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jueves, 20 de agosto de 2020

Inferno, Canto XXXIII

CANTO XXXIII

[Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.]

La bocca sollevò dal fiero pasto

quel peccator, forbendola a' capelli

del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli

disperato dolor che 'l cor mi preme

già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,

parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se' né per che modo

venuto se' qua giù; ma fiorentino

mi sembri veramente quand' io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,

e questi è l'arcivescovo Ruggieri:

or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,

fidandomi di lui, io fossi preso

e poscia morto, dir non è mestieri;

però quel che non puoi avere inteso,

cioè come la morte mia fu cruda,

udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Muda,

la qual per me ha 'l titol de la fame,

e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame

più lune già, quand' io feci 'l mal sonno

che del futuro mi squarciò 'l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,

cacciando il lupo e ' lupicini al monte

per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studïose e conte

Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi

s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi

lo padre e ' figli, e con l'agute scane

mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,

pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli

ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli

pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;

e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l'ora s'appressava

che 'l cibo ne solëa essere addotto,

e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti' chiavar l'uscio di sotto

a l'orribile torre; ond' io guardai

nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangëa, sì dentro impetrai:

piangevan elli; e Anselmuccio mio

disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lagrimai né rispuos' io

tutto quel giorno né la notte appresso,

infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo

nel doloroso carcere, e io scorsi

per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;

ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia

di manicar, di sùbito levorsi

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi: tu ne vestisti

queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta'mi allor per non farli più tristi;

lo dì e l'altro stemmo tutti muti;

ahi dura terra, perché non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,

Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,

dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".

Quivi morì; e come tu mi vedi,

vid' io cascar li tre ad uno ad uno

tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

e due dì li chiamai, poi che fur morti.

Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti

riprese 'l teschio misero co' denti,

che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti

del bel paese là dove 'l sì suona,

poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,

e faccian siepe ad Arno in su la foce,

sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

Che se 'l conte Ugolino aveva voce

d'aver tradita te de le castella,

non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,

novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata

e li altri due che 'l canto suso appella.

Noi passammo oltre, là 've la gelata

ruvidamente un'altra gente fascia,

non volta in giù, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,

e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,

si volge in entro a far crescer l'ambascia;

ché le lagrime prime fanno groppo,

e sì come visiere di cristallo,

rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, sì come d'un callo,

per la freddura ciascun sentimento

cessato avesse del mio viso stallo,

già mi parea sentire alquanto vento;

per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?

non è qua giù ogne vapore spento?».

Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove

di ciò ti farà l'occhio la risposta,

veggendo la cagion che 'l fiato piove».

E un de' tristi de la fredda crosta

gridò a noi: «O anime crudeli

tanto che data v'è l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,

sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,

un poco, pria che 'l pianto si raggeli».

Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,

dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,

al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo;

i' son quel da le frutta del mal orto,

che qui riprendo dattero per figo».

«Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?».

Ed elli a me: «Come 'l mio corpo

stea nel mondo sù, nulla scïenza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

che spesse volte l'anima ci cade

innanzi ch'Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade

le 'nvetrïate lagrime dal volto,

sappie che, tosto che l'anima trade

come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto

da un demonio, che poscia il governa

mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna;

e forse pare ancor lo corpo suso

de l'ombra che di qua dietro mi verna.

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

elli è ser Branca Doria, e son più anni

poscia passati ch'el fu sì racchiuso».

«Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni;

ché Branca Doria non morì unquanche,

e mangia e bee e dorme e veste panni».

«Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche,

là dove bolle la tenace pece,

non era ancora giunto Michel Zanche,

che questi lasciò il diavolo in sua vece

nel corpo suo, ed un suo prossimano

che 'l tradimento insieme con lui fece.

Ma distendi oggimai in qua la mano;

aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;

e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi

d'ogne costume e pien d'ogne magagna,

perché non siete voi del mondo spersi?

Ché col peggiore spirto di Romagna

trovai di voi un tal, che per sua opra

in anima in Cocito già si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.

Inferno, Canto XXIX

CANTO XXIX

[Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.]

La molta gente e le diverse piaghe

avean le luci mie sì inebrïate,

che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?

perché la vista tua pur si soffolge

là giù tra l'ombre triste smozzicate?

Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;

pensa, se tu annoverar le credi,

che miglia ventidue la valle volge.

E già la luna è sotto i nostri piedi;

lo tempo è poco omai che n'è concesso,

e altro è da veder che tu non vedi».

«Se tu avessi», rispuos' io appresso,

«atteso a la cagion per ch'io guardava,

forse m'avresti ancor lo star dimesso».

Parte sen giva, e io retro li andava,

lo duca, già faccendo la risposta,

e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

dov' io tenea or li occhi sì a posta,

credo ch'un spirto del mio sangue pianga

la colpa che là giù cotanto costa».

Allor disse 'l maestro: «Non si franga

lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.

Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

ch'io vidi lui a piè del ponticello

mostrarti e minacciar forte col dito,

e udi' 'l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito

sovra colui che già tenne Altaforte,

che non guardasti in là, sì fu partito».

«O duca mio, la vïolenta morte

che non li è vendicata ancor», diss' io,

«per alcun che de l'onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond' el sen gio

sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:

e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».

Così parlammo infino al loco primo

che de lo scoglio l'altra valle mostra,

se più lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l'ultima chiostra

di Malebolge, sì che i suoi conversi

potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,

che di pietà ferrati avean li strali;

ond' io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali

di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre

e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti 'nsembre,

tal era quivi, e tal puzzo n'usciva

qual suol venir de le marcite membre.

Noi discendemmo in su l'ultima riva

del lungo scoglio, pur da man sinistra;

e allor fu la mia vista più viva

giù ver' lo fondo, la 've la ministra

de l'alto Sire infallibil giustizia

punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch'a veder maggior tristizia

fosse in Egina il popol tutto infermo,

quando fu l'aere sì pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,

cascaron tutti, e poi le genti antiche,

secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;

ch'era a veder per quella oscura valle

languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle

l'un de l'altro giacea, e qual carpone

si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,

guardando e ascoltando li ammalati,

che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a sé poggiati,

com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

dal capo al piè di schianze macolati;


e non vidi già mai menare stregghia

a ragazzo aspettato dal segnorso,

né a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso

de l'unghie sopra sé per la gran rabbia

del pizzicor, che non ha più soccorso;

e sì traevan giù l'unghie la scabbia,

come coltel di scardova le scaglie

o d'altro pesce che più larghe l'abbia.

«O tu che con le dita ti dismaglie»,

cominciò 'l duca mio a l'un di loro,

«e che fai d'esse talvolta tanaglie,

dinne s'alcun Latino è tra costoro

che son quinc' entro, se l'unghia ti basti

etternalmente a cotesto lavoro».

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti

qui ambedue», rispuose l'un piangendo;

«ma tu chi se' che di noi dimandasti?».

E 'l duca disse: «I' son un che discendo

con questo vivo giù di balzo in balzo,

e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».

Allor si ruppe lo comun rincalzo;

e tremando ciascuno a me si volse

con altri che l'udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s'accolse,

dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;

e io incominciai, poscia ch'ei volse:

«Se la vostra memoria non s'imboli

nel primo mondo da l'umane menti,

ma s'ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti;

la vostra sconcia e fastidiosa pena

di palesarvi a me non vi spaventi».

«Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena»,

rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;

ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.

Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:

"I' mi saprei levar per l'aere a volo";

e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,

volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo

perch' io nol feci Dedalo, mi fece

ardere a tal che l'avea per figliuolo.

Ma ne l'ultima bolgia de le diece

me per l'alchìmia che nel mondo usai

dannò Minòs, a cui fallar non lece».

E io dissi al poeta: «Or fu già mai

gente sì vana come la sanese?

Certo non la francesca sì d'assai!».

Onde l'altro lebbroso, che m'intese,

rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca

che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca

del garofano prima discoverse

ne l'orto dove tal seme s'appicca;

e tra'ne la brigata in che disperse

Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,

e l'Abbagliato suo senno proferse.

Ma perché sappi chi sì ti seconda

contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,

sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,

che falsai li metalli con l'alchìmia;

e te dee ricordar, se ben t'adocchio,

com' io fui di natura buona scimia».

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