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miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XXVIII

CANTO XXVIII

[Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.]

Chi poria mai pur con parole sciolte

dicer del sangue e de le piaghe a pieno

ch'i' ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verria meno

per lo nostro sermone e per la mente

c'hanno a tanto comprender poco seno.

S'el s'aunasse ancor tutta la gente

che già, in su la fortunata terra

di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra

che de l'anella fé sì alte spoglie,

come Livïo scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie

per contastare a Ruberto Guiscardo;

e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo

ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,

dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo

mostrasse, d'aequar sarebbe nulla

il modo de la nona bolgia sozzo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com' io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e 'l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,

guardommi e con le man s'aperse il petto,

dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!

vedi come storpiato è Mäometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuor vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n'accisma

sì crudelmente, al taglio de la spada

rimettendo ciascun di questa risma,

quand' avem volta la dolente strada;

però che le ferite son richiuse

prima ch'altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,

forse per indugiar d'ire a la pena

ch'è giudicata in su le tue accuse?».

«Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena»,

rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;

ma per dar lui esperïenza piena,

a me, che morto son, convien menarlo

per lo 'nferno qua giù di giro in giro;

e quest' è ver così com' io ti parlo».

Più fuor di cento che, quando l'udiro,

s'arrestaron nel fosso a riguardarmi

per maraviglia, oblïando il martiro.

«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,

tu che forse vedra' il sole in breve,

s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve

non rechi la vittoria al Noarese,

ch'altrimenti acquistar non saria leve».

Poi che l'un piè per girsene sospese,

Mäometto mi disse esta parola;

indi a partirsi in terra lo distese.

Un altro, che forata avea la gola

e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,

e non avea mai ch'una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia

con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,

ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,

e disse: «O tu cui colpa non condanna

e cu' io vidi su in terra latina,

se troppa simiglianza non m'inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,

se mai torni a veder lo dolce piano

che da Vercelli a Marcabò dichina.

E fa saper a' due miglior da Fano,

a messer Guido e anco ad Angiolello,

che, se l'antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello

e mazzerati presso a la Cattolica

per tradimento d'un tiranno fello.

Tra l'isola di Cipri e di Maiolica

non vide mai sì gran fallo Nettuno,

non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l'uno,

e tien la terra che tale qui meco

vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;

poi farà sì, ch'al vento di Focara

non sarà lor mestier voto né preco».

E io a lui: «Dimostrami e dichiara,

se vuo' ch'i' porti sù di te novella,

chi è colui da la veduta amara».

Allor puose la mano a la mascella

d'un suo compagno e la bocca li aperse,

gridando: «Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse

in Cesare, affermando che 'l fornito

sempre con danno l'attender sofferse».

Oh quanto mi pareva sbigottito

con la lingua tagliata ne la strozza

Curïo, ch'a dir fu così ardito!

E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,

levando i moncherin per l'aura fosca,

sì che 'l sangue facea la faccia sozza,

gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca,

che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",

che fu mal seme per la gente tosca».

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;

per ch'elli, accumulando duol con duolo,

sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

e vidi cosa ch'io avrei paura,

sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscïenza m'assicura,

la buona compagnia che l'uom francheggia

sotto l'asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,

un busto sanza capo andar sì come

andavan li altri de la trista greggia;

e 'l capo tronco tenea per le chiome,

pesol con mano a guisa di lanterna:

e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».

Di sé facea a sé stesso lucerna,

ed eran due in uno e uno in due;

com' esser può, quei sa che sì governa.

Quando diritto al piè del ponte fue,

levò 'l braccio alto con tutta la testa

per appressarne le parole sue,

che fuoro: «Or vedi la pena molesta,

tu che, spirando, vai veggendo i morti:

vedi s'alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,

sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli

che diedi al re giovane i ma' conforti.

Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;

Achitofèl non fé più d'Absalone

e di Davìd coi malvagi punzelli.

Perch' io parti' così giunte persone,

partito porto il mio cerebro, lasso!,

dal suo principio ch'è in questo troncone.

Così s'osserva in me lo contrapasso».

Inferno, Canto XXI

CANTO XXI

[Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera.]

Così di ponte in ponte, altro parlando

che la mia comedìa cantar non cura,

venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando

restammo per veder l'altra fessura

di Malebolge e li altri pianti vani;

e vidila mirabilmente oscura.

Quale ne l'arzanà de' Viniziani

bolle l'inverno la tenace pece

a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno — in quella vece

chi fa suo legno novo e chi ristoppa

le coste a quel che più vïaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa — :

tal, non per foco ma per divin' arte,

bollia là giuso una pegola spessa,

che 'nviscava la ripa d'ogne parte.

I' vedea lei, ma non vedëa in essa

mai che le bolle che 'l bollor levava,

e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mentr' io là giù fisamente mirava,

lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,

mi trasse a sé del loco dov' io stava.

Allor mi volsi come l'uom cui tarda

di veder quel che li convien fuggire

e cui paura sùbita sgagliarda,

che, per veder, non indugia 'l partire:

e vidi dietro a noi un diavol nero

correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero!

e quanto mi parea ne l'atto acerbo,

con l'ali aperte e sovra i piè leggero!

L'omero suo, ch'era aguto e superbo,

carcava un peccator con ambo l'anche,

e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.

Del nostro ponte disse: «O Malebranche,

ecco un de li anzïan di Santa Zita!

Mettetel sotto, ch'i' torno per anche

a quella terra, che n'è ben fornita:

ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar, vi si fa ita».

Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro

si volse; e mai non fu mastino sciolto

con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;

ma i demon che del ponte avean coperchio,

gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Però, se tu non vuo' di nostri graffi,

non far sopra la pegola soverchio».

Poi l'addentar con più di cento raffi,

disser: «Coverto convien che qui balli,

sì che, se puoi, nascosamente accaffi».

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli

fanno attuffare in mezzo la caldaia

la carne con li uncin, perché non galli.

Lo buon maestro «Acciò che non si paia

che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta

dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;

e per nulla offension che mi sia fatta,

non temer tu, ch'i' ho le cose conte,

perch' altra volta fui a tal baratta».

Poscia passò di là dal co del ponte;

e com' el giunse in su la ripa sesta,

mestier li fu d'aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta

ch'escono i cani a dosso al poverello

che di sùbito chiede ove s'arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,

e volser contra lui tutt' i runcigli;

ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!

Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,

traggasi avante l'un di voi che m'oda,

e poi d'arruncigliarmi si consigli».

Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;

per ch'un si mosse — e li altri stetter fermi —

e venne a lui dicendo: «Che li approda?».

«Credi tu, Malacoda, qui vedermi

esser venuto», disse 'l mio maestro,

«sicuro già da tutti vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?

Lascian' andar, ché nel cielo è voluto

ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro».

Allor li fu l'orgoglio sì caduto,

ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,

e disse a li altri: «Omai non sia feruto».

E 'l duca mio a me: «O tu che siedi

tra li scheggion del ponte quatto quatto,

sicuramente omai a me ti riedi».

Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto;

e i diavoli si fecer tutti avanti,

sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;

così vid' ïo già temer li fanti

ch'uscivan patteggiati di Caprona,

veggendo sé tra nemici cotanti.

I' m'accostai con tutta la persona

lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi

da la sembianza lor ch'era non buona.

Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi»,

diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?».

E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi».

Ma quel demonio che tenea sermone

col duca mio, si volse tutto presto

e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».

Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo

iscoglio non si può, però che giace

tutto spezzato al fondo l'arco sesto.

E se l'andare avante pur vi piace,

andatevene su per questa grotta;

presso è un altro scoglio che via face.

Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta,

mille dugento con sessanta sei

anni compié che qui la via fu rotta.

Io mando verso là di questi miei

a riguardar s'alcun se ne sciorina;

gite con lor, che non saranno rei».

«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,

cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;

e Barbariccia guidi la decina.

Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo,

Cirïatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo.

Cercate 'ntorno le boglienti pane;

costor sian salvi infino a l'altro scheggio

che tutto intero va sovra le tane».

«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?»,

diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli,

se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.

Se tu se' sì accorto come suoli,

non vedi tu ch'e' digrignan li denti

e con le ciglia ne minaccian duoli?».

Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi;

lasciali digrignar pur a lor senno,

ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».

Per l'argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta

coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.

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