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miércoles, 14 de octubre de 2020

XI. LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO

XI.

LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO

Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale egli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro, percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri a lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia, accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo cammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai ne ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava.

miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XVIII

CANTO XVIII

[Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminellida Lucca, e tratta come sono state loro pene.]

Luogo è in inferno detto Malebolge,

tutto di pietra di color ferrigno,

come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno

vaneggia un pozzo assai largo e profondo,

di cui suo loco dicerò l'ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque è tondo

tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,

e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura

più e più fossi cingon li castelli,

la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;

e come a tai fortezze da' lor sogli

a la ripa di fuor son ponticelli,

così da imo de la roccia scogli

movien che ricidien li argini e ' fossi

infino al pozzo che i tronca e raccogli.

In questo luogo, de la schiena scossi

di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta

tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A la man destra vidi nova pieta,

novo tormento e novi frustatori,

di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;

dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,

di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l'essercito molto,

l'anno del giubileo, su per lo ponte

hanno a passar la gente modo colto,

che da l'un lato tutti hanno la fronte

verso 'l castello e vanno a SantoPietro,

da l'altra sponda vanno verso 'l monte.

Di qua, di là, su per lo sasso tetro

vidi demon cornuti con gran ferze,

che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze

a le prime percosse! già nessuno

le seconde aspettava né le terze.

Mentr' io andava, li occhi miei in uno

furo scontrati; e io sì tosto dissi:

«Già di veder costui non son digiuno».

Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi;

e 'l dolce duca meco si ristette,

e assentio ch'alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette

bassando 'l viso; ma poco li valse,

ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,

Venedico se' tu Caccianemico.

Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;

ma sforzami la tua chiara favella,

che mi fa sovvenir del mondo antico.

I' fui colui che la Ghisolabella

condussi a far la voglia del marchese,

come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango bolognese;

anzi n'è questo loco tanto pieno,

che tante lingue non son ora apprese

a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno;

e se di ciò vuoi fede o testimonio,

rècati a mente il nostro avaro seno».

Così parlando il percosse un demonio

de la sua scurïada, e disse: «Via, ruffian!

qui non son femmine da conio».

I' mi raggiunsi con la scorta mia;

poscia con pochi passi divenimmo

là 'v' uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;

e vòlti a destra su per la sua scheggia,

da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov' el vaneggia

di sotto per dar passo a li sferzati,

lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

lo viso in te di quest' altri mal nati,

ai quali ancor non vedesti la faccia

però che son con noi insieme andati».

Del vecchio ponte guardavam la traccia

che venìa verso noi da l'altra banda,

e che la ferza similmente scaccia.

E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,

mi disse: «Guarda quel grande che vene,

e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!

Quelli è Iasón, che per cuore e per senno

li Colchi del monton privati féne.

Ello passò per l'isola di Lenno

poi che l'ardite femmine spietate

tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate

Isifile ingannò, la giovinetta

che prima avea tutte l'altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;

tal colpa a tal martiro lui condanna;

e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna;

e questo basti de la prima valle

sapere e di color che 'n sé assanna».

Già eravam là 've lo stretto calle

con l'argine secondo s'incrocicchia,

e fa di quello ad un altr' arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia

ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,

e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d'una muffa,

per l'alito di giù che vi s'appasta,

che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta

loco a veder sanza montare al dosso

de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso

vidi gente attuffata in uno sterco

che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco,

vidi un col capo sì di merda lordo,

che non parëa s'era laico o cherco.

Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo

di riguardar più me che li altri brutti?».

E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

già t'ho veduto coi capelli asciutti,

e se' Alessio Interminei da Lucca:

però t'adocchio più che li altri tutti».

Ed elli allor, battendosi la zucca:

«Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe

ond' io non ebbi mai la lingua stucca».

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

mi disse, «il viso un poco più avante,

sì che la faccia ben con l'occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante

che là si graffia con l'unghie merdose,

e or s'accoscia e ora è in pie distante.

Taïde è, la puttana che rispuose

al drudo suo quando disse "Ho io grazie

grandi apo te?": "Anzi maravigliose!".

E quinci sian le nostre viste sazie».

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