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miércoles, 14 de octubre de 2020

II. PATRIA E MAGGIORI DI DANTE

II

PATRIA E MAGGIORI DI DANTE


Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che l'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano, ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente cominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá di sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi; piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe' reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche reliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.

Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amore della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de' loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli Elisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella sua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come per nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale, comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed oggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.

Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e dell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.

Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.

jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XVI

CANTO XVI

[Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza, de le quali al presente non è ricordo né fama.]

O poca nostra nobiltà di sangue,

se glorïar di te la gente fai

qua giù dove l'affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:

ché là dove appetito non si torce,

dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se' tu manto che tosto raccorce:

sì che, se non s'appon di dì in die,

lo tempo va dintorno con le force.

Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie,

in che la sua famiglia men persevra,

ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch'era un poco scevra,

ridendo, parve quella che tossio

al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;

voi mi date a parlar tutta baldezza;

voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io.

Per tanti rivi s'empie d'allegrezza

la mente mia, che di sé fa letizia

perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,

quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni

che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l'ovil di San Giovanni

quanto era allora, e chi eran le genti

tra esso degne di più alti scanni».

Come s'avviva a lo spirar d'i venti

carbone in fiamma, così vid' io quella

luce risplendere a' miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,

così con voce più dolce e soave,

ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto 'Ave'

al parto in che mia madre, ch'è or santa,

s'allevïò di me ond' era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta

e trenta fiate venne questo foco

a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco

dove si truova pria l'ultimo sesto

da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d'i miei maggiori udirne questo:

chi ei si fosser e onde venner quivi,

più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch'a quel tempo eran ivi

da poter arme tra Marte e 'l Batista,

eran il quinto di quei ch'or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch'è or mista

di Campi, di Certaldo e di Fegghine,

pura vediesi ne l'ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine

quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo

e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo

del villan d'Aguglion, di quel da Signa,

che già per barattare ha l'occhio aguzzo!

Se la gente ch'al mondo più traligna

non fosse stata a Cesare noverca,

ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,

che si sarebbe vòlto a Simifonti,

là dove andava l'avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de' Conti;

sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone,

e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone

principio fu del mal de la cittade,

come del vostro il cibo che s'appone;

e cieco toro più avaccio cade

che cieco agnello; e molte volte taglia

più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia

come sono ite, e come se ne vanno

di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno

non ti parrà nova cosa né forte,

poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,

sì come voi; ma celasi in alcuna

che dura molto, e le vite son corte.

E come 'l volger del ciel de la luna

cuopre e discuopre i liti sanza posa,

così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa

ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini

onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,

Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,

già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,

con quel de la Sannella, quel de l'Arca,

e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch'al presente è carca

di nova fellonia di tanto peso

che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond' è disceso

il conte Guido e qualunque del nome

de l'alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come

regger si vuole, e avea Galigaio

dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome.

Grand' era già la colonna del Vaio,

Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci

e Galli e quei ch'arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci

era già grande, e già eran tratti

a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti

per lor superbia! e le palle de l'oro

fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro

che, sempre che la vostra chiesa vaca,

si fanno grassi stando a consistoro.

L'oltracotata schiatta che s'indraca

dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente

o ver la borsa, com' agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;

sì che non piacque ad Ubertin Donato

che poï il suocero il fé lor parente.

Già era 'l Caponsacco nel mercato

disceso giù da Fiesole, e già era

buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:

nel picciol cerchio s'entrava per porta

che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta

del gran barone il cui nome e 'l cui pregio

la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;

avvegna che con popol si rauni

oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;

e ancor saria Borgo più quïeto,

se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,

per lo giusto disdegno che v'ha morti

e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:

o Buondelmonte, quanto mal fuggisti

le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,

se Dio t'avesse conceduto ad Ema

la prima volta ch'a città venisti.

Ma conveniesi, a quella pietra scema

che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse

vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,

vid' io Fiorenza in sì fatto riposo,

che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vid' io glorïoso

e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio

non era ad asta mai posto a ritroso,

né per divisïon fatto vermiglio».

miércoles, 26 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XV

CANTO XV

[Canto XV, nel quale messere Cacciaguida fiorentino parla laudando l'antico costume di Fiorenza, in vituperio del presente vivere d'essa cittade di Fiorenza.]

Benigna volontade in che si liqua

sempre l'amor che drittamente spira,

come cupidità fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,

e fece quïetar le sante corde

che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a' giusti preghi sorde

quelle sustanze che, per darmi voglia

ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene è che sanza termine si doglia

chi, per amor di cosa che non duri

etternalmente, quello amor si spoglia.

Quale per li seren tranquilli e puri

discorre ad ora ad or sùbito foco,

movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,

se non che da la parte ond' e' s'accende

nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che 'n destro si stende

a piè di quella croce corse un astro

de la costellazion che lì resplende;

né si partì la gemma dal suo nastro,

ma per la lista radïal trascorse,

che parve foco dietro ad alabastro.

Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse,

se fede merta nostra maggior musa,

quando in Eliso del figlio s'accorse.

«O sanguis meus, o superinfusa

gratïa Deï, sicut tibi cui

bis unquam celi ianüa reclusa?».

Così quel lume: ond' io m'attesi a lui;

poscia rivolsi a la mia donna il viso,

e quinci e quindi stupefatto fui;

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso

tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo

de la mia gloria e del mio paradiso.

Indi, a udire e a veder giocondo,

giunse lo spirto al suo principio cose,

ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo;

né per elezïon mi si nascose,

ma per necessità, ché 'l suo concetto

al segno d'i mortal si soprapuose.

E quando l'arco de l'ardente affetto

fu sì sfogato, che 'l parlar discese

inver' lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s'intese,

«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,

che nel mio seme se' tanto cortese!».

E seguì: «Grato e lontano digiuno,

tratto leggendo del magno volume

du' non si muta mai bianco né bruno,

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume

in ch'io ti parlo, mercé di colei

ch'a l'alto volo ti vestì le piume.

Tu credi che a me tuo pensier mei

da quel ch'è primo, così come raia

da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;

e però ch'io mi sia e perch' io paia

più gaudïoso a te, non mi domandi,

che alcun altro in questa turba gaia.

Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi

di questa vita miran ne lo speglio

in che, prima che pensi, il pensier pandi;

ma perché 'l sacro amore in che io veglio

con perpetüa vista e che m'asseta

di dolce disïar, s'adempia meglio,

la voce tua sicura, balda e lieta

suoni la volontà, suoni 'l disio,

a che la mia risposta è già decreta!».

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio

pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno

che fece crescer l'ali al voler mio.

Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno,

come la prima equalità v'apparse,

d'un peso per ciascun di voi si fenno,

però che 'l sol che v'allumò e arse,

col caldo e con la luce è sì iguali,

che tutte simiglianze sono scarse.

Ma voglia e argomento ne' mortali,

per la cagion ch'a voi è manifesta,

diversamente son pennuti in ali;

ond' io, che son mortal, mi sento in questa

disagguaglianza, e però non ringrazio

se non col core a la paterna festa.

Ben supplico io a te, vivo topazio

che questa gioia prezïosa ingemmi,

perché mi facci del tuo nome sazio».

«O fronda mia in che io compiacemmi

pur aspettando, io fui la tua radice»:

cotal principio, rispondendo, femmi.

Poscia mi disse: «Quel da cui si dice

tua cognazione e che cent' anni e piùe

girato ha 'l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue:

ben si convien che la lunga fatica

tu li raccorci con l'opere tue.

Fiorenza dentro da la cerchia antica,

ond' ella toglie ancora e terza e nona,

si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,

non gonne contigiate, non cintura

che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura

la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote

non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vòte;

non v'era giunto ancor Sardanapalo

a mostrar ciò che 'n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo

dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto

nel montar sù, così sarà nel calo.

Bellincion Berti vid' io andar cinto

di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio

la donna sua sanza 'l viso dipinto;

e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio

esser contenti a la pelle scoperta,

e le sue donne al fuso e al pennecchio.

Oh fortunate! ciascuna era certa

de la sua sepultura, e ancor nulla

era per Francia nel letto diserta.

L'una vegghiava a studio de la culla,

e, consolando, usava l'idïoma

che prima i padri e le madri trastulla;

l'altra, traendo a la rocca la chioma,

favoleggiava con la sua famiglia

d'i Troiani, di Fiesole e di Roma.

Saria tenuta allor tal maraviglia

una Cianghella, un Lapo Salterello,

qual or saria Cincinnato e Corniglia.

A così riposato, a così bello

viver di cittadini, a così fida

cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;

e ne l'antico vostro Batisteo

insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Moronto fu mio frate ed Eliseo;

mia donna venne a me di val di Pado,

e quindi il sopranome tuo si feo.

Poi seguitai lo 'mperador Currado;

ed el mi cinse de la sua milizia,

tanto per bene ovrar li venni in grado.

Dietro li andai incontro a la nequizia

di quella legge il cui popolo usurpa,

per colpa d'i pastor, vostra giustizia.

Quivi fu' io da quella gente turpa

disviluppato dal mondo fallace,

lo cui amor molt' anime deturpa;

e venni dal martiro a questa pace».

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