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martes, 18 de agosto de 2020

Inferno, Canto X

CANTO X

[Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.]

Ora sen va per un secreto calle,

tra 'l muro de la terra e li martìri,

lo mio maestro, e io dopo le spalle.

«O virtù somma, che per li empi giri

mi volvi», cominciai, «com' a te piace,

parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace

potrebbesi veder? già son levati

tutt' i coperchi, e nessun guardia face».

E quelli a me: «Tutti saran serrati

quando di Iosafàt qui torneranno

coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno

con Epicuro tutti suoi seguaci,

che l'anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci

quinc' entro satisfatto sarà tosto,

e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto

a te mio cuor se non per dicer poco,

e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».

«O Tosco che per la città del foco

vivo ten vai così parlando onesto,

piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto

di quella nobil patrïa natio,

a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo

d'una de l'arche; però m'accostai,

temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?

Vedi là Farinata che s'è dritto:

da la cintola in sù tutto 'l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;

ed el s'ergea col petto e con la fronte

com' avesse l'inferno a gran dispitto.

E l'animose man del duca e pronte

mi pinser tra le sepulture a lui,

dicendo: «Le parole tue sien conte».

Com' io al piè de la sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,

mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch'era d'ubidir disideroso,

non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;

ond' ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,

sì che per due fïate li dispersi».

«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,

rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;

ma i vostri non appreser ben quell' arte».

Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra,

lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento

avesse di veder s'altri era meco;

e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: «Se per questo cieco

carcere vai per altezza d'ingegno,

mio figlio ov' è? e perché non è teco?».

E io a lui: «Da me stesso non vegno:

colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

Le sue parole e 'l modo de la pena

m'avean di costui già letto il nome;

però fu la risposta così piena.

Di sùbito drizzato gridò: «Come?

dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?

non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

Quando s'accorse d'alcuna dimora

ch'io facëa dinanzi a la risposta,

supin ricadde e più non parve fora.

Ma quell' altro magnanimo, a cui posta

restato m'era, non mutò aspetto,

né mosse collo, né piegò sua costa;

e sé continüando al primo detto,

«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa

la faccia de la donna che qui regge,

che tu saprai quanto quell' arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,

dimmi: perché quel popolo è sì empio

incontr' a' miei in ciascuna sua legge?».

Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,

«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo

sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu' io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,

colui che la difesi a viso aperto».

«Deh, se riposi mai vostra semenza»,

prega' io lui, «solvetemi quel nodo

che qui ha 'nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,

dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,

e nel presente tenete altro modo».

«Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose»,

disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s'appressano o son, tutto è vano

nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,

nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta

fia nostra conoscenza da quel punto

che del futuro fia chiusa la porta».

Allor, come di mia colpa compunto, dissi:

«Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;

e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,

fate i saper che 'l fei perché pensava

già ne l'error che m'avete soluto».

E già 'l maestro mio mi richiamava;

per ch'i' pregai lo spirto più avaccio

che mi dicesse chi con lu' istava.

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:

qua dentro è 'l secondo Federico

e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».

Indi s'ascose; e io inver' l'antico

poeta volsi i passi, ripensando

a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,

mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».

E io li sodisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel ch'udito

hai contra te», mi comandò quel saggio;

«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio

di quella il cui bell' occhio tutto vede,

da lei saprai di tua vita il vïaggio».

Appresso mosse a man sinistra il piede:

lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede,

che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

Inferno, Canto IX

CANTO IX

[Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra fiata.]

Quel color che viltà di fuor mi pinse

veggendo il duca mio tornare in volta,

più tosto dentro il suo novo ristrinse.

Attento si fermò com' uom ch'ascolta;

ché l'occhio nol potea menare a lunga

per l'aere nero e per la nebbia folta.

«Pur a noi converrà vincer la punga»,

cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.

Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».

I' vidi ben sì com' ei ricoperse

lo cominciar con l'altro che poi venne,

che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,

perch' io traeva la parola tronca

forse a peggior sentenzia che non tenne.

«In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado,

che sol per pena ha la speranza cionca?».

Questa question fec' io; e quei «Di rado incontra»,

mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado.

Ver è ch'altra fïata qua giù fui,

congiurato da quella Eritón cruda

che richiamava l'ombre a' corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,

ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,

per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro,

e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:

ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.

Questa palude che 'l gran puzzo spira

cigne dintorno la città dolente,

u' non potemo intrare omai sanz' ira».

E altro disse, ma non l'ho a mente;

però che l'occhio m'avea tutto tratto

ver' l'alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto

tre furïe infernal di sangue tinte,

che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;

serpentelli e ceraste avien per crine,

onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine

de la regina de l'etterno pianto,

«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

Quest' è Megera dal sinistro canto;

quella che piange dal destro è Aletto;

Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;

battiensi a palme e gridavan sì alto,

ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

«Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto»,

dicevan tutte riguardando in giuso;

«mal non vengiammo in Tesëo l'assalto».

«Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso».

Così disse 'l maestro; ed elli stessi

mi volse, e non si tenne a le mie mani,

che con le sue ancor non mi chiudessi.

O voi ch'avete li 'ntelletti sani,

mirate la dottrina che s'asconde

sotto 'l velame de li versi strani.

E già venìa su per le torbide onde

un fracasso d'un suon, pien di spavento,

per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d'un vento

impetüoso per li avversi ardori,

che fier la selva e sanz' alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;

dinanzi polveroso va superbo,

e fa fuggir le fiere e li pastori.

Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo».

Come le rane innanzi a la nimica

biscia per l'acqua si dileguan tutte,

fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

vid' io più di mille anime distrutte

fuggir così dinanzi ad un ch'al passo

passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell' aere grasso,

menando la sinistra innanzi spesso;

e sol di quell' angoscia parea lasso.

Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,

e volsimi al maestro; e quei fé segno

ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Venne a la porta e con una verghetta

l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

«O cacciati del ciel, gente dispetta»,

cominciò elli in su l'orribil soglia,

«ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?

Perché recalcitrate a quella voglia

a cui non puote il fin mai esser mozzo,

e che più volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,

ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».

Poi si rivolse per la strada lorda,

e non fé motto a noi, ma fé sembiante

d'omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li è davante;

e noi movemmo i piedi inver' la terra,

sicuri appresso le parole sante.

Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;

e io, ch'avea di riguardar disio

la condizion che tal fortezza serra,

com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:

e veggio ad ogne man grande campagna,

piena di duolo e di tormento rio.

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,

sì com' a Pola, presso del Carnaro

ch'Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt' il loco varo,

così facevan quivi d'ogne parte,

salvo che 'l modo v'era più amaro;

ché tra li avelli fiamme erano sparte,

per le quali eran sì del tutto accesi,

che ferro più non chiede verun' arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,

e fuor n'uscivan sì duri lamenti,

che ben parean di miseri e d'offesi.

E io: «Maestro, quai son quelle genti

che, seppellite dentro da quell' arche,

si fan sentir coi sospiri dolenti?».

E quelli a me: «Qui son li eresïarche

con lor seguaci, d'ogne setta, e molto

più che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile è sepolto,

e i monimenti son più e men caldi».

E poi ch'a la man destra si fu vòlto,

passammo tra i martìri e li alti spaldi.

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