sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO SESTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO SESTO
I
SENSO LETTERALE

[Lez. XXIII]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come ne' precedenti canti ha fatto, cosí in questo si continua l'autore alle cose dette. Egli, nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo cerchio dello 'nferno. E fa in questo canto l'autore cinque cose: nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse; nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove l'autore un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra l'autore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta quivi: «Noi aggirammo».

Discrive adunque l'autore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è mostrato, «Dinanzi alla pietá de' due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come ch'io mi muova», a destra o a sinistra, «E ch'io mi volga», in questa parte o in quella, «e come che io mi guati».

«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro a' quali addosso cade; «fredda», e per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere coloro a' quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non l'è nuova», sempre cade d'un modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che queste tre cose, causate da' vapori caldi e umidi e da aere freddo, nell'aere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per l'aer tenebroso si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè queste tre cose.

«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello 'nferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello 'nferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che l'autore qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole», percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi è sommersa» sotto la grandine e l'acqua e la neve. «Gli occhi ha vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E 'l ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.

«Urlar»; questo è proprio de' lupi, comeché e' cani ancora urlino spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso, «come cani. Dell'un de' lati fanno all'altro schermo», questi spiriti dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dall'un lato ricevutala, cosí si volgon dall'altro, infino a tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i miseri profani».

«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto all'uso comune d'ogni uomo, sí come alcun luogo, nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono rimasi profani.

«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale, sí come ne' superiori cerchi è addivenuto all'autore d'essere stato con alcuna parola spaventato da' diavoli presidenti a' cerchi, ne' quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso Virgilio e verso lui dimostra qui l'autore, dicendo: «Quando ci scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone l'autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo». Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.

«E 'l duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»; «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre, come di sopra è mostrato.

E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane ch'abbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa; quantunque s'usi in qualunque cosa l'uom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza piú abbaiare, «poi che 'l pasto morde», cioè quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «L'anime», in quel cerchio dannate, «sí, ch'esser vorrebber sorde», accioché udire nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel sesto dell'Eneida scrive:

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci

personat, adverso recubans immanis in antro.

Cui vates, horrere videns iam colla colubris,

melle soporatam et medicatis frugibus offam

obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,

corripit obiectam, atque immania terga resolvit

fusus humi, totoque ingens extenditur antro, ecc.

«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale l'autore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, d'alcune cose addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per l'ombre ch'adona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e ponevam le piante», de' piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».

Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra l'autore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dell'Eneida fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá, che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá nel canto venticinquesimo del Purgatorio, dove questa materia si tratta.

«Elle», cioè quell'anime, «giacean per terra tutte quante, Fuor d'una, ch'a seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come l'altre, «ratto», cioè tosto, «Ch'ella ci vide passarsi davante».

E disse cosí: - «O tu, che se' per questo inferno tratto», - cioè menato, «Mi disse, - riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire: - Guatami, e vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere; - e la ragione è questa, che - «Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «ch'io disfatto», - cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento dell'anima; e cosí né ella che se ne va, né 'l corpo che rimane, è piú uomo. E veramente nacque l'autore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.

«Ed io a lei», cioè a quella anima: - «L'angoscia, che tu hai», dal tormento nel quale tu se', «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non par ch'io ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi chi tu se', che 'n sí dolente Luogo se' messo», come questo è, «e a sí fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che s'altra è maggia», cioè maggiore, «nulla è sí spiacente». -

«Ed egli a me», rispuose cosí: - «La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu se', «ch'è piena D'invidia», ed énne piena «sí, che giá trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella n'è sí piena, che ella non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra l'altre invidie che in Firenze erano, ve n'era una, la quale gittò molto danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la 'nvidia, la quale portava la famiglia de' Donati alla famiglia de' Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come vicini in cittá e in contado, la famiglia de' Cerchi, li quali in quei tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta che, com'è detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino, «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.

[Lez. XXIV]

«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore di parole, e] le sue usanze erano sempre co' gentiliuomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali se chiamato era a mangiare, v'andava, e similmente se invitato non era, esso medesimo s'invitava. Ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio dell'inferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.

«Ed io anima trista»; e veramente è trista l'anima di chi a sí fatta perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorre' che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena stanno», che fo io, e «Per simil colpa» - cioè per lo vizio della gola: «e», detto questo, «piú non fe' parola».

«Io gli risposi», cioè gli dissi: - «Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «ch'a lagrimar m'invita»: e mostra qui l'autore d'aver compassione di lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar m'invita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo, mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in que' tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali l'una si chiamavano Bianchi e l'altra Neri; ed era caporale della setta de' Bianchi messer Vieri de' Cerchi, e di quella de' Neri messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «S'alcun v'è giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non alla singularitá d'alcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché l'ha tanta discordia assalita». - Domandalo adunque l'autore di tre cose, alle quali Ciacco secondo l'ordine della domanda successivamente risponde.

«Ed egli a me» (supple) rispose alla prima: - «Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme.

Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani dell'una setta e dell'altra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono l'una parte a sospignere l'altra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente, cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti a' ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso, di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.

«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia», percioché messer Vieri de' Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, e' suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno a' costumi cittadineschi, percioché non erano accostanti all'usanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá l'altra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende l'autor qui che la parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute da' Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú gravi a' Neri che a' Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto de' Bianchi.

«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto, li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero d'un sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, n'andò messer Corso Donati in corte di Roma a papa Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno de' reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo d'Acquasparta cardinale e legato di papa non s'era potuta racconciare, non volendo i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi de' quali, non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali l'opere sue, che, a' dí 4 d'aprile 1302, tutti i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e l'altra sormontata. [Nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, percioché in essa distesamente si pone.]

Séguita poi: «e che l'altra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia de' Bianchi e de' Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè d'aver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace, avervi mandato il cardinal d'Acquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché l'animo tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò l'autore dice essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.

«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo l'altra», parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che n'adonti», cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro fanno alli quali pare ricever torto.

«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dall'autore dove di sopra disse «s'alcun v'è giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine, v'ha due che son giusti. Quali questi due si sieno, sarebbe grave lo 'ndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel traggano, che voglion dire essere stato l'uno l'autor medesimo, e l'altro Guido Cavalcanti, il quale era d'una medesima setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.

«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville c'hanno i cuori accesi». - Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dall'autore di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché l'ha tanta discordia assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale era grande in messer Vieri e ne' consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli a' cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere stata invidia, la quale sente l'autore essere stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò, v'era la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati gl'ingegni e sospinti a trovar delle vie e de' modi, per li quali la discordia s'avanzò, e poi ne seguí quello ch'è mostrato.] Il terzo vizio dice essere l'avarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si conviene quello che l'uom possiede, e in disiderare piú che non bisogna altrui d'avere; e cosí può essere stata, e nell'una parte e nell'altra, cagione di discordia: nell'una, cioè nella Bianca, della quale erano caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero co' lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia a' piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá; il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita de' loro avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare.

«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri all'autor medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo esilio.

[Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare che convenientemente qui l'autore induca l'anima di Ciacco dannata a dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore supplicio sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore l'anime nostre perfette e simiglianti a sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire a' beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio, sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la memoria, l'eternitá e lo 'ntelletto, e in queste cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá, la quale conceduta n'ha. E se questa rimane a' dannati, meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere: per che non pare che l'autore inconvenientemente abbia del futuro addomandata l'anima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute, pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi: «Dixit Deus: - Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram». - E se fece egli questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose predette.]

[È il vero che queste cose furon concedute all'anima e non al corpo, percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute all'anima, la quale esso per ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è l'uomo, mentre ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come che tutti gli eserciti l'anima mentre viviamo, nondimeno alcuni n'esercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra in libro De divinatione, in quanto, quasi alleviata ne' sogni, ne dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a Simonide poeta, volente d'una parte in un'altra navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo, vedere, e udire da lui: - Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi d'andare, percioché ella perirá con quegli che su vi fieno in questo viaggio. - Per la qual cosa Simonide s'astenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage che 'l figliuolo, il quale di Mandane, sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio d'Asia? parendogli la prima volta che l'orina della figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer l'anima, né le potrebbe mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato libro, mostra l'anima molto della sua divinitá, quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole, piú pare che sia il vigor dell'anima, e massimamente in quanto, per l'essere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar l'anima, come quando intere sono. E che l'anima mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del corpo, s'è assai volte, non dormendo, ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio, famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano d'India, essendo salito, nella presenza d'Alessandro, re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose: - Io ti vedrò di qui a pochi dí; - e quindi, fatto accendere il rogo, si morí. Non istette guari che Alessandro morí in Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in que' tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell'anno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de' loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo: - vienne, tale e tale, - de' quali chiamati e nominati, assai, secondo l'ordine tenuto dal chiamatore, s'eran morti e andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare nell'anime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto noiata da gl'impedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo esse ne' corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare, quando del tutto da' corpi libere sono? E' non è dubbio che molto piú la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente l'autore aver domandata l'anima dannata, come altra volta è stato detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio moveano, volevan mostrare.]

[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede alcuna felicitá d'alcuno, questo essere ad accrescimento della sua miseria, e cosí il prevedere gl'infortuni, li quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi: - «Ancor», oltre a ciò che detto m'hai, «vo' che m'insegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e 'l Tegghiaio», Aldobrandi, «che fûr sí degni» d'onore, quanto è al giudicio de' volgari, li quali sempre secondo l'apparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino; «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», de' Lamberti.

Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda l'autore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri cittadini, «che 'n ben far», corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser gl'ingegni», cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e fa' ch'io gli conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale se', gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere Se 'l ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o l'inferno gli attosca», - cioè riempie d'amaritudine e di tormento.

«E quegli» (supple) rispose: - «Ei son», coloro de' quali tu domandi, «tra l'anime piú nere».

Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso; e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, de' quali l'autore domanda, essere tra «l'anime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e 'l Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá, che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo dell'inferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai vedere».

«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia l'amaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna, altro che piena d'angoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti ch'alla mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non l'ha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio lasciare, che egli non addomandasse che l'autore di lui, tornato di qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti dico», cioè d'altro non ti priego, «e piú non ti rispondo», - alle cose delle quali domandato m'hai.

«Li diritti occhi», co' quali infino a quel punto guardato avea l'autore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con essa a par degli altri ciechi», cioè de' dannati a quella medesima pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio.

«E 'l duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto: - «Piú non si desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra l'altre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare né parlare; «Di qua dal suon dell'angelica tromba», cioè di qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con altissima voce, quasi sia una tromba, e' dirá: - «Surgite, mortui, et venite ad iudicium»; - «Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui che meritamente gli riprende.]

E seguisce, al suono dell'angelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza, [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma accioché il corpo, il quale fu strumento dell'anima a commettere le colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá a' dannati: - «Ite maledicti in ignem aeternum», - ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente loro.

«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale l'autore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo», lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dell'ombre e della pioggia», la quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione de' corpi, sí per le parole passate, e sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dall'autore.

«Perch'io dissi: - Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio nell'ultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o saran sí cocenti», - come sono al presente?

«Ed egli a me» (supple) rispose: - «Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la doglienza». E questo ci è tutto il dí manifesto, percioché noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e gl'incendi molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita, dobbiam credere dovere avvenire a' dannati, quando i corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.

«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta: e, percioché ne' dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti, dice l'autore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere aspetta», - in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale l'autor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come molte volte è stato detto; «Parlando piú assai ch'io non ridico», pure intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello 'nferno. «Quivi trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui l'autore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono a' mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo nell'Evangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dell'ago. [Le quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in Ierusalem stata una porta chiamata Cruna d'ago, sí piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato v'entrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè all'abbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, l'entrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche, ecc.]

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