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jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XX

CANTO XX

[Canto XX, nel quale ancora suonano nel becco de l'Aquila certe parole per le quali apprende di conoscere alcuni di quelli spirti de li quali quella Aquila è composta.]

Quando colui che tutto 'l mondo alluma

de l'emisperio nostro sì discende,

che 'l giorno d'ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s'accende,

subitamente si rifà parvente

per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne amente,

come 'l segno del mondo e de' suoi duci

nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,

vie più lucendo, cominciaron canti

da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t'ammanti,

quanto parevi ardente in que' flailli,

ch'avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli

ond' io vidi ingemmato il sesto lume

puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume

che scende chiaro giù di pietra in pietra,

mostrando l'ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra

prende sua forma, e sì com' al pertugio

de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d'aspettare indugio,

quel mormorar de l'aguglia salissi

su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi

per lo suo becco in forma di parole,

quali aspettava il core ov' io le scrissi.

«La parte in me che vede e pate il sole

ne l'aguglie mortali», incominciommi,

«or fisamente riguardar si vole,

perché d'i fuochi ond' io figura fommi,

quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,

e' di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,

fu il cantor de lo Spirito Santo,

che l'arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,

in quanto effetto fu del suo consiglio,

per lo remunerar ch'è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,

colui che più al becco mi s'accosta,

la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa

non seguir Cristo, per l'esperïenza

di questa dolce vita e de l'opposta.

E quel che segue in la circunferenza

di che ragiono, per l'arco superno,

morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che 'l giudicio etterno

non si trasmuta, quando degno preco

fa crastino là giù de l'odïerno.

L'altro che segue, con le leggi e meco,

sotto buona intenzion che fé mal frutto,

per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto

dal suo bene operar non li è nocivo,

avvegna che sia 'l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l'arco declivo,

Guiglielmo fu, cui quella terra plora

che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s'innamora

lo ciel del giusto rege, e al sembiante

del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante

che Rifëo Troiano in questo tondo

fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che 'l mondo

veder non può de la divina grazia,

ben che sua vista non discerna il fondo».

Quale allodetta che 'n aere si spazia

prima cantando, e poi tace contenta

de l'ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta

de l'etterno piacere, al cui disio

ciascuna cosa qual ell' è diventa.

E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio

lì quasi vetro a lo color ch'el veste,

tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,

mi pinse con la forza del suo peso:

per ch'io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l'occhio più acceso,

lo benedetto segno mi rispuose

per non tenermi in ammirar sospeso:

«Io veggio che tu credi queste cose

perch' io le dico, ma non vedi come;

sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome

apprende ben, ma la sua quiditate

veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum vïolenza pate

da caldo amore e da viva speranza,

che vince la divina volontate:

non a guisa che l'omo a l'om sobranza,

ma vince lei perché vuole esser vinta,

e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta

ti fa maravigliar, perché ne vedi

la regïon de li angeli dipinta.

D'i corpi suoi non uscir, come credi,

Gentili, ma Cristiani, in ferma fede

quel d'i passuri e quel d'i passi piedi.

Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riede

già mai a buon voler, tornò a l'ossa;

e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa

ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,

sì che potesse sua voglia esser mossa.

L'anima glorïosa onde si parla,

tornata ne la carne, in che fu poco,

credette in lui che potëa aiutarla;

e credendo s'accese in tanto foco

di vero amor, ch'a la morte seconda

fu degna di venire a questo gioco.

L'altra, per grazia che da sì profonda

fontana stilla, che mai creatura

non pinse l'occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:

per che, di grazia in grazia, Dio li aperse

l'occhio a la nostra redenzion futura;

ond' ei credette in quella, e non sofferse

da indi il puzzo più del paganesmo;

e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo

che tu vedesti da la destra rota,

dinanzi al battezzar più d'un millesmo.

O predestinazion, quanto remota

è la radice tua da quelli aspetti

che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti

a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,

non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,

perché il ben nostro in questo ben s'affina,

che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Così da quella imagine divina,

per farmi chiara la mia corta vista,

data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista

fa seguitar lo guizzo de la corda,

in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda

ch'io vidi le due luci benedette,

pur come batter d'occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.

martes, 25 de agosto de 2020

Paradiso, Canto VI

CANTO VI

[Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore sotto brevità narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la 'nsegna de l'aquila, da l'avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte Ramondo Berlinghieri di Proenza.]

«Poscia che Costantin l'aquila volse

contr' al corso del ciel, ch'ella seguio

dietro a l'antico che Lavina tolse,

cento e cent' anni e più l'uccel di Dio

ne lo stremo d'Europa si ritenne,

vicino a' monti de' quai prima uscìo;

e sotto l'ombra de le sacre penne

governò 'l mondo lì di mano in mano,

e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustinïano,

che, per voler del primo amor ch'i' sento,

d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.

E prima ch'io a l'ovra fossi attento,

una natura in Cristo esser, non piùe,

credea, e di tal fede era contento;

ma 'l benedetto Agapito, che fue

sommo pastore, a la fede sincera

mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,

vegg' io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,

a Dio per grazia piacque di spirarmi

l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l'armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta,

che segno fu ch'i' dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s'appunta

la mia risposta; ma sua condizione

mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione

si move contr' al sacrosanto segno

e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone.

Vedi quanta virtù l'ha fatto degno

di reverenza; e cominciò da l'ora

che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora

per trecento anni e oltre, infino al fine

che i tre a' tre pugnar per lui ancora.

E sai ch'el fé dal mal de le Sabine

al dolor di Lucrezia in sette regi,

vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch'el fé portato da li egregi

Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,

incontro a li altri principi e collegi;

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro

negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi

ebber la fama che volontier mirro.

Esso atterrò l'orgoglio de li Aràbi

che di retro ad Anibale passaro

l'alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Sott' esso giovanetti trïunfaro

Scipïone e Pompeo; e a quel colle

sotto 'l qual tu nascesti parve amaro.

Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle

redur lo mondo a suo modo sereno,

Cesare per voler di Roma il tolle.

E quel che fé da Varo infino a Reno,

Isara vide ed Era e vide Senna

e ogne valle onde Rodano è pieno.

Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,

che nol seguiteria lingua né penna.

Inver' la Spagna rivolse lo stuolo,

poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse

sì ch'al Nil caldo si sentì del duolo.

Antandro e Simeonta, onde si mosse,

rivide e là dov' Ettore si cuba;

e mal per Tolomeo poscia si scosse.

Da indi scese folgorando a Iuba;

onde si volse nel vostro occidente,

ove sentia la pompeana tuba.

Di quel che fé col baiulo seguente,

Bruto con Cassio ne l'inferno latra,

e Modena e Perugia fu dolente.

Piangene ancor la trista Cleopatra,

che, fuggendoli innanzi, dal colubro

la morte prese subitana e atra.

Con costui corse infino al lito rubro;

con costui puose il mondo in tanta pace,

che fu serrato a Giano il suo delubro.

Ma ciò che 'l segno che parlar mi face

fatto avea prima e poi era fatturo

per lo regno mortal ch'a lui soggiace,

diventa in apparenza poco e scuro,

se in mano al terzo Cesare si mira

con occhio chiaro e con affetto puro;

ché la viva giustizia che mi spira,

li concedette, in mano a quel ch'i' dico,

gloria di far vendetta a la sua ira.

Or qui t'ammira in ciò ch'io ti replìco:

poscia con Tito a far vendetta corse

de la vendetta del peccato antico.

E quando il dente longobardo morse

la Santa Chiesa, sotto le sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Omai puoi giudicar di quei cotali

ch'io accusai di sopra e di lor falli,

che son cagion di tutti vostri mali.

L'uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l'altro appropria quello a parte,

sì ch'è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte

sott' altro segno, ché mal segue quello

sempre chi la giustizia e lui diparte;

e non l'abbatta esto Carlo novello

coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli

ch'a più alto leon trasser lo vello.

Molte fïate già pianser li figli

per la colpa del padre, e non si creda

che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli!

Questa picciola stella si correda

d'i buoni spirti che son stati attivi

perché onore e fama li succeda:

e quando li disiri poggian quivi,

sì disvïando, pur convien che i raggi

del vero amore in sù poggin men vivi.

Ma nel commensurar d'i nostri gaggi

col merto è parte di nostra letizia,

perché non li vedem minor né maggi.

Quindi addolcisce la viva giustizia

in noi l'affetto sì, che non si puote

torcer già mai ad alcuna nequizia.

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote.

E dentro a la presente margarita

luce la luce di Romeo, di cui

fu l'ovra grande e bella mal gradita.

Ma i Provenzai che fecer contra lui

non hanno riso; e però mal cammina

qual si fa danno del ben fare altrui.

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,

Ramondo Beringhiere, e ciò li fece

Romeo, persona umìle e peregrina.

E poi il mosser le parole biece

a dimandar ragione a questo giusto,

che li assegnò sette e cinque per diece,

indi partissi povero e vetusto;

e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe

mendicando sua vita a frusto a frusto,

assai lo loda, e più lo loderebbe».

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