sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO SESTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO SESTO
I
SENSO LETTERALE

[Lez. XXIII]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come ne' precedenti canti ha fatto, cosí in questo si continua l'autore alle cose dette. Egli, nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo cerchio dello 'nferno. E fa in questo canto l'autore cinque cose: nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse; nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove l'autore un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra l'autore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta quivi: «Noi aggirammo».

Discrive adunque l'autore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è mostrato, «Dinanzi alla pietá de' due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come ch'io mi muova», a destra o a sinistra, «E ch'io mi volga», in questa parte o in quella, «e come che io mi guati».

«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro a' quali addosso cade; «fredda», e per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere coloro a' quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non l'è nuova», sempre cade d'un modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che queste tre cose, causate da' vapori caldi e umidi e da aere freddo, nell'aere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per l'aer tenebroso si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè queste tre cose.

«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello 'nferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello 'nferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che l'autore qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole», percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi è sommersa» sotto la grandine e l'acqua e la neve. «Gli occhi ha vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E 'l ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.

«Urlar»; questo è proprio de' lupi, comeché e' cani ancora urlino spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso, «come cani. Dell'un de' lati fanno all'altro schermo», questi spiriti dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dall'un lato ricevutala, cosí si volgon dall'altro, infino a tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i miseri profani».

«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto all'uso comune d'ogni uomo, sí come alcun luogo, nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono rimasi profani.

«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale, sí come ne' superiori cerchi è addivenuto all'autore d'essere stato con alcuna parola spaventato da' diavoli presidenti a' cerchi, ne' quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso Virgilio e verso lui dimostra qui l'autore, dicendo: «Quando ci scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone l'autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo». Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.

«E 'l duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»; «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre, come di sopra è mostrato.

E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane ch'abbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa; quantunque s'usi in qualunque cosa l'uom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza piú abbaiare, «poi che 'l pasto morde», cioè quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «L'anime», in quel cerchio dannate, «sí, ch'esser vorrebber sorde», accioché udire nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel sesto dell'Eneida scrive:

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci

personat, adverso recubans immanis in antro.

Cui vates, horrere videns iam colla colubris,

melle soporatam et medicatis frugibus offam

obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,

corripit obiectam, atque immania terga resolvit

fusus humi, totoque ingens extenditur antro, ecc.

«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale l'autore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, d'alcune cose addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per l'ombre ch'adona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e ponevam le piante», de' piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».

Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra l'autore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dell'Eneida fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá, che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá nel canto venticinquesimo del Purgatorio, dove questa materia si tratta.

«Elle», cioè quell'anime, «giacean per terra tutte quante, Fuor d'una, ch'a seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come l'altre, «ratto», cioè tosto, «Ch'ella ci vide passarsi davante».

E disse cosí: - «O tu, che se' per questo inferno tratto», - cioè menato, «Mi disse, - riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire: - Guatami, e vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere; - e la ragione è questa, che - «Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «ch'io disfatto», - cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento dell'anima; e cosí né ella che se ne va, né 'l corpo che rimane, è piú uomo. E veramente nacque l'autore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.

«Ed io a lei», cioè a quella anima: - «L'angoscia, che tu hai», dal tormento nel quale tu se', «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non par ch'io ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi chi tu se', che 'n sí dolente Luogo se' messo», come questo è, «e a sí fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che s'altra è maggia», cioè maggiore, «nulla è sí spiacente». -

«Ed egli a me», rispuose cosí: - «La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu se', «ch'è piena D'invidia», ed énne piena «sí, che giá trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella n'è sí piena, che ella non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra l'altre invidie che in Firenze erano, ve n'era una, la quale gittò molto danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la 'nvidia, la quale portava la famiglia de' Donati alla famiglia de' Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come vicini in cittá e in contado, la famiglia de' Cerchi, li quali in quei tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta che, com'è detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino, «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.

[Lez. XXIV]

«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore di parole, e] le sue usanze erano sempre co' gentiliuomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali se chiamato era a mangiare, v'andava, e similmente se invitato non era, esso medesimo s'invitava. Ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio dell'inferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.

«Ed io anima trista»; e veramente è trista l'anima di chi a sí fatta perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorre' che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena stanno», che fo io, e «Per simil colpa» - cioè per lo vizio della gola: «e», detto questo, «piú non fe' parola».

«Io gli risposi», cioè gli dissi: - «Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «ch'a lagrimar m'invita»: e mostra qui l'autore d'aver compassione di lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar m'invita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo, mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in que' tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali l'una si chiamavano Bianchi e l'altra Neri; ed era caporale della setta de' Bianchi messer Vieri de' Cerchi, e di quella de' Neri messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «S'alcun v'è giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non alla singularitá d'alcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché l'ha tanta discordia assalita». - Domandalo adunque l'autore di tre cose, alle quali Ciacco secondo l'ordine della domanda successivamente risponde.

«Ed egli a me» (supple) rispose alla prima: - «Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme.

Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani dell'una setta e dell'altra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono l'una parte a sospignere l'altra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente, cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti a' ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso, di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.

«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia», percioché messer Vieri de' Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, e' suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno a' costumi cittadineschi, percioché non erano accostanti all'usanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá l'altra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende l'autor qui che la parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute da' Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú gravi a' Neri che a' Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto de' Bianchi.

«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto, li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero d'un sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, n'andò messer Corso Donati in corte di Roma a papa Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno de' reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo d'Acquasparta cardinale e legato di papa non s'era potuta racconciare, non volendo i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi de' quali, non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali l'opere sue, che, a' dí 4 d'aprile 1302, tutti i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e l'altra sormontata. [Nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, percioché in essa distesamente si pone.]

Séguita poi: «e che l'altra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia de' Bianchi e de' Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè d'aver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace, avervi mandato il cardinal d'Acquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché l'animo tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò l'autore dice essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.

«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo l'altra», parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che n'adonti», cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro fanno alli quali pare ricever torto.

«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dall'autore dove di sopra disse «s'alcun v'è giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine, v'ha due che son giusti. Quali questi due si sieno, sarebbe grave lo 'ndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel traggano, che voglion dire essere stato l'uno l'autor medesimo, e l'altro Guido Cavalcanti, il quale era d'una medesima setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.

«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville c'hanno i cuori accesi». - Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dall'autore di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché l'ha tanta discordia assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale era grande in messer Vieri e ne' consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli a' cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere stata invidia, la quale sente l'autore essere stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò, v'era la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati gl'ingegni e sospinti a trovar delle vie e de' modi, per li quali la discordia s'avanzò, e poi ne seguí quello ch'è mostrato.] Il terzo vizio dice essere l'avarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si conviene quello che l'uom possiede, e in disiderare piú che non bisogna altrui d'avere; e cosí può essere stata, e nell'una parte e nell'altra, cagione di discordia: nell'una, cioè nella Bianca, della quale erano caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero co' lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia a' piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá; il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita de' loro avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare.

«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri all'autor medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo esilio.

[Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare che convenientemente qui l'autore induca l'anima di Ciacco dannata a dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore supplicio sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore l'anime nostre perfette e simiglianti a sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire a' beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio, sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la memoria, l'eternitá e lo 'ntelletto, e in queste cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá, la quale conceduta n'ha. E se questa rimane a' dannati, meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere: per che non pare che l'autore inconvenientemente abbia del futuro addomandata l'anima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute, pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi: «Dixit Deus: - Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram». - E se fece egli questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose predette.]

[È il vero che queste cose furon concedute all'anima e non al corpo, percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute all'anima, la quale esso per ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è l'uomo, mentre ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come che tutti gli eserciti l'anima mentre viviamo, nondimeno alcuni n'esercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra in libro De divinatione, in quanto, quasi alleviata ne' sogni, ne dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a Simonide poeta, volente d'una parte in un'altra navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo, vedere, e udire da lui: - Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi d'andare, percioché ella perirá con quegli che su vi fieno in questo viaggio. - Per la qual cosa Simonide s'astenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage che 'l figliuolo, il quale di Mandane, sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio d'Asia? parendogli la prima volta che l'orina della figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer l'anima, né le potrebbe mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato libro, mostra l'anima molto della sua divinitá, quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole, piú pare che sia il vigor dell'anima, e massimamente in quanto, per l'essere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar l'anima, come quando intere sono. E che l'anima mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del corpo, s'è assai volte, non dormendo, ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio, famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano d'India, essendo salito, nella presenza d'Alessandro, re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose: - Io ti vedrò di qui a pochi dí; - e quindi, fatto accendere il rogo, si morí. Non istette guari che Alessandro morí in Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in que' tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell'anno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de' loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo: - vienne, tale e tale, - de' quali chiamati e nominati, assai, secondo l'ordine tenuto dal chiamatore, s'eran morti e andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare nell'anime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto noiata da gl'impedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo esse ne' corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare, quando del tutto da' corpi libere sono? E' non è dubbio che molto piú la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente l'autore aver domandata l'anima dannata, come altra volta è stato detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio moveano, volevan mostrare.]

[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede alcuna felicitá d'alcuno, questo essere ad accrescimento della sua miseria, e cosí il prevedere gl'infortuni, li quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi: - «Ancor», oltre a ciò che detto m'hai, «vo' che m'insegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e 'l Tegghiaio», Aldobrandi, «che fûr sí degni» d'onore, quanto è al giudicio de' volgari, li quali sempre secondo l'apparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino; «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», de' Lamberti.

Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda l'autore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri cittadini, «che 'n ben far», corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser gl'ingegni», cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e fa' ch'io gli conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale se', gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere Se 'l ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o l'inferno gli attosca», - cioè riempie d'amaritudine e di tormento.

«E quegli» (supple) rispose: - «Ei son», coloro de' quali tu domandi, «tra l'anime piú nere».

Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso; e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, de' quali l'autore domanda, essere tra «l'anime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e 'l Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá, che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo dell'inferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai vedere».

«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia l'amaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna, altro che piena d'angoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti ch'alla mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non l'ha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio lasciare, che egli non addomandasse che l'autore di lui, tornato di qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti dico», cioè d'altro non ti priego, «e piú non ti rispondo», - alle cose delle quali domandato m'hai.

«Li diritti occhi», co' quali infino a quel punto guardato avea l'autore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con essa a par degli altri ciechi», cioè de' dannati a quella medesima pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio.

«E 'l duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto: - «Piú non si desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra l'altre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare né parlare; «Di qua dal suon dell'angelica tromba», cioè di qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con altissima voce, quasi sia una tromba, e' dirá: - «Surgite, mortui, et venite ad iudicium»; - «Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui che meritamente gli riprende.]

E seguisce, al suono dell'angelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza, [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma accioché il corpo, il quale fu strumento dell'anima a commettere le colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá a' dannati: - «Ite maledicti in ignem aeternum», - ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente loro.

«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale l'autore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo», lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dell'ombre e della pioggia», la quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione de' corpi, sí per le parole passate, e sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dall'autore.

«Perch'io dissi: - Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio nell'ultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o saran sí cocenti», - come sono al presente?

«Ed egli a me» (supple) rispose: - «Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la doglienza». E questo ci è tutto il dí manifesto, percioché noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e gl'incendi molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita, dobbiam credere dovere avvenire a' dannati, quando i corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.

«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta: e, percioché ne' dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti, dice l'autore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere aspetta», - in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale l'autor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come molte volte è stato detto; «Parlando piú assai ch'io non ridico», pure intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello 'nferno. «Quivi trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui l'autore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono a' mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo nell'Evangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dell'ago. [Le quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in Ierusalem stata una porta chiamata Cruna d'ago, sí piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato v'entrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè all'abbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, l'entrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche, ecc.]

CANTO QUINTO, II, SENSO ALLEGORICO

II

SENSO ALLEGORICO

«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá delle colpe piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la divina giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono. E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra in questo cerchio secondo esser dannati que' peccatori, li quali, oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua intenzione.

Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona di Minos, la severitá della divina giustizia. Intorno alla qual dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché piú in questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia dimostrata; la seconda, perché piú in persona di Minos che d'un altro.

Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra parte dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú, la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, quantunque questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle quali ella del tutto è schifa d'intramettersi, estimando ottimamente fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non le pare quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno, essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere degli animali, ne' quali non è alcuna ragione. E queste cotali operazioni son quelle de' furiosi e de' mentacatti e de' fanciulli e degl'ignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e, dove elezione e volontá esser non può intorno all'adoperare, non pare che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni altri, se non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o ignoranti, come è dimostrato; intorno a' quali se la giustizia non s'interpone, era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di sopra a loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe stata oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo luogo dimostrata, e' ne seguivano altri inconvenienti. Primieramente pare che avessero potuto de' peccatori, che alle piú profonde parti dello 'nferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi nelle parti dell'inferno che state fossero superiori al luogo dove stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono stati secondo le colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera d'Acheronte, similmente gli farebbe pronti a discendere infino lá dove ella fosse, ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto giú quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e cosí sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate: il che è contro agli effetti della giustizia. E però ottimamente in questa parte la discrive l'autore, nella quale niuna cosa de' superiori s'impaccia; né hanno, quelli che ne' cerchi piú alti esser debbono, a discender giuso; né può alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che non gli convenga venire alla sua esaminazione.

nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e per tutto distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle fare alcuna esaminazione o inquisizione de' nostri meriti o delle nostre colpe, come alla giustizia de' mortali bisogna; percioché, nel cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi a' nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.

Resta a vedere perché piú in persona di Minos che d'alcun altro ministro infernale ne sia dimostrata questa giustizia; [e con questo è da vedere quello che l'autore abbia voluto sentire in ciò che egli fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi giudíci. E avanti all'altre cose, pare,] richeggionsi ne' ministri della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere prudente al ministro della giustizia, accioché egli per la prudenza cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a vedere quello che di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la qualitá de' tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che muova o susciti un romore ne' tempi della guerra, quando gli stati delle cittá stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli conosca la qualitá de' luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio o in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota e non molto frequentata dall'usanza degli uomini. Conviensi, per la prudenza, che egli sappia discernere i movimenti di quegli che peccano, di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia. Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da quello, che conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non priego, non amore, non odio, non prezzo, non lusinga o cose simili a queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse, mai giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla gratificazione. Puossi infra' processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri della giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú all'una parte che all'altra esser grazioso; la qual cosa nelle cose e ne' tempi debiti non è vizio, ma è segno d'equitá d'animo nel giudicante; fuori de' tempi debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in servare strettamente l'ordine della ragione, e di quello per cagione alcuna non uscire; e massimamente ne' giudici di Dio, il quale insino allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua misericordia n'aspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere, e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire, essendo la sua sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá dee qui il ministro della sua giustizia quella mandare ad esecuzione. Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere ne' processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di lui da coloro li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi a' popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente, ridusse per sua industria a vivere sotto il giogo della giustizia. Che egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da quello che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua severitá in Scilla, figliuola di Niso, re de' megarensi, la quale, da disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí il padre, e fecel signor di Megara e a lui se n'andò; per la qual cosa, quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei, sí come ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta severitá servò, che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa, dopo la sua morte, estimarono gli uomini, ne' loro errori, lui essere appo l'anime d'inferno eletto a quel medesimo ufficio esercitare tra loro che in questa vita tra' suoi esercitava, sí come nella esposizione letterale si dimostrò.

Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos in questo luogo figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina giustizia dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno all'esecuzione de' suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda essere l'ultimo membro e l'ultima parte del corpo di qualunque animale, al quale la natura l'ha conceduta; e, quantunque ella serva a piú cose gli animali che l'hanno, alla presente materia non intende l'autore altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della vita nostra, secondo la qualitá della quale si forma il giudicio della divina giustizia: percioché, quantunque l'uomo sia scelleratamente vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle malfatte cose, e con buona compunzione e con puro cuore, si rivolge alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa e giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli n'è dimostrato per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il quale avendo tutti i dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti all'ora della sua morte, con contrito cuore, non dicendo altro che: - «Miserere mei, Domine, cum veneris in regnum tuum», - il fece la misericordia di Dio degno d'udire dalla bocca di Cristo: - «Amen dico tibi, hodie mecum eris in Paradiso»: - né è dubbio alcuno che a queste parole non seguisse l'effetto; e cosí solamente all'ultima parte della vita, cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí in contrario, essendo Giuda Scariotto stato de' discepoli di Cristo, e usato con lui, e avendo la sua dottrina udita, quantunque male poi adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al profondo dello 'nferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con le colpe piú gravi, con le quali e' muore, del luogo il quale e' dee in inferno avere, è dimostratore.]

[Lez. XXII]

Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá de' dannati in questo secondo cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia conforme il supplicio, il quale l'autore ne dimostra essere lor dato dalla divina giustizia.

Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi. Intorno al vizio de' quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la natura avvedutamente, accioché, per l'atto del coito, ciascuno animale generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di quello; e, se questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto verrebber meno i generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra e 'l mare di possessori. È vero che ell'ha in ciascun altro animale, che nell'uomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti de' maschi loro se non alcuna volta l'anno, e questa non si prolunga in molti dí, infra' quali le femmine si rendono benivole e amorevoli alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non vogliono. Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli conobbe animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando e quanto s'appartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi ricorda d'aver letto che appo coloro, li quali mondanamente vivono, alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una femmina: e questa fu una donna d'Arabia, reina de' palmireni, chiamata Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato, suo marito, essersi voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei, piú accostare nol si lasciava infino a tanto che ella non conosceva se conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva un'altra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo 'l parto, piú non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di questa reina, o come gli uomini in questo usino il giudicio della ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove essi, la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che possono o sanno in contrario si sforzano.

Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale, quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a disiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli, per non esser cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto l'avessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa fu questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i moderni giovani fanno tutto il contrario: i costumi de' quali avere alquanto morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser piacevole ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina, in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger quell'altro altrove, in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica lasciandogli crescere, attrecciandogli, avvolgendosegli alla testa, e talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto chericile raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare epa del petto, non in su' lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e a' calzamenti portare le punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono le donne, e trarle ne' lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e di quelle non mani, ma branche piú tosto d'orso cacciare. Né vo' dire de' cappuccini, co' quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, co' quali quasi sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato. E lascerò stare gli atti, gli andamenti, e' portamenti, il cantare, il carolare, e cosí le promesse e' doni, de' quali si può però piú tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e a un solo lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia, percioché con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano, mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse, guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non sará da que' cotali differenza alcuna da' bruti animali. Ingegnossi la natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, que' membri dei quali mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a ciò, l'uso, della vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla natura, secondo che ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli co' vestimenti, e quantunque o necessitá o usanza l'altre parti del corpo scoperte patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani, che scoperte le sofferí. Gl'indiani, gli etiopi, i garamanti e gli altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano, quantunque da soperchio caldo sforzati sieno d'andare ignudi, quelle parti in alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dich'io gl'indiani e gli etiopi, li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume? Quegli popoli, li quali abitano l'isole ritrovate (gente, si può dire, [fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte, né costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente vivono), di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica tessute o annodate piú tosto, fanno ostaculi, co' quali quelle parti nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati ne' liti, quantunque faticati e percossi dall'onde sieno, nondimeno, non curandosi di tutto l'altro corpo perché ignudo sia, quella parte, se con altro non hanno, s'ingegnano di ricoprire con le mani. I poveri uomini, a' quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono che rimanga scoperta. I mentacatti e' furiosi e gli ebbri, mentre che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che que' membri in aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza, ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito e a' conforti del nemico dell'umana generazione sospignere, che non altramenti col viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione avesser fatta o facessono.

Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume, ragioni vie piú vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo primieramente: - Noi seguiamo l'usanze dell'altre nazioni: cosí fanno gl'inghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi e' provenzali. - Non s'avveggono i miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion confessino. Solevano gl'italiani, mentre che le troppe delicatezze non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge e' costumi e' modi del vivere a tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá, la nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dov'e' segue, se dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi, da quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi, dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava, né sapeva, né saprebbe, se non quanto dagl'italiani fu lor dimostrata (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo, confessiamo d'esser noi i servi, d'esser coloro che viver non sappiamo se da loro non apprendiamo; e cosí d'aver loro per maggiori e per piú nobili e per piú costumati. O miseri! non s'accorgono questi cotali da quanta gran viltá d'animo proceda che un italiano séguiti i costumi di cosí fatte genti.

E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto costume tôrre i giovani, ne' quali è il fervor del sangue e le forze, e' dovrebbe esser la grandezza dell'animo, se non un giusto sdegno; non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi d'aver mai seguitato o seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono d'esser nelle lor brutte invenzioni degl'italiani imitate.

Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono che i vestimenti lunghi gl'impedivano e non gli lasciavano nelle cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano e d'ogni ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro, li quali piú lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che troppo sarebbe lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto co' panni lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con l'arme in dosso ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor facesser noia i panni lunghi, ne' quali erano in continovi e grandi esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser di necessitá agli uomini, gli quali sono in fatti d'arme, l'avere i panni corti, come a coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi e ch'egli hanno le natiche tonde e grosse le cosce. O dissensati! Solevansi i giovani vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun altro che i romani similmente gli portavano corti come essi fanno. E nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova per scrittura che io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste io credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne vidi, che, o da' vestimenti o dall'armadure, non fosse almeno infino al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai manifestamente, si vede che assai mal procede l'argomento che i panni lunghi impediscano.

E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io un'altra delle lor savie ragioni non discriva, percioché estimano quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli d'ogni loro disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne mostran loro con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata, dove ella è abominevole tra' sensati. Ma non pensano i miseri quanto scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti de' figliuoli esser mosse, come l'altre femmine si muovono; conciosiacosaché la natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo all'onestá della parentela. Nel vero io non l'ardirei affermare, quantunque giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire che, se ciò non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è cagione il vituperevole costume de' figliuoli; né discrederò che, quel che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non s'accorgono i dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine disiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate e nell'altre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte caggiano ne' lacciuoli scioccamente tesi da loro, rade volte avviene che, da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti d'uomini non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che loro ancora non saria di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che, lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo, le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre de' pensieri, ma le parole men che oneste de' non cauti padri aver loro prima strupatore che marito trovato.

Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque biasimevole sia molto alle donne mostrare con le poppe il petto, non sono perciò le poppe de' membri osceni e che nascondere del tutto si deano; percioché, se di quegli fossono, non l'avrebbe la natura poste in cosí aperta e patente parte del corpo come è il petto, anzi si sarebbe ingegnata d'occultarle, come gli altri fece. Oltre a questo, le poppe sono a' sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle sieno quelle, onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando i nostri primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come Adam, fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di Dio, che creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio si vergognano, né degli uomini. [Similmente, quando i predetti di paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon lor fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali, partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di se medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro scostumaggine dir le donne: - Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre. - ] vero che, quantunque il costume de' giovani nella parte mostrata biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle donne, le quali d'altra parte, non potendo nascondere il fervore inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte s'ingegnano, in ciò ch'elle possono, di quello adoperare che possa provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro congiugnimenti. Elle si dipingono, elle s'adornano, elle si azzimano, e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano; ballano, cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare i costumi.

Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne il destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non contenti solamente a' portamenti, ma con gli odori arabici, con le cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e contro all'amor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine, sí come colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua l'ossa, guasta lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa l'ingegno, debilita il vedere e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte de' giovani e amica delle femmine, madre di bugie, nemica d'onestá, guastamento di fede, conforto de' vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e abominazione e vituperio de' vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di volere che uno fosse contento d'una e una d'uno; il che poi nella legge data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé l'onestá publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole, e similemente i padri e' figliuoli, e gli adultèri essendo stati proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai, cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le femmine le quali a' divini servigi avessero sagrate le nostre leggi. Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque in questa colpa caggendo per incontenenza molto s'offenda Iddio, secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave. E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle distintamente mostrare.]

[Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»; il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata, quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle de' templi e de' reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente quelle le quali eran fatte a sostentamento de' gradi de' teatri; i quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano, prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare opera al loro disonesto servigio con quegli a' quali piaceva: e cosí da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè «fornicazione».]

[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da «stupore», in quanto, quando prese l'uso, non solamente in vergine si commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con questa turpitudine maculata l'onestá del parentado che l'avere viziata la verginitá d'alcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]

[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie «adulterio»: e venne questo nome dall'effetto del vizio, cioè «adulterium, alterius ventrem terens»: cioè l'adulterio è il priemere l'altrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è premuto, ma del marito di lei.]

[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura di Venere, la quale è da' poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti, che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata «ceston», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «Et a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia, blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium», ecc. E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa sua cintura detta «ceston», a dimostrazione che quegli, li quali per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati l'uno all'altro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente alla perpetuitá d'esso. E, percioché Venere similmente va a' non legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata «ceston»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono «incesto», cioè fatta senza questo ceston: ma questa generalitá è stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque l'altre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente s'offenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato «stupro»; e per avventura non senza sentimento s'aggiugne, percioché questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non si puote, cosí tra' congiunti può mai intervenire matrimonio, dove nell'altre spezie potrebbe intervenire.]

[Commettesi ancora questo vizio, e nell'un sesso e nell'altro, contro alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non dimostra l'autore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente libro.]

[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che l'una meriti molto maggior pena che l'altra, non appare però nel supplicio attribuito al lussurioso l'autore punirne una piú gravemente che un'altra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]

Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è naturale. quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta se n'aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello 'nferno, il quale è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a Dio, vuole l'autore questo peccato esser punito.

L'origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell'attitudine a questa colpa datane da' cieli; la quale parrebbe ne dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò. il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli piace. E, quantunque questa attitudine n'abbia a rendere inchinevoli a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno, se 'l calor naturale ed eziandio l'accidentale non accendessero, e, accendendo, confortassero l'appetito concupiscibile desto dalle cose piaciute e inchinato dall'attitudine, non è da dubitare che la concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «Sine Cerere et Baccho friget Venus».

Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito. E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e le cose inducenti all'atto libidinoso e la libidine, considerata la qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta né finisce il suo disiderio d'aver copia di veder la cosa amata, d'aver copia di parlarle, d'aver copia d'abbracciarla e di baciarla, se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne, accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente consolarsi; mostrando, per questo, l'ultimo e il maggiore diletto di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali, ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme l'una all'altra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e molto dilettevole a' corpi, cosí questa è odiata, e, s'elle potesser, fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore e i movimenti del corpo con fatica s'esercitarono, cotanto nello eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò a' disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi, che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta, percioché l'impeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza l'un nell'altro riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si vedrá l'autore far corrispondersi col peccato la pena.

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