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miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XXVI

CANTO XXVI

[Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.]

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande

che per mare e per terra batti l'ali,

e per lo 'nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,

tu sentirai, di qua da picciol tempo,

di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.

Così foss' ei, da che pur esser dee!

ché più mi graverà, com' più m'attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n'avea fatto iborni a scender pria,

rimontò 'l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio

lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,

e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.

Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,

nel tempo che colui che 'l mondo schiara

la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,

vede lucciole giù per la vallea,

forse colà dov' e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea

l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi

tosto che fui là 've 'l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi

vide 'l carro d'Elia al dipartire,

quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,

ch'el vedesse altro che la fiamma sola,

sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola

del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,

e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra 'l ponte a veder surto,

sì che s'io non avessi un ronchion preso,

caduto sarei giù sanz' esser urto.

E 'l duca che mi vide tanto atteso,

disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;

catun si fascia di quel ch'elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos' io, «per udirti

son io più certo; ma già m'era avviso

che così fosse, e già voleva dirti:

chi è 'n quel foco che vien sì diviso

di sopra, che par surger de la pira

dov' Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira

Ulisse e Dïomede, e così insieme

a la vendetta vanno come a l'ira;

e dentro da la lor fiamma si geme

l'agguato del caval che fé la porta

onde uscì de' Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l'arte per che, morta,

Deïdamìa ancor si duol d'Achille,

e del Palladio pena vi si porta».

«S'ei posson dentro da quelle faville

parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego

 e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna;

vedi che del disio ver' lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l'accetto;

ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto

ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,

perch' e' fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco,

in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,

s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,

s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l'un di voi dica

dove, per lui, perduto a morir gissi».

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando,

pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti' da Circe, che sottrasse

me più d'un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né 'l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore

ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,

e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov' Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l'uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l'altra già m'avea lasciata Setta.

"O frati", dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente

non vogliate negar l'esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec' io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de' remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l'altro polo

vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,

che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché de la nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com' altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».

Inferno, Canto XI

CANTO XI

[Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.]

In su l'estremità d'un'alta ripa

che facevan gran pietre rotte in cerchio,

venimmo sopra più crudele stipa;

e quivi, per l'orribile soperchio

del puzzo che 'l profondo abisso gitta,

ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta

che dicea: 'Anastasio papa guardo,

lo qual trasse Fotin de la via dritta'.

«Lo nostro scender conviene esser tardo,

sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».

«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,

cominciò poi a dir, «son tre cerchietti

di grado in grado, come que' che lassi.

Tutti son pien di spirti maladetti;

ma perché poi ti basti pur la vista,

intendi come e perché son costretti.

D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,

ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale

o con forza o con frode altrui contrista.

Ma perché frode è de l'uom proprio male,

più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale.

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;

ma perché si fa forza a tre persone,

in tre gironi è distinto e costrutto.

A Dio, a sé, al prossimo si pòne

far forza, dico in loro e in lor cose,

come udirai con aperta ragione.

Morte per forza e ferute dogliose

nel prossimo si danno, e nel suo avere

ruine, incendi e tollette dannose;

onde omicide e ciascun che mal fiere,

guastatori e predon, tutti tormenta

lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in sé man vïolenta

e ne' suoi beni; e però nel secondo

giron convien che sanza pro si penta

qualunque priva sé del vostro mondo,

biscazza e fonde la sua facultade,

e piange là dov' esser de' giocondo.

Puossi far forza ne la deïtade,

col cor negando e bestemmiando quella,

e spregiando natura e sua bontade;

e però lo minor giron suggella

del segno suo e Soddoma e Caorsa

e chi, spregiando Dio col cor, favella.

La frode, ond' ogne coscïenza è morsa,

può l'omo usare in colui che 'n lui fida

e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida

pur lo vinco d'amor che fa natura;

onde nel cerchio secondo s'annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,

falsità, ladroneccio e simonia,

ruffian, baratti e simile lordura.

Per l'altro modo quell' amor s'oblia

che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,

di che la fede spezïal si cria;

onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto

de l'universo in su che Dite siede,

qualunque trade in etterno è consunto».

E io: «Maestro, assai chiara procede

la tua ragione, e assai ben distingue

questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede.

Ma dimmi: quei de la palude pingue,

che mena il vento, e che batte la pioggia,

e che s'incontran con sì aspre lingue,

perché non dentro da la città roggia

sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

e se non li ha, perché sono a tal foggia?».

Ed elli a me «Perché tanto delira»,

disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?

o ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole

con le quai la tua Etica pertratta

le tre disposizion che 'l ciel non vole,

incontenenza, malizia e la matta

bestialitade? e come incontenenza

men Dio offende e men biasimo accatta?

Se tu riguardi ben questa sentenza,

e rechiti a la mente chi son quelli

che sù di fuor sostegnon penitenza,

tu vedrai ben perché da questi felli

sien dipartiti, e perché men crucciata

la divina vendetta li martelli».

«O sol che sani ogne vista turbata,

tu mi contenti sì quando tu solvi,

che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,

diss' io, «là dove di' ch'usura offende

la divina bontade, e 'l groppo solvi».

«Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende,

nota, non pure in una sola parte,

come natura lo suo corso prende

dal divino 'ntelletto e da sua arte;

e se tu ben la tua Fisica note,

tu troverai, non dopo molte carte,

che l'arte vostra quella, quanto pote,

segue, come 'l maestro fa 'l discente;

sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente

lo Genesì dal principio, convene

prender sua vita e avanzar la gente;

e perché l'usuriere altra via tene,

per sé natura e per la sua seguace

dispregia, poi ch'in altro pon la spene.

Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;

ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,

e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,

e 'l balzo via là oltra si dismonta».

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