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sábado, 22 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XXV

CANTO XXV

[Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.]

Ora era onde 'l salir non volea storpio;

ché 'l sole avëa il cerchio di merigge

lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:

per che, come fa l'uom che non s'affigge

ma vassi a la via sua, che che li appaia,

se di bisogno stimolo il trafigge,

così intrammo noi per la callaia,

uno innanzi altro prendendo la scala

che per artezza i salitor dispaia.

E quale il cicognin che leva l'ala

per voglia di volare, e non s'attenta

d'abbandonar lo nido, e giù la cala;

tal era io con voglia accesa e spenta

di dimandar, venendo infino a l'atto

che fa colui ch'a dicer s'argomenta.

Non lasciò, per l'andar che fosse ratto,

lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca

l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto».

Allor sicuramente apri' la bocca

e cominciai: «Come si può far magro

là dove l'uopo di nodrir non tocca?».

«Se t'ammentassi come Meleagro

si consumò al consumar d'un stizzo,

non fora», disse, «a te questo sì agro;

e se pensassi come, al vostro guizzo,

guizza dentro a lo specchio vostra image,

ciò che par duro ti parrebbe vizzo.

Ma perché dentro a tuo voler t'adage,

ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego

che sia or sanator de le tue piage».

«Se la veduta etterna li dislego»,

rispuose Stazio, «là dove tu sie,

discolpi me non potert' io far nego».

Poi cominciò: «Se le parole mie,

figlio, la mente tua guarda e riceve,

lume ti fiero al come che tu die.

Sangue perfetto, che poi non si beve

da l'assetate vene, e si rimane

quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane

virtute informativa, come quello

ch'a farsi quelle per le vene vane.

Ancor digesto, scende ov' è più bello

tacer che dire; e quindi poscia geme

sovr' altrui sangue in natural vasello.

Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme,

l'un disposto a patire, e l'altro a fare

per lo perfetto loco onde si preme;

e, giunto lui, comincia ad operare

coagulando prima, e poi avviva

ciò che per sua matera fé constare.

Anima fatta la virtute attiva

qual d'una pianta, in tanto differente,

che questa è in via e quella è già a riva,

tanto ovra poi, che già si move e sente,

come spungo marino; e indi imprende

ad organar le posse ond' è semente.

Or si spiega, figliuolo, or si distende

la virtù ch'è dal cor del generante,

dove natura a tutte membra intende.

Ma come d'animal divegna fante,

non vedi tu ancor: quest' è tal punto,

che più savio di te fé già errante,

sì che per sua dottrina fé disgiunto

da l'anima il possibile intelletto,

perché da lui non vide organo assunto.

Apri a la verità che viene il petto;

e sappi che, sì tosto come al feto

l'articular del cerebro è perfetto,

lo motor primo a lui si volge lieto

sovra tant' arte di natura, e spira

spirito novo, di vertù repleto,

che ciò che trova attivo quivi, tira

in sua sustanzia, e fassi un'alma sola,

che vive e sente e sé in sé rigira.

E perché meno ammiri la parola,

guarda il calor del sole che si fa vino,

giunto a l'omor che de la vite cola.

Quando Làchesis non ha più del lino,

solvesi da la carne, e in virtute

ne porta seco e l'umano e 'l divino:

l'altre potenze tutte quante mute;

memoria, intelligenza e volontade

in atto molto più che prima agute.

Sanza restarsi, per sé stessa cade

mirabilmente a l'una de le rive;

quivi conosce prima le sue strade.

Tosto che loco lì la circunscrive,

la virtù formativa raggia intorno

così e quanto ne le membra vive.

E come l'aere, quand' è ben pïorno,

per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,

di diversi color diventa addorno;

così l'aere vicin quivi si mette

e in quella forma ch'è in lui suggella

virtüalmente l'alma che ristette;

e simigliante poi a la fiammella

che segue il foco là 'vunque si muta,

segue lo spirto sua forma novella.

Però che quindi ha poscia sua paruta,

chiamata ombra; e quindi organa poi

ciascun sentire infino a la veduta.

Quindi parliamo e quindi ridiam noi;

quindi facciam le lagrime e ' sospiri

che per lo monte aver sentiti puoi.

Secondo che ci affliggono i disiri

e li altri affetti, l'ombra si figura;

e quest' è la cagion di che tu miri».

E già venuto a l'ultima tortura

s'era per noi, e vòlto a la man destra,

ed eravamo attenti ad altra cura.

Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,

e la cornice spira fiato in suso

che la reflette e via da lei sequestra;

ond' ir ne convenia dal lato schiuso

ad uno ad uno; e io temëa 'l foco

quinci, e quindi temeva cader giuso.

Lo duca mio dicea: «Per questo loco

si vuol tenere a li occhi stretto il freno,

però ch'errar potrebbesi per poco».

'Summae Deus clementïae' nel seno

al grande ardore allora udi' cantando,

che di volger mi fé caler non meno;

e vidi spirti per la fiamma andando;

per ch'io guardava a loro e a' miei passi,

compartendo la vista a quando a quando.

Appresso il fine ch'a quell' inno fassi,

gridavano alto: 'Virum non cognosco';

indi ricominciavan l'inno bassi.

Finitolo, anco gridavano: «Al bosco

si tenne Diana, ed Elice caccionne

che di Venere avea sentito il tòsco».

Indi al cantar tornavano; indi donne

gridavano e mariti che fuor casti

come virtute e matrimonio imponne.

E questo modo credo che lor basti

per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:

con tal cura conviene e con tai pasti

che la piaga da sezzo si ricuscia.

Purgatorio, Canto XXII

CANTO XXII

[Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.]

Già era l'angel dietro a noi rimaso,

l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,

avendomi dal viso un colpo raso;

e quei c'hanno a giustizia lor disiro

detto n'avea beati, e le sue voci

con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro.

E io più lieve che per l'altre foci

m'andava, sì che sanz' alcun labore

seguiva in sù li spiriti veloci;

quando Virgilio incominciò: «Amore,

acceso di virtù, sempre altro accese,

pur che la fiamma sua paresse fore;

onde da l'ora che tra noi discese

nel limbo de lo 'nferno Giovenale,

che la tua affezion mi fé palese,

mia benvoglienza inverso te fu quale

più strinse mai di non vista persona,

sì ch'or mi parran corte queste scale.

Ma dimmi, e come amico mi perdona

se troppa sicurtà m'allarga il freno,

e come amico omai meco ragiona:

come poté trovar dentro al tuo seno

loco avarizia, tra cotanto senno

di quanto per tua cura fosti pieno?».

Queste parole Stazio mover fenno

un poco a riso pria; poscia rispuose:

«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno.

Veramente più volte appaion cose

che danno a dubitar falsa matera

per le vere ragion che son nascose.

La tua dimanda tuo creder m'avvera

esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita,

forse per quella cerchia dov' io era.

Or sappi ch'avarizia fu partita

troppo da me, e questa dismisura

migliaia di lunari hanno punita.

E se non fosse ch'io drizzai mia cura,

quand' io intesi là dove tu chiame,

crucciato quasi a l'umana natura:

'Per che non reggi tu, o sacra fame

de l'oro, l'appetito de' mortali?',

voltando sentirei le giostre grame.

Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali

potean le mani a spendere, e pente'mi

così di quel come de li altri mali.

Quanti risurgeran coi crini scemi

per ignoranza, che di questa pecca

toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!

E sappie che la colpa che rimbecca

per dritta opposizione alcun peccato,

con esso insieme qui suo verde secca;

però, s'io son tra quella gente stato

che piange l'avarizia, per purgarmi,

per lo contrario suo m'è incontrato».

«Or quando tu cantasti le crude armi

de la doppia trestizia di Giocasta»,

disse 'l cantor de' buccolici carmi,

«per quello che Clïò teco lì tasta,

non par che ti facesse ancor fedele

la fede, sanza qual ben far non basta.

Se così è, qual sole o quai candele

ti stenebraron sì, che tu drizzasti

poscia di retro al pescator le vele?».

Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti

verso Parnaso a ber ne le sue grotte,

e prima appresso Dio m'alluminasti.

Facesti come quei che va di notte,

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte,

quando dicesti: 'Secol si rinova;

torna giustizia e primo tempo umano,

e progenïe scende da ciel nova'.

Per te poeta fui, per te cristiano:

ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,

a colorare stenderò la mano.

Già era 'l mondo tutto quanto pregno

de la vera credenza, seminata

per li messaggi de l'etterno regno;

e la parola tua sopra toccata

si consonava a' nuovi predicanti;

ond' io a visitarli presi usata.

Vennermi poi parendo tanto santi,

che, quando Domizian li perseguette,

sanza mio lagrimar non fur lor pianti;

e mentre che di là per me si stette,

io li sovvenni, e i lor dritti costumi

fer dispregiare a me tutte altre sette.

E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi

di Tebe poetando, ebb' io battesmo;

ma per paura chiuso cristian fu'mi,

lungamente mostrando paganesmo;

e questa tepidezza il quarto cerchio

cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo.

Tu dunque, che levato hai il coperchio

che m'ascondeva quanto bene io dico,

mentre che del salire avem soverchio,

dimmi dov' è Terrenzio nostro antico,

Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:

dimmi se son dannati, e in qual vico».

«Costoro e Persio e io e altri assai»,

rispuose il duca mio, «siam con quel

Greco che le Muse lattar più ch'altri mai,

nel primo cinghio del carcere cieco;

spesse fïate ragioniam del monte

che sempre ha le nutrice nostre seco.

Euripide v'è nosco e Antifonte,

Simonide, Agatone e altri piùe

Greci che già di lauro ornar la fronte.

Quivi si veggion de le genti tue

Antigone, Deïfile e Argia,

e Ismene sì trista come fue.

Védeisi quella che mostrò Langia;

èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,

e con le suore sue Deïdamia».

Tacevansi ambedue già li poeti,

di novo attenti a riguardar dintorno,

liberi da saliri e da pareti;

e già le quattro ancelle eran del giorno

rimase a dietro, e la quinta era al temo,

drizzando pur in sù l'ardente corno,

quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo

le destre spalle volger ne convegna,

girando il monte come far solemo».

Così l'usanza fu lì nostra insegna,

e prendemmo la via con men sospetto

per l'assentir di quell' anima degna.

Elli givan dinanzi, e io soletto

di retro, e ascoltava i lor sermoni,

ch'a poetar mi davano intelletto.

Ma tosto ruppe le dolci ragioni

un alber che trovammo in mezza strada,

con pomi a odorar soavi e buoni;

e come abete in alto si digrada

di ramo in ramo, così quello in giuso,

cred' io, perché persona sù non vada.

Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso,

cadea de l'alta roccia un liquor chiaro

e si spandeva per le foglie suso.

Li due poeti a l'alber s'appressaro;

e una voce per entro le fronde

gridò: «Di questo cibo avrete caro».

Poi disse: «Più pensava Maria onde

fosser le nozze orrevoli e intere,

ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.

E le Romane antiche, per lor bere,

contente furon d'acqua; e Danïello

dispregiò cibo e acquistò savere.

Lo secol primo, quant' oro fu bello,

fé savorose con fame le ghiande,

e nettare con sete ogne ruscello.

Mele e locuste furon le vivande

che nodriro il Batista nel diserto;

per ch'elli è glorïoso e tanto grande

quanto per lo Vangelio v'è aperto».

Purgatorio, Canto XXI

CANTO XXI

[Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.]

La sete natural che mai non sazia

se non con l'acqua onde la femminetta

samaritana domandò la grazia,

mi travagliava, e pungeami la fretta

per la 'mpacciata via dietro al mio duca,

e condoleami a la giusta vendetta.

Ed ecco, sì come ne scrive Luca

che Cristo apparve a' due ch'erano in via,

già surto fuor de la sepulcral buca,

ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa,

dal piè guardando la turba che giace;

né ci addemmo di lei, sì parlò pria,

dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».

Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio

rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface.

Poi cominciò: «Nel beato concilio

ti ponga in pace la verace corte

che me rilega ne l'etterno essilio».

«Come!», diss' elli, e parte andavam forte:

«se voi siete ombre che Dio sù non degni,

chi v'ha per la sua scala tanto scorte?».

E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni

che questi porta e che l'angel profila,

ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.

Ma perché lei che dì e notte fila

non li avea tratta ancora la conocchia

che Cloto impone a ciascuno e compila,

l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia,

venendo sù, non potea venir sola,

però ch'al nostro modo non adocchia.

Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola

d'inferno per mostrarli, e mosterrolli

oltre, quanto 'l potrà menar mia scola.

Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli

diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una

parve gridare infino a' suoi piè molli».

Sì mi diè, dimandando, per la cruna

del mio disio, che pur con la speranza

si fece la mia sete men digiuna.

Quei cominciò: «Cosa non è che sanza

ordine senta la religïone

de la montagna, o che sia fuor d'usanza.

Libero è qui da ogne alterazione:

di quel che 'l ciel da sé in sé riceve

esser ci puote, e non d'altro, cagione.

Per che non pioggia, non grando, non neve,

non rugiada, non brina più sù cade

che la scaletta di tre gradi breve;

nuvole spesse non paion né rade,

né coruscar, né figlia di Taumante,

che di là cangia sovente contrade;

secco vapor non surge più avante

ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,

dov' ha 'l vicario di Pietro le piante.

Trema forse più giù poco o assai;

ma per vento che 'n terra si nasconda,

non so come, qua sù non tremò mai.

Tremaci quando alcuna anima monda

sentesi, sì che surga o che si mova

per salir sù; e tal grido seconda.

De la mondizia sol voler fa prova,

che, tutto libero a mutar convento,

l'alma sorprende, e di voler le giova.

Prima vuol ben, ma non lascia il talento

che divina giustizia, contra voglia,

come fu al peccar, pone al tormento.

E io, che son giaciuto a questa doglia

cinquecent' anni e più, pur mo sentii

libera volontà di miglior soglia:

però sentisti il tremoto e li pii

spiriti per lo monte render lode

a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».

Così ne disse; e però ch'el si gode

tanto del ber quant' è grande la sete,

non saprei dir quant' el mi fece prode.

E 'l savio duca: «Omai veggio la rete

che qui vi 'mpiglia e come si scalappia,

perché ci trema e di che congaudete.

Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia,

e perché tanti secoli giaciuto

qui se', ne le parole tue mi cappia».

«Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto

del sommo rege, vendicò le fóra

ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto,

col nome che più dura e più onora

era io di là», rispuose quello spirto,

«famoso assai, ma non con fede ancora.

Tanto fu dolce mio vocale spirto,

che, tolosano, a sé mi trasse Roma,

dove mertai le tempie ornar di mirto.

Stazio la gente ancor di là mi noma:

cantai di Tebe, e poi del grande Achille;

ma caddi in via con la seconda soma.

Al mio ardor fuor seme le faville,

che mi scaldar, de la divina fiamma

onde sono allumati più di mille;

de l'Eneïda dico, la qual mamma

fummi, e fummi nutrice, poetando:

sanz' essa non fermai peso di dramma.

E per esser vivuto di là quando

visse Virgilio, assentirei un sole

più che non deggio al mio uscir di bando».

Volser Virgilio a me queste parole

con viso che, tacendo, disse 'Taci';

ma non può tutto la virtù che vuole;

ché riso e pianto son tanto seguaci

a la passion di che ciascun si spicca,

che men seguon voler ne' più veraci.

Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca;

per che l'ombra si tacque, e riguardommi

ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca;

e «Se tanto labore in bene assommi»,

disse, «perché la tua faccia testeso

un lampeggiar di riso dimostrommi?».

Or son io d'una parte e d'altra preso:

l'una mi fa tacer, l'altra scongiura

ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso

dal mio maestro, e «Non aver paura»,

mi dice, «di parlar; ma parla e digli

quel ch'e' dimanda con cotanta cura».

Ond' io: «Forse che tu ti maravigli,

antico spirto, del rider ch'io fei;

ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.

Questi che guida in alto li occhi miei,

quel Virgilio dal qual tu togliesti forte

a cantar de li uomini e d'i dèi.

Se cagion altra al mio rider credesti,

lasciala per non vera, ed esser credi

quelle parole che di lui dicesti».

Già s'inchinava ad abbracciar li piedi

al mio dottor, ma el li disse: «Frate,

non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».

Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate

comprender de l'amor ch'a te mi scalda,

quand' io dismento nostra vanitate,

trattando l'ombre come cosa salda».

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