Mostrando entradas con la etiqueta umanitá. Mostrar todas las entradas
Mostrando entradas con la etiqueta umanitá. Mostrar todas las entradas

miércoles, 21 de octubre de 2020

COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA". PROEMIO.

COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"

PROEMIO

[Lez. I]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá, quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia, nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del prologo del suo Timeo, per sé dicendo: «Namcum omnibus mos sit et quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo furore atque implacabili raptemur amentia?». E, se Platone confessa sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi sotto il poetico velo della Commedia del nostro Dante; e massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá, come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque, accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo, poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi che nel secondo del suo Eneida scrive Virgilio:

Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,

aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,

da deinde auxilium, pater, ecc.

[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga, estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro; la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di filosofia sia il presente libro supposto.]

[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia, cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni sono, sí come manifestamente apparirá nel processo.

adunque il suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire obbligato. La causa formale è similmente doppia, perciò ch'egli è la forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella secondo la quale ciascun canto si divide in 
rittimi. La forma, o vero il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo, reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso, dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato della miseria, allo stato della felicitá.]

[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la Commedia di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano le cantiche della Commedia di Dante Alighieri fiorentino». La quale, percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche della Commedia di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]

[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo, percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio, è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa, volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé contenente piú canti.]

[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato «commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de' comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché «commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da «comos,», che in latino viene a dire «villa», e «odos», che viene a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia, nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar latino che nel materno.]

[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano: la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è, secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie «scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto «scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama «canti» le parti della sua Commedia. E cosí, accioché fine pognamo agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono, ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato, figurativamente parlando. Il tutto della commedia (per quello che per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.

[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «Qui misere credit, creditur esse miser». E qual cosa è piú misera che credere al patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da prestare alle loro parole.]

[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu, quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli, datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo «amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici, a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi, e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá, com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo del Paradiso. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma, percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello, non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata nella sua Commedia da lui recitata.]

[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono; per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del trentesimo canto del Purgatorio, nel quale essa, parlandogli, gli dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò, soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del Paradiso, lá dove Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo basti intorno al titolo avere scritto.]

[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale, secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica: percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo, non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]

[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello 'Nferno». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura sopravverranno, il mio poco ingegno

e la debolezza della mia memoria, intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá, che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della santa Chiesa me ne sommetto.]

[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello 'Nferno»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso, qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per Isaia, il quale dice: «Dilatavit infernus animam suam, et aperuit os suum absque ullo termino»; e Vergilio nel sesto dell'Eneida dice: «Inferni ianua regis»; e Iob: «In profundissimum infernum descendet anima mea». Per le quali autoritá appare essere inferno.]

[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «Circumdederunt me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me»; e in altra parte dice: «Descendant in infernum viventes»; quasi voglia dire «nelle miserie della presente vita».]

[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione, dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca; volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze, degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo questo cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo inferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disiderate e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il quale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'un termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i vari tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eaco e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che in quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono, percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per loro intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di quelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali pene ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]

[Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose il figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui la qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non ardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendosene adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non vogliono de' loro tesori se non vedergli.]

[Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo, secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone, richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i centauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse di volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li quali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia occupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; e di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè gli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro a' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa

pena, che sono sempre in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le serpi s'intendono.]

[Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente richiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nferno dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli che d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li quali sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornar possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono lasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requie s'affliggono.]

[Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse uccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senza fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano: volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali, avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor guida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello che giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi, farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminata sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito sodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma, accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i poeti gentili.]

[Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere vicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo limbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: e questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di questo mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano, disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, che l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]

[Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo di pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «Mortuus est dives, et sepultus est in inferno». Ed il salmista: «In inferno autem quis confitebitur tibi?». E che questo sia, si legge nel Vangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendo sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il dito minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E di questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto canto in giú.]

[Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno; conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto, scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare essere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel libro undicesimo della sua Odissea, Ulisse per mare essere stato mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere da Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere pervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna luce di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il quale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo nel sesto del suo Eneida l'entrata dello 'nferno essere appo il lago d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:

Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,

scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;

quam super haud ullae poterant impune volantes

tendere iter pennis: talis sese halitus atris

faucibus effundens supera ad convexa ferebat:

unde locum Graii dixerunt nomine Avernum, ecc.

E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla in inferno. Stazio, nel primo del suo Thebaidos, dice questo luogo essere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, la quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «Traenaron»: e di quindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:

.......illa per umbras,

et caligantes animarum examine campos

Traenareae limen petit irremeabile portae, ecc.

E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, in tragoedia Herculis furentis, dove dice Cerbero infernal cane essere stato tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro, dicendo cosí:

Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor

percussit oculos lucis, ecc.

Pomponio Mela, nel primo libro della sua Cosmografia, dice questo luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel mare maggiore, scrivendo in questa forma: «In eo primum Mariatidinei urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant», ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello affermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]

[La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale, discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello, aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa in queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole», discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto allo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e in parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono per lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]

[Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de' peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna prigione.]

[Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale averne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel sesto dell'Eneida si legge, il chiama Averno, dove dice:

Tros Anchisiades, facilis descensus Averni.

E nominasi questo luogo Averno, ab «a», quod est «sine», «vernus», quod est «laetitia»:

cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:

.......tum Tartarus ipse

bis patet in praeceps, ecc.

E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i miseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato libro, dove dice:

Perque domos Ditis vacuas, et inania regna.

Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite, cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissima moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel libro spesse volte allegato, dove scrive:

Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci.

Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel processo apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro, dicendo:

Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes.

E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli s'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramente riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove dice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come nell'Apocalisse si legge ove dice: «Bestia quae ascendet de abysso, faciet adversus illos bellum»; e in altra parte: «Data est illi clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi». Il qual nome significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti al presente aver narrati questi.]

[Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si vegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo. Dicono adunque questi cotali: - Secondo che ciascun ragiona, Dante fu litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare? - A' quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama, come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi latini, cosí:

Ultima regna canam fluido contermina mundo,

spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt

pro meritis cuicumque suis, ecc.

E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo: e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da' signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e rendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebei e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e per conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si sommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino, tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che, se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., ut supra.]

miércoles, 14 de octubre de 2020

XVIII. RIMPROVERO AI FIORENTINI

XVIII.

RIMPROVERO AI FIORENTINI.

Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu, continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali, percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro, tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che, non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio. Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato. Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente, del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e punite.

Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo; concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma: certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti. Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani, li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea, volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato. Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose, ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi onori lieta si glori tra' futuri.

Portfolio

       Ramón Guimerá Lorente Beceite blog, Beseit Beseit en chapurriau yo parlo lo chapurriau  y lo escric Chapurriau al Wordpress Lo Decame...