Giovanni Boccaccio
Il commento alla
Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante
A
PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI
VITA
DI DANTE
I
PROPOSIZIONE
Solone,
il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato, e le
cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e
stare sopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava
essere il destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e
il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque
delle due cose giá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o
meno che bene si servava, senza niun dubbio quella republica, che 'l
faceva, convenire andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in
amendue, quasi certissimo avea, quella non potere stare in alcun
modo.
Mossi
adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole
sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di
marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di
triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non
curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la
macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le
vestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da'
successori presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male
seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú
possiede l'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a
ciò con occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima
afflizione d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a'
luoghi eccelsi e a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni
scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il
giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano di questa
nave: percioché noi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto,
della fortuna, ma non della colpa partecipi. E, comeché con infinite
ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si potessero le
predette cose verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per
pervenire al mio principale intento, una sola mi fia assai avere
raccontata (né questa fia poco o picciola), ricordando l'esilio del
chiarissimo uomo Dante Alighieri. Il quale, antico cittadino né
d'oscuri parenti nato, quanto per vertú e per scienzia e per buone
operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da
lui fatte appaiono: le quali, se in una republica giusta fossero
state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi
meriti apparecchiati.
Oh scellerato pensiero,
oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di futura ruina manifesto
argomento! In luogo di quegli, ingiusta e furiosa dannazione,
perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni beni, e, se fare si
fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con false colpe
gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga e
l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole per l'altrui
case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre iniquitá
fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio, che
veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra sé
la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia
onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il
presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra
toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,
contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in
piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per
lunga usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo
avvenire, o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno
nostro passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o la
sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il
quale se a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira,
la quale con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto
piú grave tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma,
percioché, come che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle
non solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando,
d'amendarle ingegnarci; conoscendo io me essere di quella medesima
cittá, avvegnaché picciola parte, della quale, considerati li
meriti, la nobiltá e la vertú, Dante Alighieri fu grandissima, e
per questo, sí come ciascun altro cittadino, a' suoi onori sia in
solido obbligato; comeché io a tanta cosa non sia sofficiente,
nondimeno secondo la mia picciola facultá, quello ch'essa dovea
verso lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m'ingegnerò di
far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi
appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le mie forze, ma
con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di queste darò,
accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possa dire fra
le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata
ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché piú
alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,
accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue
opere, non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente
tacette: cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i
costumi; raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle
quali esso sé sí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno
tenebre che splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non
sia di mio intendimento né di volere; contento sempre, e in questo
e in ciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io
difettuosamente parlassi, essere corretto. Il che accioché non
avvenga, umilemente priego Colui che lui trasse per sí alta scala a
vedersi, come sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio
e la debole mano.