sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO DECIMOQUINTO

CANTO DECIMOQUINTO

[Lez. LVI]

«Ora cen porta l'un de' duri margini», ecc. Continuasi l'autore al precedente canto, in quanto nella fine d'esso mostra che gli argini di quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l'uno delli detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti: nella prima discrive l'autore la qualitá del luogo, e massimamente degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con alcuna dimostrazion d'esempli, ad intendere; nella seconda dimostra come da una schiera d'anime dannate in quel luogo guatato fosse, e riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá eravam dalla selva».

Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l'un de' duri margini». E in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono, ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi, se medesimi portando, andavano su per l'uno de' detti margini. E dice «l'uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due. E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello, erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo 'ncendio delle fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E 'l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l'acqua e gli argini», infra li quali s'inchiude. E sono questi argini grotte fatte per forza alle rive de' fiumi, accioché, crescendo essi, l'acqua non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente dicendo:

«Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l'isola d'Inghilterra; «Temendo 'l fiotto», del mare, «che ver'lor s'avventa», sospinto dall'impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti, «perché 'l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne' detti margini, senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí naturale, si muove due volte di levante inver'ponente, e altrettante si torna di ponente inver'levante; e quando di ver'levante viene inver'ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»: e questo è quello del quale l'autore intende qui, e contro al quale dice che i fiamminghi fanno riparo.

Appresso dimostra l'autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che, dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova infino al Friuli, e quella da' suoi eneti, aggiunta una lettera al nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale è una regione posta nell'Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali non si risolvono infino a tanto che l'aere non riscalda, del mese di maggio o all'uscita d'aprile; e allora, risolvendosi, cascano l'acque di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale v'ha grandissima quantitá. E perciò dice l'autore che i padovani, cioè quegli del distretto di Padova, fanno simiglianti schermi che i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli», cioè i campi e' lavorii delle villate e delle castella, le quali per lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la quale s'appropinqua. E, questi due esempli posti. dice che «A tale immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e' padovani, «Qual che si fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.

«Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch'io non avrei visto», cioè veduto, «dov'era, Per ch'io 'ndietro rivolto mi fossi», a riguardare; e ciò fu «Quando incontrammo d'anime», dannate, «una schiera», cioè molte, «Che venien lungo l'argine», sopra'l quale andavamo, «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza delle cose bisognerebbe; «E sí», cioè e cosí, «ver'noi aguzzavan le ciglia. Come vecchio sartor fa nella «runa», dell'ago, quando il vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia, percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava, «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: - «Qual maraviglia?» - (supple), è questa che io ti veggio qui.

«Ed io, quando 'l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato dall'incendio, il quale continuamente cadea; «Sí» gli occhi ficcai, «che'l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese», cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto; E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi: - Siete voi qui, ser Brunetto?»- quasi parlando admirative.

«E quegli» (supple) pregò dicendo: - «O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave, «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d'aver me alquanto teco.

Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá fu notaría, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare d'avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato Il tesoretto, se n'andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò Il tesoro; e ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l'autore il conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive, dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.

Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura alquanto innanzi l'autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia andar la traccia», - di queste anime, le quali tutte ti riguardano, le qual forse l'autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.

«Io dissi lui: - Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto insieme; «E se volete che con voi m'asseggia», cioè ristea, «Faròl, se piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e maestro.

«O figliuol - disse» ser Brunetto - «qual di questa greggia», cioè di questa brigata, «S'arresta punto, giace poi cent'anni Senza arrostarsi, quando» (
supple) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca. «Però va' oltre: io ti verrò a' panni», cioè appresso, «E poi», che io avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi eterni danni», - cioè il suo perpetuo tormento.

«Io non osava scender della strada», cioè dell'argine, «Per andar par di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di lui fosse disceso; «ma 'l capo chino Tenea», verso di lui, «com'», il tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.

«El cominciò: - Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino» sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l'ultimo dí», cioè anzi la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che mostra 'l cammino?» -

Alla qual domanda l'autor risponde: - «Lassú di sopra in la vita serena», - cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo luogo, «Rispuos'io lui, - mi smarri' in una valle».

Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice «mi smarri'», non dice mi «perde'», per darne a sentire che le cose perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro, li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l'hanno smarrita per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêntere e ravvedere, la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l'autore, che non era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi smarrí' in una valle».

E dice che vi si smarrí: «Avanti che l'etá mia fosse piena».

Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo quinto continuamente, o alla statura dell'uomo, o alle forze corporali s'aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l'etá dell'uomo «piena». Dice adunque l'autore che esso, avanti che egli a questa etá pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena pervenuto, si ravvedesse d'avere smarrita la via diritta e ritornasse in quella.

«Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d'essa: e qui dimostra esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.

«Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m'apparve, ritornando», io, «in quella», valle, sí come uomo spaventato dalle tre bestie che davanti mi s'erano parate, «E riducemi a ca'», cioè a casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l'anime nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo sí come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione, è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena, mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per questo calle», - cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla chiarezza della veritá.

«Ed egli a me: - Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole l'autore l'opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella nativitá d'alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per cui fanno la elevazione. E tra l'altre cose che essi piú puntalmente riguardano, è l'ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá predetta sale sopra l'orizzonte orientale della regione; e, avuto questo grado, considerano qual de' sette pianeti è piú potente in esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel dicono essere signore dell'ascendente e significatore della nativitá. E secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia, la quale allora v'ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è stata fatta. E però vuol qui l'autore mostrare che la sua stella, cioè il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu déi adoperare, senza stôrti da ciò per caso che t'avvegna, tu «Non puoi fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá, ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto dovergli avvenire: «Se ben m'accorsi nella vita bella», cioè nella presente.

E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare che esso fosse astrolago, e per quell'arte comprendesse ne' corpi superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser Brunetto, sí come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli costumi e gli studi dell'autore esser tali, che di lui si dovesse quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle, quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.

«E s'io non fossi sí per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno», intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale per la scienza si perviene. «Dato t'avrei all'opera conforto», sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per te non potevi cognoscere.

E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la cagione, mostrando quella essere tale, che la 'ngiuria della fortuna, la quale gli s'apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E dice: «Ma quello 'ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da esso fatte verso coloro li quali l'avevano servito e onorato, e quasi trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque cittá, accioché di tutti i fiorentini non s'intenda esser questa infamia d'ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».

Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de' discendenti di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d'Europa: la qual cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse l'edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma, fu per li romani disfatta, e parte de' suoi cittadini ne vennero ad abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che, in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell'antica lor cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano Firenze essere stata contro al piacere de' fiesolani reedificata, e abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono de' discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta, l'abitavano.

Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra' fiesolani e' fiorentini, le quali all'una parte e all'altra rincrescendo, vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e sicuramente usavano l'uno nella cittá dell'altro. Sotto la qual sicurtá i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiatisi i fiesolani con loro di dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono, insieme s'unirono. Nondimeno mostra qui l'autore, quella acerbezza antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in discendente de' fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti si fará, per tuo ben far, nemico», sí come quello al quale è in odio la vertú e l'operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico, seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol sotto questa metafora l'autore intendere non esser convenevole che tra uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.

[Lez. LVII]

Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi. Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani al conquisto dell'isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor cittá quasi vòta d'abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi erano a que' tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di partire col detto comune la preda che dell'acquisto recassono. E, avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno, ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che posero dall'una parte le porti e dall'altra le due colonne coperte di scarlatto, e diedero le prese a' fiorentini, li quali, senza troppo avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate, e, accioché i fiorentini di ciò non s'accorgessono, le vestirono di scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de' fiorentini, esser loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all'animo questa essere stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono, appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si verificassero ne' nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!

Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere avarissimi appare ne' lor processi. E, se ad altro non apparisse, appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men possenti non si stendesse. Appresso, ne' publici offici si fa prima la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie, le baratterie, le simonie e l'altre disonestá moventi da quella; e, perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell'usure, delle falsitá, de' tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si comprende ne' nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta la mala ventura o essere per averla. Parsi ne' nostri ragionamenti, ne' quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l'opere laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne e' danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo, troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle 'mprese, e tanto di noi medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone; teneri piú che 'l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d'avvilirlo. De' quali vizi, esso permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che non siam noi, ci troviamo sgannati.

Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da' lor costumi fa' che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza, in amicizie di grandi uomini. «Che l'una parte e l'altra», cioè i fiesolani e' fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che cacciato t'avranno: «ma lungi fia dal becco l'erba», cioè l'effetto dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme», cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S'alcuna surge ancor nel lor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la qual somiglia al letame, percioché di sopra l'ha chiamate bestie; «In cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di que' roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio (ma in ciò non sono io con l'autore d'una medesima opinione, percioché infino a' tempi de' primi imperadori era Roma ripiena della feccia di tutto il mondo, ed era dagl'imperadori preposta a' nobili uomini antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo non indecentemente, avendo riguardo a' vizi de' quali ne mostra esser maculati.

«Se fosse tutto pieno il mio dimando - Rispos'io lui, - voi non sareste ancora. Dell'umana natura», la quale per eterna legge ciò che nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo dimanderebbe, perciò «Che in la mente m'è fitta», cioè con fermezza posta, «ed or m'accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora ad ora. Mi mostravate come l'uom s'eterna», per lo bene e valorosamente adoperare. E cosí mostra l'autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni, insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto io l'abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr'io vivo, Convien che nella mia lingua si scerna», percioché sempre 
loderò, sempre vi commenderò.

«Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna, «scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo», cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s'a lei arrivo», chiosare e dichiarare e l'altre cose e quelle che dette m'avete. «Tanto vogl'io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch'alla fortuna», cioè a' casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere. «Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata m'è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e 'l villan la sua marra». - Queste parole dice per quello che ser Brunetto gli ha detto de' fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali qui discrive in persona di villani, cioè d'uomini non cittadini, ma di villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani, come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano adopera la marra.

«Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra, si volse indietro, e riguardommi. Poi disse: - Bene ascolta», cioè non invano ascolta, «chi la nota», - con effetto, la parola la quale tu al presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.), volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di fare.

«Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co' quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per fama.

«Ed egli a me: - Saper d'alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa risposta alla domanda che l'autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi voglia ser Brunetto dire (sí come assai bene appare appresso): se io ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti furono uomini di nome e famosi. E, detto d'alcuno, «Degli altri fia laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v'ha si fatti uomini, che lo 'nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è, e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro, per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione n'assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché 'l tempo», che conceduto m'è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice: «In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati grandi e di gran fama, D'un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al mondo lerci», cioè brutti.

Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser maculati di questo male. Il che puote avvenire l'aver piú destro, e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l'usanza de' giovani non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine è abominevole molto]; e, per questo comodo,

questi cosí fatti uomini, cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro appetito non farebbono.

«Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due notabili libri: nell'uno trattò diffusamente e bene Delle parti dell'orazione, nell'altro sub brevitá trattò Delle costruzioni. Non lessi mai né udi' che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s'intendano coloro li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e per l'etá temorosi e ubbidienti, cosí a' disonesti come agli onesti comandamenti de' lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse volte incappino in questa colpa.

«E Francesco d'Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto, «S'avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.

Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini, e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer Accorso chiosò tutto 'l Corpo di ragion civile, e furon le sue chiose tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s'usano per chiose ordinarie nel Codice e negli altri libri legali. E questo messer Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove si crede che ultimamente morisse.

Appresso dice che ancora v'avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che dal servo de' servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue lettere chiama «servo de' servi di Dio». E questo titolo primieramente per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s'appartiene di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea, predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue Omelie appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá. Ma questo di cui qui l'autor dice, dice che «Fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione».

Dicesi costui essere stato un messer Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano nel vulgo; per opera di messer Tommaso de' Mozzi, suo fratello, il quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar dinanzi dagli occhi suoi e de' suoi cittadini tanta abominazione, fu permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza. Il che l'autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò», morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omóri corrotti, tutti i nervi della persona gli s'erano rattrappati, come in assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne' piedi; e cosí per questa parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono innanzi quando all'atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere dall'autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi malvagiamente gli protese.]

«Di piú direi, ma 'l venir», al pari di te, «e 'l sermone Piú lungo esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch'io veggio, Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione. Gente vien, con la quale esser non deggio».

[Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati, e non osa l'una schiera esser con l'altra; e senza dubbio differenza ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie d'animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando due d'un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l'uomo e la femmina, eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto o l'uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti, e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]

E, dovendosi partire dall'autore, ultimamente gli dice: «Sieti raccomandato il mio Tesoro», cioè il mio libro, il quale io composi in lingua francesca, chiamato Tesoro: e questo vuole gli sia raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori, né sperino mai quassú tornare, né d'inferno uscire, è pure da loro disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi, dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata, e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro grandissimi difetti, de' quali l'uno sta nello sciocco opinare che non sia guadagno altro che quello che empie la borsa de' denari; e l'altro sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa sia la dolcezza della fama. E perciò m'aggrada di rintuzzare alquanto l'opinione asinina di questi cotali.]

[Empiono la borsa o la cassa l'arti meccaniche, le mercatanzie, le leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l'antiche istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini, e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l'arche d'oro e d'argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del nome suo: e questo basti aver detto dell'antiche. Delle piú ricenti non so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d'alcuno che giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col corpo e col nome loro s'è morta e convertita in fummo, quasi non fosse stata.]

[Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a' nobili ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non dirizza l'appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni sua potenzia, che l'ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome del suo divoto componitore. E, se eterno far nol puote, gli dá almeno per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo, lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi e ancor ne' moderni. E' son passati oltre a duemila secento anni che Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua origine quistione: i re, gl'imperadori, e' sommi prencipi mondani hanno sempre il suo nome quasi quello d'una deitá onorato, e infino a' nostri dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi volumi, la gloria della sua fama.]

[Io lascerò stare i fulgidi nomi d'Euripide, d'Eschilo, di Simonide, di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti, li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono; per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d'un lutifigolo, con pari consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e sono l'opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé, e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma esse hanno con seco insieme infino ne' dí nostri fatta non solamente venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola, nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un santuario non visitino e onorino.]

[E, accioché io a' nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo il nome suo nelle bocche, non dico de' prencipi cristiani, li quali i piú sono oggi idioti, ma de' sommi pontefici, de' gran maestri, e di qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi che l'opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora perirá il nome loro, quando tutte l'altre cose mortali periranno. Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio? Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s'accostano, o diranno che pur l'arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna? Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor non conosciute, e intorno a quelle s'avvolghino, le quali appena dalla bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:

Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam.

[Ora, come io ho detto de' poeti, cosí intendo di qualunque altro componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo Tesoro, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo. Poi segue: «e piú non cheggio»; - quasi dica: questo mi sará assai.

«Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a Verona 'l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché, partendosi ser Brunetto dall'autore, velocissimamente correa, l'assomiglia l'autore a questi cotali che quel drappo verde corrono: e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro», cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.

L'allegoría del presente canto, cioè, come la pena, scritta per l'autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si dirá di tutta questa spezie de' violenti.

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