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miércoles, 14 de octubre de 2020

XVIII. RIMPROVERO AI FIORENTINI

XVIII.

RIMPROVERO AI FIORENTINI.

Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu, continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali, percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro, tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che, non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio. Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato. Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente, del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e punite.

Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo; concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma: certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti. Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani, li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea, volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato. Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose, ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi onori lieta si glori tra' futuri.

miércoles, 19 de agosto de 2020

Inferno, Canto XXV

CANTO XXV

[Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia.]

Al fine de le sue parole il ladro

le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

perch' una li s'avvolse allora al collo,

come dicesse 'Non vo' che più diche';

e un'altra a le braccia, e rilegollo,

ribadendo sé stessa sì dinanzi,

che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d'incenerarti sì che più non duri,

poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri

non vidi spirto in Dio tanto superbo,

non quel che cadde a Tebe giù da' muri.

El si fuggì che non parlò più verbo;

e io vidi un centauro pien di rabbia

venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?».

Maremma non cred' io che tante n'abbia,

quante bisce elli avea su per la groppa

infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,

con l'ali aperte li giacea un draco;

e quello affuoca qualunque s'intoppa.

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,

che, sotto 'l sasso di monte Aventino,

di sangue fece spesse volte laco.

Non va co' suoi fratei per un cammino,

per lo furto che frodolente fece

del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d'Ercule, che forse

gliene diè cento, e non sentì le diece».

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,

e tre spiriti venner sotto noi,

de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,

se non quando gridar: «Chi siete voi?»;

per che nostra novella si ristette,

e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,

come suol seguitar per alcun caso,

che l'un nomar un altro convenette,

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;

per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,

mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

Se tu se' or, lettore, a creder lento

ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,

ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.

Com' io tenea levate in lor le ciglia,

e un serpente con sei piè si lancia

dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' piè di mezzo li avvinse la pancia

e con li anterïor le braccia prese;

poi li addentò e l'una e l'altra guancia;

li diretani a le cosce distese,

e miseli la coda tra 'mbedue

e dietro per le ren sù la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue

ad alber sì, come l'orribil fiera

per l'altrui membra avviticchiò le sue.

Poi s'appiccar, come di calda cera

fossero stati, e mischiar lor colore,

né l'un né l'altro già parea quel ch'era:

come procede innanzi da l'ardore,

per lo papiro suso, un color bruno

che non è nero ancora e 'l bianco more.

Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno

gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!

Vedi che già non se' né due né uno».

Già eran li due capi un divenuti,

quando n'apparver due figure miste

in una faccia, ov' eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;

le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso

divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:

due e nessun l'imagine perversa

parea; e tal sen gio con lento passo.

Come 'l ramarro sotto la gran fersa

dei dì canicular, cangiando sepe,

folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l'epe

de li altri due, un serpentello acceso,

livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso

nostro alimento, a l'un di lor trafisse;

poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;

anzi, co' piè fermati, sbadigliava

pur come sonno o febbre l'assalisse.

Elli 'l serpente e quei lui riguardava;

l'un per la piaga e l'altro per la bocca

 fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca

del misero Sabello e di Nasidio,

e attenda a udir quel ch'or si scocca.

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,

ché se quello in serpente e quella in fonte

converte poetando, io non lo 'nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte

non trasmutò sì ch'amendue le forme

a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,

che 'l serpente la coda in forca fesse,

e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.

Le gambe con le cosce seco stesse

s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura

non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura

che si perdeva là, e la sua pelle

si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,

e i due piè de la fiera, ch'eran corti,

tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li piè di rietro, insieme attorti,

diventaron lo membro che l'uom cela,

e 'l misero del suo n'avea due porti.

Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela

di color novo, e genera 'l pel suso

per l'una parte e da l'altra il dipela,

l'un si levò e l'altro cadde giuso,

non torcendo però le lucerne empie,

sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,

e di troppa matera ch'in là venne

uscir li orecchi de le gote scempie;

ciò che non corse in dietro e si ritenne

di quel soverchio, fé naso a la faccia

e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,

e li orecchi ritira per la testa

come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch'avëa unita e presta

prima a parlar, si fende, e la forcuta

ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

L'anima ch'era fiera divenuta,

suffolando si fugge per la valle,

e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,

e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,

com' ho fatt' io, carpon per questo calle».

Così vid' io la settima zavorra

mutare e trasmutare; e qui mi scusi

la novità se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi

fossero alquanto e l'animo smagato,

non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato;

l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.

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