesse sette P nella fronte e dentro il mettesse.

Comincia il canto decimo del Purgatoro. Nel quale l'autore dimostra che, entrato dentro a quello, vedesse intagliate nella ripa del monte certe istorie d'umiltá, e poi vedesse anime chinate sotto gravi pesi andare dintorno.

Comincia il canto decimoprimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, trovati spiriti che sotto gravi pesi purgavano il peccato della superbia, parla con Uberto Aldobrandesco e con Odorigi da Gobbio; e alquanto grida contro alla vanagloria umana.

Comincia il canto decimosecondo del Purgatoro. Nel quale l'autore dimostra l'abbattimento di molti superbi essergli apparito scolpito nel pavimento; e appresso, invitati a salire nel secondo girone da uno angelo, gli è uno de' sette P levato dalla fronte.

Comincia il canto decimoterzo del Purgatoro. Nel quale l'autore, venuto nel secondo girone dove si purga il peccato della 'nvidia, ode certe voci, mosse da caritá; poi truova spiriti a sedere, vestiti tutti di ciliccio e con gli occhi cigliati, tra' quali Sapia gli favella.

Comincia il canto decimoquarto del Purgatoro. Nel quale l'autore nel predetto girone parla con Guido del Duca, il quale, abbominata la valle d'Arno, predice alcune cose del nepote di Rinier da Calvoli; e poi si duole di piú valenti uomini romagnuoli, venuti meno; poi ode voci in detestazion della 'nvidia.

Comincia il canto decimoquinto del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, invitati da uno agnolo a salir nel terzo girone, Virgilio gli solve un dubbio, natogli per parole di Guido del Duca; poi mostra sé avere per vision vedute certe cose dimostranti mansuetudine, e, nel giron pervenuti, dice cominciarsi lor sopra un gran fummo.

Comincia il canto decimosesto del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, entrato nel fummo del terzo girone, dove si purga il peccato dell'ira, truova Marco Lombardo, il quale ragiona con lui del mondo ch'è guasto e della cagione.

Comincia il canto decimosettimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, vedute certe cose in visione, le quali sono in detestazion dell'ira, Virgilio gli aperse che cosa è amore e di quante spezie, essendo essi pervenuti nel quarto girone, dove si purga l'amore del bene scemo.

Comincia il canto decimottavo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra ancora come amore in noi si crea. E appresso ode cose ad incitare la sollecitudine; e poi parla con l'abate di San Zeno da Verona, e ultimamente ode cose in vitupèro della pigrizia.

Comincia il canto decimonono del Purgatoro. Nel quale l'autore discrive una vision d'una femina contrafatta, veduta da lui; e appresso come perviene nel quinto girone, ove si purga il peccato dell'avarizia; e quivi truova peccatori a giacere vòlti in giú e legati, e parla con un papa di que' dal Fiesco.

Comincia il canto vigesimo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra d'aver parlato tra gli avari con Ugo Ciappetta, il quale gli dice come di lui son discesi li presenti reali di Francia, e, oltre a ciò, alcune vituperevoli opere fatte e che far debbono, e, oltre a ciò, gli mostra come il dí cantano laudevoli cose della povertá, e la notte vituperevoli dell'avarizia; e ultimamente come sentí tutto tremare il monte.

Comincia il canto vigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come Stazio, apparito tra loro, dice la cagion del tremar del monte, e poi se medesimo manifesta, e conosce Virgilio.

Comincia il canto vigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra come, venuti nel sesto girone, e andando Virgilio e Stazio ragionando di varie cose, trovarono uno albero nella strada, del quale sentîro certe voci venire verso loro, le quali sonavano in laude della sobrietá.

Comincia il canto vigesimoterzo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra purgarsi il vizio della gola; e, trovato Forese Donati, ode da lui certe cose, e, tra l'altre, alcune cose future, contra la disonestá delle donne fiorentine.

Comincia il canto vigesimoquarto del Purgatoro. Nel quale l'autore, continuando il suo ragionar con Forese, ode nominare piú altri spiriti che quivi erano, tra' quali Bonagiunta Orbicciani gli predice lui doversi innamorare in Lucca, e similmente Forese il disfacimento d'alcun fiorentino. Poi truova un altro albero, e ode cose in vitupèro della gola, e da uno agnolo sono inviati al girone superiore.

Comincia il canto vigesimoquinto del Purgatoro. Nel quale l'autore scrive come Stazio, per dichiarargli come si dimagri dove non è uopo di nudrimento, gli disegna come generati siamo, e come dopo la morte i nostri spiriti piglin corpo dell'aere. E appresso dice l'autore come nel settimo giron pervennero, nel quale in fiamme dice si purga il peccato della lussuria.

Comincia il canto vigesimosesto del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra nelle fiamme aver piú spiriti veduti, e tra gli altri riconosciuto Guido Guinizelli e Arnaldo, e parlato con loro.

Comincia il canto vigesimosettimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, passato un fuoco, e veduta la notte una visione, pervenne in su la sommitá del monte, dove Virgilio in suo arbitrio rimise che quel facesse che piú gli aggradisse.

Comincia il canto vigesimottavo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra come, pervenuto nel paradiso delle delizie, truova il fiume di Letè; e, parlando con una donna che da l'altra parte del fiume gli apparve, ode da lei la cagione che fa muovere le frondi degli alberi di quel luogo; e mostragli l'origine di Letè e d'Eunoè.

Comincia il canto vigesimonono del Purgatoro. Nel quale l'autor disegna come venir vedesse il celestial triunfo.

Comincia il canto trigesimo del Purgatoro. Nel quale l'autore dimostra come Beatrice sopra il triunfal carro gli apparí, e come, essendo Virgilio partito, ella il chiamò per nome e gravemente il riprese, mostrando poi alle sante creature, che dintorno al carro erano, perché degno era di riprensione.

Comincia il canto trigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l'autore distesamente discrive la grave riprension fattagli da Beatrice, e il dolore che per quella sentí; e appresso come, fuor di sé essendo e risentendosi, si trovò tirato dalla donna, che prima trovata avea, nel fiume, e in quello da lei tuffato; e avendo dell'acqua bevuta, fu dalle quattro donne presentato a Beatrice, e come lei, levato dal viso il velo, apertamente vide.

Comincia il canto trigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l'autore discrive come il triunfo celeste si volse a tornare indietro, e come, ad un albero senza foglie smontata Beatrice del carro, esso vi fu legato dal grifone; e appresso come s'addormentò, e, svegliato, vide il grifone esser partito e Beatrice rimasa, la quale gli fa rimirare il carro, sopra 'l quale per figura vede certe cose alla Chiesa di Dio avvenute e che doveano avvenire.

Comincia il canto trigesimoterzo del Purgatoro. Nel quale l'autore significa certe cose future a lui da Beatrice predette, e come, da Matelda bagnato in Eunoè, puro tornò a Beatrice.

Qui finisce la seconda parte della Cantica, overo Commedia, di Dante Alighieri, chiamata Purgatoro.

PARADISO

Comincia la terza parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Paradiso, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di questa terza parte comincia il canto primo. Nel quale l'autore, poi che dimostrato ha sommariamente quello che in essa intende di trattare e fatta la sua invocazione, discrive come appresso a Beatrice se ne salisse nel primo cielo, e come ella gli solvesse un dubbio per lo suo veloce montare venutogli.

Comincia il canto secondo del Paradiso. Nel quale l'autore, poi che a quegli che meno sofficienti sono alla presente considerazione ha detto che si rimangano, dimostra la cagione de' segni bui, li quali nel corpo della luna veggiamo.

Comincia il canto terzo del Paradiso. Nel quale l'autore parla con madonna Piccarda; e ella gli solve un dubbio, mostrandogli ciascuna anima esser contenta nel luogo dove posta è in paradiso; e poi gli mostra Costanza imperadrice.

Comincia il canto quarto del Paradiso. Nel quale Beatrice solve il dubbio della doppia volontá e del tornar dell'anime alle stelle.

Comincia il canto quinto del Paradiso. Nel quale Beatrice dichiara all'autore se per alcuna permutazione si può adempiere il boto fatto. E quindi, saliti nel secondo cielo, vede l'autore molti spiriti gloriosi, de' quali uno, offertoglisi, domanda chi el sia.

Comincia il canto sesto del Paradiso. Nel quale Giustiniano imperadore se medesimo manifesta all'autore, mostrando appresso molte cose magnifiche fatte sotto il segno dell'aquila, e quanto falli chi quello senza giustizia s'apropri; e ultimamente dice quivi esser l'anima di Romeo.

Comincia il canto settimo del Paradiso. Nel quale Beatrice chiarisce all'autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso perché a Dio, a rilevare l'umana generazione dalla colpa del primo padre, piacque piú di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente perché gli elementi sieno corruttibili.

Comincia il canto ottavo del Paradiso. Nel quale l'autor mostra come salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.

Comincia il canto nono del Paradiso. Nel quale l'autor discrive come madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso Folco contro a' pastori della Chiesa.

Comincia il canto decimo del Paradiso. Nel quale l'autor discrive come nel cielo del sole pervenissero, dove gli parla Tommaso d'Aquino, e nominagli piú altri spiriti, li quali tutti furon gran letterati; e tra gli altri gli nomina Alberto di Cologna, Salomone e Boezio.

Comincia il canto decimoprimo del Paradiso. Nel quale Tommaso d'Aquino mirabilmente commendando onora san Francesco.

Comincia il canto decimosecondo del Paradiso. Nel quale Bonaventura da Bagnorea mirabilmente parla di san Domenico, e nomina piú altri beati spiriti, li quali quivi dice gloriarsi.

Comincia il canto decimoterzo del Paradiso. Nel quale l'autore mostra come san Tommaso d'Aquino gli chiarisse quello che di Salamon detto avea: «non surse il secondo».

Comincia il canto decimoquarto del Paradiso. Nel quale primieramente l'autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universal resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.

Comincia il canto decimoquinto del Paradiso. Nel quale l'autore mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico, e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.

Comincia il canto decimosesto del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida mostra all'autore quali fossero le piú notabili famiglie di Firenze al suo tempo.

Comincia il canto decimosettimo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida, domandato, predice all'autore il suo futuro esilio, e che per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e udite, a cui che elle si debbano parer gravi.

Comincia il canto decimottavo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida nomina piú famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi. E appresso l'autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive molti santi spiriti ne' loro movimenti fare diverse figure di lettere, e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.

Comincia il canto decimonono del Paradiso. Nel quale mostra l'autor dalla sopradetta aquila essergli dichiarato quello che creder [si de'] d'uno non battezzato e che mai di Cristo alcuna cosa non udí ragionare, ma per ogni altra cosa è buono; e ultimamente quello che contro a piú cristiani dicesse la predetta aquila.

Comincia il canto vigesimo del Paradiso. Nel quale l'autor discrive come la detta aquila gli nominò alquanti degli spiriti che in essa erano gloriosi; e appresso gli mostrò come Traiano imperadore e Rifeo troiano, li quali da lei erano stati nominati, non moriron pagani come esso stimava.

Comincia il canto vigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l'autor dimostra come, pervenuto nel settimo cielo, vide una scala altissima, per la quale salivano e scendevano molti spiriti; de' quali venne a lui Pietro Dammiano, il quale, ad alcuna sua domanda avendo risposto, alcune cose dice contro a' pastori della Chiesa.

Comincia il canto vigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l'autore narra come parlò con san Benedetto, il quale piú altri santi spiriti contemplativi gli nominò, e piú cose gli disse in vitupèro de' presenti religiosi; poi dietro a lui su per la scala se ne salí nell'ottavo cielo; e quindi vòlto in giú, discrive quali vedesse la terra e tutti gli altri cieli.

Comincia il canto vigesimoterzo del Paradiso. Nel quale l'autore discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla Vergine Maria.

Comincia il canto vigesimoquarto del Paradiso. Nel quale l'autore, con san Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch'e' crede.

Comincia il canto vigesimoquinto del Paradiso. Nel quale l'autore scrive come, da sa' Iacopo apostolo domandato, dice che cosa è speranza; e appresso come, essendo sopravenuto san Giovanni evangelista, ode da lui non essere in cielo alcuno altro col proprio corpo che Cristo e la madre.

Comincia il canto vigesimosesto del Paradiso. Nel quale l'autore, a domanda di san Giovanni evangelista, dice che cosa è caritá; e appresso come, con Adam parlando, da lui ode quando creato fosse, quanto vivesse, e dove.

Comincia il canto vigesimosettimo del Paradiso. Nel quale l'autore primieramente racconta parole dette da san Piero contro alli moderni pastori; e appresso discrive come pervenisse nel nono cielo.

Comincia il canto vigesimottavo del Paradiso. Nel quale l'autore discrive la gloriosa festa de' nove cori degli angeli.

Comincia il canto vigesimonono del Paradiso. Nel quale Beatrice dimostra all'autore l'ordine della creazione delle cose; e appresso ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanitá d'assai moderni predicatori.

Comincia il canto trigesimo del Paradiso. Nel quale l'autore scrive sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d'un fiume, poi in forma d'una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia d'Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa gli predice.

Comincia il canto trigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l'autore dice come, in luogo di Beatrice, trovò san Bernardo, il quale gli mostrò lei sedere nel luogo a' suoi meriti sortito; ed egli le fece orazione; poi, dicendogliel san Bernardo, volse gli occhi alla letizia de' gloriosi.

Comincia il canto trigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l'autor narra come san Bernardo gli mostrasse la Vergine Maria e Eva e nominatamente piú altri santi uomini e donne, e la letizia dell'agnolo Gabriello, e poi lui ad orare con seco, per grazia impetrar, disponesse.

Comincia il canto trigesimoterzo del Paradiso. Nel quale discrive l'autore l'orazione fatta da san Bernardo, e come con lo sguardo penetrasse alla divina essenzia; e fa fine.

Qui finisce la terza e ultima parte della Cantica, overo Commedia, di Dante Alighieri, chiamata Paradiso.

miércoles, 21 de octubre de 2020

XXVI DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE

XXVI DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE

Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali fare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcuno delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sí come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli d'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a' volgari.

Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come fossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, la vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa; quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale tutto intitolò Comedia. De' quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto, coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casi della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá, non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.

Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possa dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero, lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò sí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditá del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto principio. - Certo - disse Dante, - io mi credea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia. - E reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata, seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.

Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo che molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli era suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.

Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, accioché imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto piú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare.

Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: - Sí, io la compie' -; e quinci gli parea che 'l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: - Egli è qui quello che voi tanto avete cercato. - E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata, si vide finita.

Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una quistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia e sí notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tra molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa guisa:

Ultima regna canam, fluido contermina mundo,

spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt

pro meritis cuicumque suis, ecc.

il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.

Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran fatto che solenne investigazione ne bisogni.

Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.

Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione, egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi; il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.

Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra volta è fatta menzione.

Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse, piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò Convivio, assai bella e laudevole operetta.

Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che due solamente.

Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino, delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita Nova appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial menzione al presente.

In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare: opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta certo non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.

lunes, 31 de agosto de 2020

La Divina Comedia, castellano, Canto XVI

CANTO XVI


Ya estaba donde el resonar se oía


del agua que caía al otro círculo,


como el que hace la abeja en la colmena;


cuando tres sombras juntas se salieron,


corriendo, de una turba que pasaba


bajo la lluvia de la áspera pena.


Hacia nosotros gritando venían:


«Detente quien parece por el traje


ser uno de la patria depravada.»


¡Ah, cuántas llagas vi en aquellos miembros,


viejas y nuevas, de la llama ardidas!


me siento aún dolorido al recordarlo.


A sus gritos mi guía se detuvo;


volvió el rostro hacia mí, y me dijo: « Espera,


pues hay que ser cortés con esta gente.


Y si no fuese por el crudo fuego


que este sitio asaetea, te diría


que te apresures tú mejor que ellos.»


Ellos, al detenernos, reemprendieron

su antiguo verso; y cuando ya llegaron,


hacen un corro de sí aquellos tres,


cual desnudos y untados campeones,


acechando a su presa y su ventaja,


antes de que se enzarcen entre ellos;


y con la cara vuelta, cada uno


me miraba de modo que al contrario


iba el cuello del pie continuamente.


«Si el horror de este suelo movedizo


vuelve nuestras plegarias despreciables


uno empezó y la faz negra y quemada,


nuestra fama a tu ánimo suplique


que nos digas quién eres, que los vivos


pies tan seguro en el infierno arrastras.


Éste, de quien me ves pisar las huellas,


aunque desnudo y sin pellejo vaya,


fue de un grado mayor de lo que piensas,


pues nieto fue de la bella Gualdrada;


se llamó Guido Guerra, y en su vida


mucho obró con su espada y con su juicio.


El otro, que tras mí la arena pisa,


es Tegghiaio Aldobrandi, cuya voz


en el mundo debiera agradecerse;


y yo, que en el suplicio voy con ellos,


Jacopo Rusticucci; y fiera esposa


más que otra cosa alguna me condena.»


Si hubiera estado a cubierto del fuego,


me hubiera ido detrás de ellos al punto,


y no creo que al guía le importase;


mas me hubiera abrasado, y de ese modo


venció el miedo al deseo que tenía,


pues de abrazarles yo me hallaba ansioso.


Luego empecé: «No desprecio, mas pena


en mi interior me causa vuestro estado,


y es tanta que no puedo desprenderla,


desde el momento en que mi guía dijo


palabras, por las cuales yo pensaba


que, como sois, se acercaba tal gente.


De vuestra tierra soy, y desde siempre

vuestras obras y nombres tan honrados,


con afecto he escuchado y retenido.


Dejo la hiel y voy al dulce fruto


que mi guía veraz me ha prometido,


pero antes tengo que llegar al centro.»


«Muy largamente el alma te conduzcan


todavía me dijo aquél tus miembros,


y resplandezca luego tu memoria,


di si el valor y cortesía aún se hallan


en nuestra patria tal como solían,


o si del todo han sido ya expulsados;


que Giuglielmo Borsiere, el cual se duele


desde hace poco en nuestro mismo grupo,


con sus palabras mucho nos aflige.»


«Las nuevas gentes, las ganancias súbitas,


orgullo y desmesura han generado,


en ti, Florencia, y de ello te lamentas.»


Así grité levantando la cara;


y los tres, que esto oyeron por respuesta,


se miraron como ante las verdades.


«Si en otras ocasiones no te cuesta


satisfacer a otros me dijeron ,


dichoso tú que dices lo que quieres.


Pero si sales de este mundo ciego


y vuelves a mirar los bellos astros,


cuando decir “estuve allí” te plazca,


háblale de nosotros a la gente.»


Rompieron luego el círculo y, huyendo,


alas sus raudas piernas parecían.


Un amén no podría haberse dicho


antes de que ellos se hubiesen perdido;


por lo que el guía quiso que partiésemos.


Yo iba detrás, y no avanzamos mucho


cuando el agua sonaba tan de cerca,


que apenas se escuchaban las palabras.


Como aquel río sigue su carrera


primero desde el Veso hacia el levante,


a la vertiente izquierda de Apenino,


que Acquaqueta se llama abajo, antes

de que en un hondo lecho se desplome,


y en Forlí ya ese nombre no conserva,


resuena allí sobre San Benedetto,


de la roca cayendo en la cascada


en donde mil debieran recibirle;


así en lo hondo de un despeñadero,


oímos resonar el agua roja,


que el oído ofendía al poco tiempo.


Yo llevaba una cuerda a la cintura


con la que alguna vez hube pensado


cazar la onza de la piel pintada.


Luego de haberme toda desceñido,


como mi guía lo había mandado,


se la entregué recogida en un rollo.


Entonces se volvió hacia la derecha


y, alejándose un trecho de la orilla,


la arrojó al fondo de la escarpadura.


«Alguna novedad ha de venirnos


pensaba para mí del nuevo signo,


que el maestro así busca con los ojos.»


iCuán cautos deberían ser los hombres


junto a aquellos que no sólo las obras,


mas por dentro el pensar también conocen!


«Pronto dijo verás sobradamente


lo que espero, y en lo que estás pensando:


pronto conviene que tú lo descubras.»


La verdad que parece una mentira


debe el hombre callarse mientras pueda,


porque sin tener culpa se avergüence:


pero callar no puedo; y por las notas,


lector, de esta Comedia, yo te juro,


así no estén de larga gracia llenas,


que vi por aquel oire oscuro y denso


venir nadando arriba una figura,


que asustaría el alma más valiente,


tal como vuelve aquel que va al fondo


a desprender el ancla que se agarra


a escollos y otras cosas que el mar cela,


que el cuerpo extiende y los pies se recoge.

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