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miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XIV

CANTO XIV

[Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.]

Poi che la carità del natio loco

mi strinse, raunai le fronde sparte

e rende'le a colui, ch'era già fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte

lo secondo giron dal terzo, e dove

si vede di giustizia orribil arte.

A ben manifestar le cose nove,

dico che arrivammo ad una landa

che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l'è ghirlanda

intorno, come 'l fosso tristo ad essa;

quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,

non d'altra foggia fatta che colei

che fu da' piè di Caton già soppressa.

O vendetta di Dio, quanto tu dei

esser temuta da ciascun che legge

ciò che fu manifesto a li occhi mei!

D'anime nude vidi molte gregge

che piangean tutte assai miseramente,

e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,

alcuna si sedea tutta raccolta,

e altra andava continüamente.

Quella che giva 'ntorno era più molta,

e quella men che giacëa al tormento,

ma più al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,

piovean di foco dilatate falde,

come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde

d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo

fiamme cadere infino a terra salde,

per ch'ei provide a scalpitar lo suolo

con le sue schiere, acciò che lo vapore

mei si stingueva mentre ch'era solo:

tale scendeva l'etternale ardore;

onde la rena s'accendea, com' esca

sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca

de le misere mani, or quindi or quinci

escotendo da sé l'arsura fresca.

I' cominciai: «Maestro, tu che vinci

tutte le cose, fuor che ' demon duri

ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,

chi è quel grande che non par che curi

lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,

sì che la pioggia non par che 'l marturi?».

E quel medesmo, che si fu accorto

ch'io domandava il mio duca di lui,

gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.

Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui

crucciato prese la folgore aguta

onde l'ultimo dì percosso fui;

o s'elli stanchi li altri a muta a muta

in Mongibello a la focina negra,

chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!",

sì com' el fece a la pugna di Flegra,

e me saetti con tutta sua forza:

non ne potrebbe aver vendetta allegra».

Allora il duca mio parlò di forza

tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:

«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu più punito;

nullo martiro, fuor che la tua rabbia,

sarebbe al tuo furor dolor compito».

Poi si rivolse a me con miglior labbia,

dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe;

ed ebbe e par ch'elli abbia

Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;

ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti

sono al suo petto assai debiti fregi.

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,

ancor, li piedi ne la rena arsiccia;

ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

Tacendo divenimmo là 've spiccia

fuor de la selva un picciol fiumicello,

lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello

che parton poi tra lor le peccatrici,

tal per la rena giù sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici

fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato;

per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,

poscia che noi intrammo per la porta

lo cui sogliare a nessuno è negato,

cosa non fu da li tuoi occhi scorta

notabile com' è 'l presente rio,

che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

Queste parole fuor del duca mio;

per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avëa il disio.

«In mezzo mar siede un paese guasto»,

diss' elli allora, «che s'appella Creta,

sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.

Una montagna v'è che già fu lieta

d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;

or è diserta come cosa vieta.

Rëa la scelse già per cuna fida

del suo figliuolo, e per celarlo meglio,

quando piangea, vi facea far le grida.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,

che tien volte le spalle inver' Dammiata

e Roma guarda come süo speglio.

La sua testa è di fin oro formata,

e puro argento son le braccia e 'l petto,

poi è di rame infino a la forcata;

da indi in giuso è tutto ferro eletto,

salvo che 'l destro piede è terra cotta;

e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.

Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta

d'una fessura che lagrime goccia,

le quali, accolte, fóran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia;

fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;

poi sen van giù per questa stretta doccia,

infin, là dove più non si dismonta,

fanno Cocito; e qual sia quello stagno

tu lo vedrai, però qui non si conta».

E io a lui: «Se 'l presente rigagno

si diriva così dal nostro mondo,

perché ci appar pur a questo vivagno?».

Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo;

e tutto che tu sie venuto molto,

pur a sinistra, giù calando al fondo,

non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto;

per che, se cosa n'apparisce nova,

non de' addur maraviglia al tuo volto».

E io ancor: «Maestro, ove si trova

Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,

e l'altro di' che si fa d'esta piova».

«In tutte tue question certo mi piaci»,

rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa

dovea ben solver l'una che tu faci.

Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,

là dove vanno l'anime a lavarsi

quando la colpa pentuta è rimossa».

Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi

dal bosco; fa che di retro a me vegne:

li margini fan via, che non son arsi,

e sopra loro ogne vapor si spegne».

martes, 18 de agosto de 2020

Inferno, Canto VII

CANTO VII

[Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.]

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,

cominciò Pluto con la voce chioccia;

e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi: «Non ti noccia

la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,

non ci torrà lo scender questa roccia».

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,

e disse: «Taci, maladetto lupo!

consuma dentro te con la tua rabbia.

Non è sanza cagion l'andare al cupo:

vuolsi ne l'alto, là dove Michele

fé la vendetta del superbo strupo».

Quali dal vento le gonfiate vele

caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,

tal cadde a terra la fiera crudele.

Così scendemmo ne la quarta lacca,

pigliando più de la dolente ripa

che 'l mal de l'universo tutto insacca.

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa

nove travaglie e pene quant' io viddi?

e perché nostra colpa sì ne scipa?

Come fa l'onda là sovra Cariddi,

che si frange con quella in cui s'intoppa,

così convien che qui la gente riddi.

Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa,

e d'una parte e d'altra, con grand' urli,

voltando pesi per forza di poppa.

Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

Così tornavan per lo cerchio tetro

da ogne mano a l'opposito punto,

gridandosi anche loro ontoso metro;

poi si volgea ciascun, quand' era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

dissi: «Maestro mio, or mi dimostra

che gente è questa, e se tutti fuor cherci

questi chercuti a la sinistra nostra».

Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci

sì de la mente in la vita primaia,

che con misura nullo spendio ferci.

Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.

Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali,

in cui usa avarizia il suo soperchio».

E io: «Maestro, tra questi cotali

dovre' io ben riconoscere alcuni

che furo immondi di cotesti mali».

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:

la sconoscente vita che i fé sozzi,

ad ogne conoscenza or li fa bruni.

In etterno verranno a li due cozzi:

questi resurgeranno del sepulcro

col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro

ha tolto loro, e posti a questa zuffa:

qual ella sia, parole non ci appulcro.

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

d'i ben che son commessi a la fortuna,

per che l'umana gente si rabuffa;

ché tutto l'oro ch'è sotto la luna

e che già fu, di quest' anime stanche

non poterebbe farne posare una».

«Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche:

questa fortuna di che tu mi tocche,

che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v'offende!

Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,

fece li cieli e diè lor chi conduce

sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.

Similemente a li splendor mondani

ordinò general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani

di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani;

per ch'una gente impera e l'altra langue,

seguendo lo giudicio di costei,

che è occulto come in erba l'angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:

questa provede, giudica, e persegue

suo regno come il loro li altri dèi.

Le sue permutazion non hanno triegue:

necessità la fa esser veloce;

sì spesso vien chi vicenda consegue.

Quest' è colei ch'è tanto posta in croce

pur da color che le dovrien dar lode,

dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s'è beata e ciò non ode:

con l'altre prime creature lieta

volve sua spera e beata si gode.

Or discendiamo omai a maggior pieta;

già ogne stella cade che saliva

quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».

Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva

sovr' una fonte che bolle e riversa

per un fossato che da lei deriva.

L'acqua era buia assai più che persa;

e noi, in compagnia de l'onde bige,

intrammo giù per una via diversa.

In la palude va c'ha nome Stige

questo tristo ruscel, quand' è disceso

al piè de le maligne piagge grige.

E io, che di mirare stava inteso,

vidi genti fangose in quel pantano,

ignude tutte, con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano,

ma con la testa e col petto e coi piedi,

troncandosi co' denti a brano a brano.

Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi

l'anime di color cui vinse l'ira;

e anche vo' che tu per certo credi

che sotto l'acqua è gente che sospira,

e fanno pullular quest' acqua al summo,

come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.

Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo

ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,

portando dentro accidïoso fummo:

or ci attristiam ne la belletta negra".

Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,

ché dir nol posson con parola integra».

Così girammo de la lorda pozza

grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo,

con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.

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