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jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XXIII

CANTO XXIII

[Canto XXIII, dove si tratta come l'auttore vide la Beata Virgine Maria e li abitatori de la celestiale corte, de la quale mirabilemente favella in questo canto; e qui si prende la nona parte di questa terza cantica.]

Come l'augello, intra l'amate fronde,

posato al nido de' suoi dolci nati

la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disïati

e per trovar lo cibo onde li pasca,

in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,

e con ardente affetto il sole aspetta,

fiso guardando pur che l'alba nasca;

così la donna mïa stava eretta

e attenta, rivolta inver' la plaga

sotto la quale il sol mostra men fretta:

sì che, veggendola io sospesa e vaga,

fecimi qual è quei che disïando

altro vorria, e sperando s'appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,

del mio attender, dico, e del vedere

lo ciel venir più e più rischiarando;

e Bëatrice disse: «Ecco le schiere

del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto

ricolto del girar di queste spere!».

Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto,

e li occhi avea di letizia sì pieni,

che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne' plenilunïi sereni

Trivïa ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid' i' sopra migliaia di lucerne

un sol che tutte quante l'accendea,

come fa 'l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea

la lucente sustanza tanto chiara

nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Bëatrice, dolce guida e cara!

Ella mi disse: «Quel che ti sobranza

è virtù da cui nulla si ripara.

Quivi è la sapïenza e la possanza

ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra,

onde fu già sì lunga disïanza».

Come foco di nube si diserra

per dilatarsi sì che non vi cape,

e fuor di sua natura in giù s'atterra,

la mente mia così, tra quelle dape

fatta più grande, di sé stessa uscìo,

e che si fesse rimembrar non sape.

«Apri li occhi e riguarda qual son io;

tu hai vedute cose, che possente

se' fatto a sostener lo riso mio».

Io era come quei che si risente

di visïone oblita e che s'ingegna

indarno di ridurlasi a la mente,

quand' io udi' questa proferta, degna

di tanto grato, che mai non si stingue

del libro che 'l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue

che Polimnïa con le suore fero

del latte lor dolcissimo più pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero

non si verria, cantando il santo riso

e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,

convien saltar lo sacrato poema,

come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema

e l'omero mortal che se ne carca,

nol biasmerebbe se sott' esso trema:

non è pareggio da picciola barca

quel che fendendo va l'ardita prora,

né da nocchier ch'a sé medesmo parca.

«Perché la faccia mia sì t'innamora,

che tu non ti rivolgi al bel giardino

che sotto i raggi di Cristo s'infiora?

Quivi è la rosa in che 'l verbo divino

carne si fece; quivi son li gigli

al cui odor si prese il buon cammino».

Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli

tutto era pronto, ancora mi rendei

a la battaglia de' debili cigli.

Come a raggio di sol, che puro mei

per fratta nube, già prato di fiori

vider, coverti d'ombra, li occhi miei;

vid' io così più turbe di splendori,

folgorate di sù da raggi ardenti,

sanza veder principio di folgóri.

O benigna vertù che sì li 'mprenti,

sù t'essaltasti, per largirmi loco

a li occhi lì che non t'eran possenti.

Il nome del bel fior ch'io sempre invoco

e mane e sera, tutto mi ristrinse

l'animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse

il quale e il quanto de la viva stella

che là sù vince come qua giù vinse,

per entro il cielo scese una facella,

formata in cerchio a guisa di corona,

e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona

qua giù e più a sé l'anima tira,

parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira

onde si coronava il bel zaffiro

del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.

«Io sono amore angelico, che giro

l'alta letizia che spira del ventre

che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre

che seguirai tuo figlio, e farai dia

più la spera supprema perché lì entre».

Così la circulata melodia

si sigillava, e tutti li altri lumi

facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi

del mondo, che più ferve e più s'avviva

ne l'alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l'interna riva

tanto distante, che la sua parvenza,

là dov' io era, ancor non appariva:

però non ebber li occhi miei potenza

di seguitar la coronata fiamma

che si levò appresso sua semenza.

E come fantolin che 'nver' la mamma

tende le braccia, poi che 'l latte prese,

per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma;

ciascun di quei candori in sù si stese

con la sua cima, sì che l'alto affetto

ch'elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,

'Regina celi' cantando sì dolce,

che mai da me non si partì 'l diletto.

Oh quanta è l'ubertà che si soffolce

in quelle arche ricchissime che fuoro

a seminar qua giù buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro

che s'acquistò piangendo ne lo essilio

di Babillòn, ove si lasciò l'oro.

Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio

di Dio e di Maria, di sua vittoria,

e con l'antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.

lunes, 24 de agosto de 2020

Purgatorio, Canto XXIX

CANTO XXIX

[Canto XXIX, dove si tratta sì come l'auttore contristato si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la celestiale corte in forma di certe figure.]

Cantando come donna innamorata,

continüò col fin di sue parole:

'Beati quorum tecta sunt peccata!'.

E come ninfe che si givan sole

per le salvatiche ombre, disïando

qual di veder, qual di fuggir lo sole,

allor si mosse contra 'l fiume, andando

su per la riva; e io pari di lei,

picciol passo con picciol seguitando.

Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei,

quando le ripe igualmente dier volta,

per modo ch'a levante mi rendei.

Né ancor fu così nostra via molta,

quando la donna tutta a me si torse,

dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».

Ed ecco un lustro sùbito trascorse

da tutte parti per la gran foresta,

tal che di balenar mi mise in forse.

Ma perché 'l balenar, come vien, resta,

e quel, durando, più e più splendeva,

nel mio pensier dicea: 'Che cosa è questa?'.

E una melodia dolce correva

per l'aere luminoso; onde buon zelo

mi fé riprender l'ardimento d'Eva,

che là dove ubidia la terra e 'l cielo,

femmina, sola e pur testé formata,

non sofferse di star sotto alcun velo;

sotto 'l qual se divota fosse stata,

avrei quelle ineffabili delizie

sentite prima e più lunga fïata.

Mentr' io m'andava tra tante primizie

de l'etterno piacer tutto sospeso,

e disïoso ancora a più letizie,

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,

ci si fé l'aere sotto i verdi rami;

e 'l dolce suon per canti era già inteso.

O sacrosante Vergini, se fami,

freddi o vigilie mai per voi soffersi,

cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami.

Or convien che Elicona per me versi,

e Uranìe m'aiuti col suo coro

forti cose a pensar mettere in versi.

Poco più oltre, sette alberi d'oro

falsava nel parere il lungo tratto

del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;

ma quand' i' fui sì presso di lor fatto,

che l'obietto comun, che 'l senso inganna,

non perdea per distanza alcun suo atto,

la virtù ch'a ragion discorso ammanna,

sì com' elli eran candelabri apprese,

e ne le voci del cantare 'Osanna'.

Di sopra fiammeggiava il bello arnese

più chiaro assai che luna per sereno

di mezza notte nel suo mezzo mese.

Io mi rivolsi d'ammirazion pieno

al buon Virgilio, ed esso mi rispuose

con vista carca di stupor non meno.

Indi rendei l'aspetto a l'alte cose

che si movieno incontr' a noi sì tardi,

che foran vinte da novelle spose.

La donna mi sgridò: «Perché pur ardi

sì ne l'affetto de le vive luci,

e ciò che vien di retro a lor non guardi?».

Genti vid' io allor, come a lor duci,

venire appresso, vestite di bianco;

e tal candor di qua già mai non fuci.

L'acqua imprendëa dal sinistro fianco,

e rendea me la mia sinistra costa,

s'io riguardava in lei, come specchio anco.

Quand' io da la mia riva ebbi tal posta,

che solo il fiume mi facea distante,

per veder meglio ai passi diedi sosta,

e vidi le fiammelle andar davante,

lasciando dietro a sé l'aere dipinto,

e di tratti pennelli avean sembiante;

sì che lì sopra rimanea distinto

di sette liste, tutte in quei colori

onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.

Questi ostendali in dietro eran maggiori

che la mia vista; e, quanto a mio avviso,

diece passi distavan quei di fori.

Sotto così bel ciel com' io diviso,

ventiquattro seniori, a due a due,

coronati venien di fiordaliso.

Tutti cantavan: «Benedicta tue

ne le figlie d'Adamo, e benedette

sieno in etterno le bellezze tue!».

Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette

a rimpetto di me da l'altra sponda

libere fuor da quelle genti elette,

sì come luce luce in ciel seconda,

vennero appresso lor quattro animali,

coronati ciascun di verde fronda.

Ognuno era pennuto di sei ali;

le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo,

se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forme più non spargo

rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,

tanto ch'a questa non posso esser largo;

ma leggi Ezechïel, che li dipigne

come li vide da la fredda parte

venir con vento e con nube e con igne;

e quali i troverai ne le sue carte,

tali eran quivi, salvo ch'a le penne

Giovanni è meco e da lui si diparte.

Lo spazio dentro a lor quattro contenne

un carro, in su due rote, trïunfale,

ch'al collo d'un grifon tirato venne.

Esso tendeva in sù l'una e l'altra ale

tra la mezzana e le tre e tre liste,

sì ch'a nulla, fendendo, facea male.

Tanto salivan che non eran viste;

le membra d'oro avea quant' era uccello,

e bianche l'altre, di vermiglio miste.

Non che Roma di carro così bello

rallegrasse Affricano, o vero Augusto,

ma quel del Sol saria pover con ello;

quel del Sol che, svïando, fu combusto

per l'orazion de la Terra devota,

quando fu Giove arcanamente giusto.

Tre donne in giro da la destra rota

venian danzando; l'una tanto rossa

ch'a pena fora dentro al foco nota;

l'altr' era come se le carni e l'ossa

fossero state di smeraldo fatte;

la terza parea neve testé mossa;

e or parëan da la bianca tratte,

or da la rossa; e dal canto di questa

l'altre toglien l'andare e tarde e ratte.

Da la sinistra quattro facean festa,

in porpore vestite, dietro al modo

d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.

Appresso tutto il pertrattato nodo

vidi due vecchi in abito dispari,

ma pari in atto e onesto e sodo.

L'un si mostrava alcun de' famigliari

di quel sommo Ipocràte che natura

a li animali fé ch'ell' ha più cari;

mostrava l'altro la contraria cura

con una spada lucida e aguta,

tal che di qua dal rio mi fé paura.

Poi vidi quattro in umile paruta;

e di retro da tutti un vecchio solo

venir, dormendo, con la faccia arguta.

E questi sette col primaio stuolo

erano abitüati, ma di gigli

dintorno al capo non facëan brolo,

anzi di rose e d'altri fior vermigli;

giurato avria poco lontano aspetto

che tutti ardesser di sopra da' cigli.

E quando il carro a me fu a rimpetto,

un tuon s'udì, e quelle genti degne

parvero aver l'andar più interdetto,

fermandosi ivi con le prime insegne.

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