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lunes, 24 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XXX

CANTO XXX

[Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il lasciò, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.]

Quando il settentrïon del primo cielo,

che né occaso mai seppe né orto

né d'altra nebbia che di colpa velo,

e che faceva lì ciascuno accorto

di suo dover, come 'l più basso face

qual temon gira per venire a porto,

fermo s'affisse: la gente verace,

venuta prima tra 'l grifone ed esso,

al carro volse sé come a sua pace;

e un di loro, quasi da ciel messo,

'Veni, sponsa, de Libano' cantando

gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Quali i beati al novissimo bando

surgeran presti ognun di sua caverna,

la revestita voce alleluiando,

cotali in su la divina basterna

si levar cento, ad vocem tanti senis,

ministri e messaggier di vita etterna.

Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!',

e fior gittando e di sopra e dintorno,

'Manibus, oh, date lilïa plenis!'.

Io vidi già nel cominciar del giorno

la parte orïental tutta rosata,

e l'altro ciel di bel sereno addorno;

e la faccia del sol nascere ombrata,

sì che per temperanza di vapori

l'occhio la sostenea lunga fïata:

così dentro una nuvola di fiori

che da le mani angeliche saliva

e ricadeva in giù dentro e di fori,

sovra candido vel cinta d'uliva

donna m'apparve, sotto verde manto

vestita di color di fiamma viva.

E lo spirito mio, che già cotanto

tempo era stato ch'a la sua presenza

non era di stupor, tremando, affranto,

sanza de li occhi aver più conoscenza,

per occulta virtù che da lei mosse,

d'antico amor sentì la gran potenza.

Tosto che ne la vista mi percosse

l'alta virtù che già m'avea trafitto

prima ch'io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra col respitto

col quale il fantolin corre a la mamma

quando ha paura o quando elli è afflitto,

per dicere a Virgilio: 'Men che dramma

di sangue m'è rimaso che non tremi:

conosco i segni de l'antica fiamma'.

Ma Virgilio n'avea lasciati scemi

di sé, Virgilio dolcissimo patre,

Virgilio a cui per mia salute die'mi;

né quantunque perdeo l'antica matre,

valse a le guance nette di rugiada

che, lagrimando, non tornasser atre.

«Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora;

ché pianger ti conven per altra spada».

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora

viene a veder la gente che ministra

per li altri legni, e a ben far l'incora;

in su la sponda del carro sinistra,

quando mi volsi al suon del nome mio,

che di necessità qui si registra,

vidi la donna che pria m'appario

velata sotto l'angelica festa,

drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.

Tutto che 'l vel che le scendea di testa,

cerchiato de le fronde di Minerva,

non la lasciasse parer manifesta,

regalmente ne l'atto ancor proterva

continüò come colui che dice

e 'l più caldo parlar dietro reserva:

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.

Come degnasti d'accedere al monte?

non sapei tu che qui è l'uom felice?».

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;

ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba,

tanta vergogna mi gravò la fronte.

Così la madre al figlio par superba,

com' ella parve a me; perché d'amaro

sente il sapor de la pietade acerba.

Ella si tacque; e li angeli cantaro

di sùbito 'In te, Domine, speravi';

ma oltre 'pedes meos' non passaro.

Sì come neve tra le vive travi

per lo dosso d'Italia si congela,

soffiata e stretta da li venti schiavi,

poi, liquefatta, in sé stessa trapela,

pur che la terra che perde ombra spiri,

sì che par foco fonder la candela;

così fui sanza lagrime e sospiri

anzi 'l cantar di quei che notan sempre

dietro a le note de li etterni giri;

ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre

lor compatire a me, par che se detto

avesser: 'Donna, perché sì lo stempre?',

lo gel che m'era intorno al cor ristretto,

spirito e acqua fessi, e con angoscia

de la bocca e de li occhi uscì del petto.

Ella, pur ferma in su la detta coscia

del carro stando, a le sustanze pie

volse le sue parole così poscia:

«Voi vigilate ne l'etterno die,

sì che notte né sonno a voi non fura

passo che faccia il secol per sue vie;

onde la mia risposta è con più cura

che m'intenda colui che di là piagne,

perché sia colpa e duol d'una misura.

Non pur per ovra de le rote magne,

che drizzan ciascun seme ad alcun fine

secondo che le stelle son compagne,

ma per larghezza di grazie divine,

che sì alti vapori hanno a lor piova,

che nostre viste là non van vicine,

questi fu tal ne la sua vita nova

virtüalmente, ch'ogne abito destro

fatto averebbe in lui mirabil prova.

Ma tanto più maligno e più silvestro

si fa 'l terren col mal seme e non cólto,

quant' elli ha più di buon vigor terrestro.

Alcun tempo il sostenni col mio volto:

mostrando li occhi giovanetti a lui,

meco il menava in dritta parte vòlto.

Sì tosto come in su la soglia fui

di mia seconda etade e mutai vita,

questi si tolse a me, e diessi altrui.

Quando di carne a spirto era salita,

e bellezza e virtù cresciuta m'era,

fu' io a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,

imagini di ben seguendo false,

che nulla promession rendono intera.

Né l'impetrare ispirazion mi valse,

con le quali e in sogno e altrimenti

lo rivocai: sì poco a lui ne calse!

Tanto giù cadde, che tutti argomenti

a la salute sua eran già corti,

fuor che mostrarli le perdute genti.

Per questo visitai l'uscio d'i morti,

e a colui che l'ha qua sù condotto,

li preghi miei, piangendo, furon porti.

Alto fato di Dio sarebbe rotto,

se Letè si passasse e tal vivanda

fosse gustata sanza alcuno scotto

di pentimento che lagrime spanda».

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