Mostrando entradas con la etiqueta Tosco. Mostrar todas las entradas
Mostrando entradas con la etiqueta Tosco. Mostrar todas las entradas

sábado, 22 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XVI

CANTO XVI

[Canto XVI, dove si tratta del sopradetto terzo girone e del purgare la detta colpa de l'ira; e qui Marco Lombardo solve uno dubbio a Dante.]

Buio d'inferno e di notte privata

d'ogne pianeto, sotto pover cielo,

quant' esser può di nuvol tenebrata,

non fece al viso mio sì grosso velo

come quel fummo ch'ivi ci coperse,

né a sentir di così aspro pelo,

che l'occhio stare aperto non sofferse;

onde la scorta mia saputa e fida

mi s'accostò e l'omero m'offerse.

Sì come cieco va dietro a sua guida

per non smarrirsi e per non dar di cozzo

in cosa che 'l molesti, o forse ancida,

m'andava io per l'aere amaro e sozzo,

ascoltando il mio duca che diceva

pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».

Io sentia voci, e ciascuna pareva

pregar per pace e per misericordia

l'Agnel di Dio che le peccata leva.

Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia;

una parola in tutte era e un modo,

sì che parea tra esse ogne concordia.

«Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?»,

diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,

e d'iracundia van solvendo il nodo».

«Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi,

e di noi parli pur come se tue

partissi ancor lo tempo per calendi?».

Così per una voce detto fue;

onde 'l maestro mio disse: «Rispondi,

e domanda se quinci si va sùe».

E io: «O creatura che ti mondi

per tornar bella a colui che ti fece,

maraviglia udirai, se mi secondi».

«Io ti seguiterò quanto mi lece»,

rispuose; «e se veder fummo non lascia,

l'udir ci terrà giunti in quella vece».

Allora incominciai: «Con quella fascia

che la morte dissolve men vo suso,

e venni qui per l'infernale ambascia.

E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso,

tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte

per modo tutto fuor del moderno uso,

non mi celar chi fosti anzi la morte,

ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco;

e tue parole fier le nostre scorte».

«Lombardo fui, e fu' chiamato Marco;

del mondo seppi, e quel valore amai

al quale ha or ciascun disteso l'arco.

Per montar sù dirittamente vai».

Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego

che per me prieghi quando sù sarai».

E io a lui: «Per fede mi ti lego

di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio

dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego.

Prima era scempio, e ora è fatto doppio

ne la sentenza tua, che mi fa certo

qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio.

Lo mondo è ben così tutto diserto

d'ogne virtute, come tu mi sone,

e di malizia gravido e coverto;

ma priego che m'addite la cagione,

sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui;

ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».

Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,

mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,

lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

Voi che vivete ogne cagion recate

pur suso al cielo, pur come se tutto

movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto

libero arbitrio, e non fora giustizia

per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo cielo i vostri movimenti inizia;

non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica,

lume v'è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica

ne le prime battaglie col ciel dura,

poi vince tutto, se ben si notrica.

A maggior forza e a miglior natura

liberi soggiacete; e quella cria

la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.

Però, se 'l mondo presente disvia,

in voi è la cagione, in voi si cheggia;

e io te ne sarò or vera spia.

Esce di mano a lui che la vagheggia

prima che sia, a guisa di fanciulla

che piangendo e ridendo pargoleggia,

l'anima semplicetta che sa nulla,

salvo che, mossa da lieto fattore,

volontier torna a ciò che la trastulla.

Di picciol bene in pria sente sapore;

quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,

se guida o fren non torce suo amore.

Onde convenne legge per fren porre;

convenne rege aver, che discernesse

de la vera cittade almen la torre.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Nullo, però che 'l pastor che procede,

rugumar può, ma non ha l'unghie fesse;

per che la gente, che sua guida vede

pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta,

di quel si pasce, e più oltre non chiede.

Ben puoi veder che la mala condotta

la cagion che 'l mondo ha fatto reo,

e non natura che 'n voi sia corrotta.

Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,

due soli aver, che l'una e l'altra strada

facean vedere, e del mondo e di Deo.

L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada

col pasturale, e l'un con l'altro insieme

per viva forza mal convien che vada;

però che, giunti, l'un l'altro non teme:

se non mi credi, pon mente a la spiga,

ch'ogn' erba si conosce per lo seme.

In sul paese ch'Adice e Po riga,

solea valore e cortesia trovarsi,

prima che Federigo avesse briga;

or può sicuramente indi passarsi

per qualunque lasciasse, per vergogna,

di ragionar coi buoni o d'appressarsi.

Ben v'èn tre vecchi ancora in cui rampogna

l'antica età la nova, e par lor tardo

che Dio a miglior vita li ripogna:

Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo

e Guido da Castel, che mei si noma,

francescamente, il semplice Lombardo.

Dì oggimai che la Chiesa di Roma,

per confondere in sé due reggimenti,

cade nel fango, e sé brutta e la soma».

«O Marco mio», diss' io, «bene argomenti;

e or discerno perché dal retaggio

li figli di Levì furono essenti.

Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio

di' ch'è rimaso de la gente spenta,

in rimprovèro del secol selvaggio?».

«O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta»,

rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,

par che del buon Gherardo nulla senta.

Per altro sopranome io nol conosco,

s'io nol togliessi da sua figlia Gaia.

Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.

Vedi l'albor che per lo fummo raia

già biancheggiare, e me convien partirmi

(l'angelo è ivi) prima ch'io li paia».

Così tornò, e più non volle udirmi.

viernes, 21 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XI

CANTO XI

[Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de' superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch'è uno de' rami de la superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani di Siena e molti altri.]

«O Padre nostro, che ne' cieli stai,

non circunscritto, ma per più amore

ch'ai primi effetti di là sù tu hai,

laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore

da ogne creatura, com' è degno

di render grazie al tuo dolce vapore.

Vegna ver' noi la pace del tuo regno,

ché noi ad essa non potem da noi,

s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.

Come del suo voler li angeli tuoi

fan sacrificio a te, cantando osanna,

così facciano li uomini de' suoi.

Dà oggi a noi la cotidiana manna,

sanza la qual per questo aspro diserto

a retro va chi più di gir s'affanna.

E come noi lo mal ch'avem sofferto

perdoniamo a ciascuno, e tu perdona

benigno, e non guardar lo nostro merto.

Nostra virtù che di legger s'adona,

non spermentar con l'antico avversaro,

ma libera da lui che sì la sprona.

Quest' ultima preghiera, segnor caro,

già non si fa per noi, ché non bisogna,

ma per color che dietro a noi restaro».

Così a sé e noi buona ramogna

quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo,

simile a quel che talvolta si sogna,

disparmente angosciate tutte a tondo

e lasse su per la prima cornice,

purgando la caligine del mondo.

Se di là sempre ben per noi si dice,

di qua che dire e far per lor si puote

da quei c'hanno al voler buona radice?

Ben si de' loro atar lavar le note

che portar quinci, sì che, mondi e lievi,

possano uscire a le stellate ruote.

«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi

tosto, sì che possiate muover l'ala,

che secondo il disio vostro vi lievi,

mostrate da qual mano inver' la scala

si va più corto; e se c'è più d'un varco,

quel ne 'nsegnate che men erto cala;

ché questi che vien meco, per lo 'ncarco

de la carne d'Adamo onde si veste,

al montar sù, contra sua voglia, è parco».

Le lor parole, che rendero a queste

che dette avea colui cu' io seguiva,

non fur da cui venisser manifeste;

ma fu detto: «A man destra per la riva

con noi venite, e troverete il passo

possibile a salir persona viva.

E s'io non fossi impedito dal sasso

che la cervice mia superba doma,

onde portar convienmi il viso basso,

cotesti, ch'ancor vive e non si noma,

guardere' io, per veder s'i' 'l conosco,

e per farlo pietoso a questa soma.

Io fui latino e nato d'un gran Tosco:

Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;

non so se 'l nome suo già mai fu vosco.

L'antico sangue e l'opere leggiadre

d'i miei maggior mi fer sì arrogante,

che, non pensando a la comune madre,

ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante,

ch'io ne mori', come i Sanesi sanno,

e sallo in Campagnatico ogne fante.

Io sono Omberto; e non pur a me danno

superbia fa, ché tutti miei consorti

ha ella tratti seco nel malanno.

E qui convien ch'io questo peso porti

per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,

poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti».

Ascoltando chinai in giù la faccia;

e un di lor, non questi che parlava,

si torse sotto il peso che li 'mpaccia,

e videmi e conobbemi e chiamava,

tenendo li occhi con fatica fisi

a me che tutto chin con loro andava.

«Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi,

l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte

ch'alluminar chiamata è in Parisi?».

«Frate», diss' elli, «più ridon le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l'onore è tutto or suo, e mio in parte.

Ben non sare' io stato sì cortese

mentre ch'io vissi, per lo gran disio

de l'eccellenza ove mio core intese.

Di tal superbia qui si paga il fio;

e ancor non sarei qui, se non fosse

che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

Oh vana gloria de l'umane posse!

com' poco verde in su la cima dura,

se non è giunta da l'etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l'uno a l'altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è nato

chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch'un fiato

di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,

e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi

da te la carne, che se fossi morto

anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',

pria che passin mill' anni? ch'è più corto

spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia

al cerchio che più tardi in cielo è torto.

Colui che del cammin sì poco piglia

dinanzi a me, Toscana sonò tutta;

e ora a pena in Siena sen pispiglia,

ond' era sire quando fu distrutta

la rabbia fiorentina, che superba

fu a quel tempo sì com' ora è putta.

La vostra nominanza è color d'erba,

che viene e va, e quei la discolora

per cui ella esce de la terra acerba».

E io a lui: «Tuo vero dir m'incora

bona umiltà, e gran tumor m'appiani;

ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».

«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;

ed è qui perché fu presuntüoso

a recar Siena tutta a le sue mani.

Ito è così e va, sanza riposo,

poi che morì; cotal moneta rende

a sodisfar chi è di là troppo oso».

E io: «Se quello spirito ch'attende,

pria che si penta, l'orlo de la vita,

qua giù dimora e qua sù non ascende,

se buona orazïon lui non aita,

prima che passi tempo quanto visse,

come fu la venuta lui largita?».

«Quando vivea più glorïoso», disse,

«liberamente nel Campo di Siena,

ogne vergogna diposta, s'affisse;

e lì, per trar l'amico suo di pena,

ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo,

si condusse a tremar per ogne vena.

Più non dirò, e scuro so che parlo;

ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini

faranno sì che tu potrai chiosarlo.

Quest' opera li tolse quei confini».

Portfolio

       Ramón Guimerá Lorente Beceite blog, Beseit Beseit en chapurriau yo parlo lo chapurriau  y lo escric Chapurriau al Wordpress Lo Decame...