miércoles, 21 de octubre de 2020

CANTO QUARTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO QUARTO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. XI]

«Ruppemi l'alto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente canto, sí come usato è l'autore, alle cose dette nella fine del precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento, il fece cadere, come l'uomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il sonno e come nello 'nferno si ritrovasse; nella seconda, procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».

Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione, la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza a' comandamenti e a' piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia da' ministri della giustizia punito nell'altra.

«L'alto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual, volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:

Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,

pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris

fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc.

E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, in tragedia Herculis furentis, dove dice:

..... tuque o domitor,

somne, malorum, requies animi,

pars humanae melior vitae,

volucer, matris genus Astreae,

frater durae languidae Mortis,

veris miscens falsa, futuri

certus et idem pessimus auctor:

pater o rerum, portus vitae,

lucis requies noctisque comes,

qui par regi famuloque venis,

placidus, fessum lenisque fovens:

pavidum Leti genus humanum

cogis longam discere mortem, ecc.

Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun disiderasse.

«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in questo luogo intende l'autore, percioché nel capo dimora il sonno causato da' vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per l'arterie al cerebro.

«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce da' nuvoli, quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come Aristotile mostra nel terzo libro della sua Meteora; percioché, essendo l'esalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate, sforzandosi quelle d'uscir fuori e queste di ritenerle, avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle s'accendono, e, per quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá, ch'ella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual cosa intervenir non può in quello luogo dove l'autore disegna che era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano tuono causare: per che assai chiaro puote apparere l'autore per questo «tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è stato mostrato nell'allegoria del precedente canto.

«Sí, ch'io mi riscossi, Come persona ch'è per forza desta». E in queste parole mostra ancor l'autore gli atti infernali tutti essere violenti. «E l'occhio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché non solamente l'occhio, ma ciascun altro senso n'è incerto di sé divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra l'autore il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè «Per conoscer lo loco, dov'io fossi», percioché quello non gli pareva dove il sonno l'avea preso.

«Vero è»: qui dimostra d'aver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai», cosí desto, «Della valle d'abisso dolorosa», sopra la quale come esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente canto mostrato: «Che tuono accoglie d'infiniti guai», cioè un romore tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», all'apparenza, «profonda era», all'esistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre all'oscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza delle tenebre e della nebbia.

«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte del presente canto dimostra l'autore per una medesima colpa, cioè per non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere de' predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda quivi: «Non lasciavam l'andar», ecc. Nella prima parte l'autore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti di sopra dette, e pone delle due, delle quali l'una dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, l'altra dice essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio gli solve. E comincia questa seconda quivi: - «Dimmi maestro mio», ecc.

Dice adunque cosí: - «Or discendiam», percioché in quel luogo sempre infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo», - cioè in inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural luce non v'è: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto», cioè pallido oltre l'usato. È il vero che l'uomo impallidisce per l'una delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e l'altre evacuazioni, le quali vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí per compassione. - «Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai secondo», - cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dell'andare, renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni ostacolo, il quale l'andare impedisce, e quello rimuove, se egli è buono e valoroso duca.

«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto», riguardandolo nel viso, «Dissi: - Come verrò», io appresso, «se tu», che vai avanti ed ha'mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi», cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel secondo canto, dove tu dell'animo cacciasti la viltá sopravvenutavi. -

«Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse: - «L'angoscia delle genti», onorevoli e d'alta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio dello 'nferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.

«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché la via lunga ne sospigne» - a dover andare. «Cosí si mise», procedendo, «e cosí mi fe' entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel limbo, «che l'Abisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.

«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non avea pianto mai», cioè d'altro, «che di sospiri». È il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non facesse, potrebbe l'angoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e tanto gonfiare d'intorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá dell'angoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che l'aura eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura» un soave movimento d'aere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi v'è ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»), «facevan», gl'impeti de' sospiri, «tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.

«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè moltitudini, «ch'eran grandi, D'infanti», cioè di pargoli, li quali «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che perfettamente potesson parlare (e questa è l'una delle due maniere di genti, delle quali dissi che l'autor trattava in questa parte), «e di femmine e di viri», cioè d'uomini (e questa è l'altra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali una medesima cosa direi loro essere e gl'infanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice: «D'infanti e di femmine e di viri», non mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella presente vita gl'infanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno, al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento; anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo, è conceduto.]

«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare; percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio l'essere domandato, per che poi d'alcuna cosa domandato non l'avea) «a me» disse: - «Tu non dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che l'uditore addomandar dovea, e dice: «Or vo' che sappi, avanti che piú andi, Ch'e' non peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e s'egli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perch'e' non ebber battesmo». E questo n'è assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «Amen, amen, dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest intrare in regnum Dei». È adunque il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti, nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí come qui afferma l'autore. «Ch'è parte della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, de' quali dodici è il battesimo uno.

Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro de' quali noi parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto non l'adoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono de' comandamenti dati da lui al popol suo, ne' quali, ben intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io medesmo»: percioché Virgilio, sí come in libro Temporum d'Eusebio si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone Della nativitá di Cristo, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata ne' versi scritti nella quarta egloga della sua Buccolica, dove dice:

Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:

magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.

Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:

iam nova progenies caelo delabitur alto.

De' quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e, se pure son di quegli che 'l sentono (e per avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al cristianesmo salvarsi.]

«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio»: - il quale disio non altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria de' beati. E come che molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile l'ardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo ch'ella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione.

«Gran duol mi prese al cuor quando l'intesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando co' cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato d'alte mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi», dall'ardore del lor desiderio.

«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della prima parte della seconda division principale, nella quale l'autore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore». - Assai l'onora l'autore per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed intende, in questa domanda, non di voler sapere de' santi padri che da Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta fu per la venuta di Cristo, alcun altro n'uscí mai: quasi per questo voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che, se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli s'ingegnerebbe d'adoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a salute.] «Comincia' io, per volere esser certo Di quella fede, che vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la nostra fede n'è porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura n'è scritto, son nondimeno di quegli che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla fede debita alle Scritture; e però cosí le cose passate, come quelle che venir debbono, senza cercarne testimonianza d'alcuno, si vogliono fermamente credere e semplicemente confessare]. - «Uscicci mai», di questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per l'avere con intera pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per l'avere sí nella mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse salute: «O per l'altrui», opera, [o fatta o che far si possa per l'avvenire,] «che poi fosse beato?» - uscendo di qui e sagliendo in vita eterna.

«Ed e'», cioè Virgilio, «che 'ntese il mio parlar coverto», cioè intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva la domanda generale, «Rispose: - Io era nuovo in questo stato». Dice «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia d'anni v'erano stati, dov'egli stato non v'era oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente», percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era, questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto, che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive che «habitantibus in umbra mortis lux orta est eis».

«Trasseci l'ombra del primo parente», cioè d'Adamo. [Adamo fu, sí come noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto dí creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo l'anima dotata di libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni. E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro, dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né de' piedi, ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse: - Questa è osso dell'ossa mie, e per costei lascerá l'uomo il padre e la madre, ed accosterassi alla moglie. - La qual'è tratta dal suo costato, per darne ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dell'uomo, l'avea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e guerra senza pace e senza triegua, come l'odierne mogli odo che sono, ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, sí come produtte al lor piacere, ma del frutto d'uno albero solo, il qual v'era, cioè di quello «della scienza del bene e del male», s'astenessero, percioché, se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma l'antico nostro nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere quelle sedie, le quali per la ruina sua e de' suoi compagni evacuate erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, s'ella mangiasse del frutto proibito, ella non morrebbe, ma s'aprirebbero gli occhi suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo, incontanente s'apersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, d'etá di novecentotrenta anni si morí.]

[Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno: - Tu hai detto davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale? - A questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li quali tutti sono di semplice materia creati: ma l'uomo non fu cosí; anzi fu creato di materia composta, sí come d'anima e di corpo, e perciò non è perpetuo come sono le predette creature. - Ma quinci può sorgere un'altra obiezione, e dirsi: egli è vero che l'uomo è composto d'anima e di corpo, e queste due cose amendue furon create da Dio; perch'è dunque l'anima perpetua, e 'l corpo mortale? Dirò allora l'anima essere stata da Dio composta di materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del semplice elemento della terra, senza alcuna mistura d'altro elemento, sí come d'acqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura dell'uomo, fu adunque fatta del limo della terra, avente alcuna mistura d'acqua. Non che io non creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le cose, ma la commistione de' corpi ne mostra quegli essere stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva l'anima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa corruzione e morte de' corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson morire, se non come l'anima nostra, la quale, quantunque peccasse col corpo d'Adamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo, al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio, si vuole ricorrere, a' teologi ed a' sufficientissimi litterati, la scienza de' quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si distende.]

«D'Abél, suo figlio», cioè d'Adam. Questi si crede che fosse il primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia. Leggesi nel Genesi Caino, il quale fu il primo figliuolo d'Adam, essersi dato all'agricoltura, e Abél, similmente figliuol d'Adam e che appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato a far, prima che alcuni altri, de' frutti delle loro fatiche sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per far sacrificio, d'eleggere le piú cattive biade, o che avessero le spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio d'Abél accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il cielo. La qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa d'un bastone ed ucciselo.

«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio l'opere degli uomini sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse un'arca e come dentro v'entrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra 'l crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta l'arca, la qual notava sopra l'acque, sopra le montagne d'Ermenia, e non movendosi piú per l'acque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra l'arca, mandò fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo d'ulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dell'arca, fece sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse a' fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di questa vita.

«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re d'Egitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché bello figliuolo era paruto alla madre, non l'uccise, ma servollo tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che passarvi l'acqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e l'acqua menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e, fattolo prendere ad una delle sue femmine, l'aperse, e, trovatovi dentro il picciol fanciullo che piangea, disse: - Questi dee essere de' figliuoli delle ebree. - Allora la fanciulla, che il vasello seguiva, disse: - Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che il balisca? - A cui la donna disse: - Va'. - Ed ella andò e menò la madre medesima, la quale, come cresciuto l'ebbe, il rendé alla donna, la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dall'acqua», e a modo che figliuolo se l'adottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, percioch'egli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se n'andò in Madian, e quivi co' sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo d'Israel della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che accattar potessero dagli egizi, e' prendessero e seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in tante s'aperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto, e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra, subitamente n'uscí per divino miracolo un fiume d'acqua di soavissimo sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo, esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio; ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del monte, diede al popolo: e però il soprannomina l'autore «legista». Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo d'etá di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua sepoltura.

«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá de' caldei, l'anno quarantatré del regno di Nino, re d'Assiria. Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne in Canaan, e qui, essendo giá d'etá di novantanove anni, avendo prima d'Agar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre, un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e 'l coltello in mano, n'andò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento d'Iddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare a' suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale, essendo giá d'etá di centosettantacinque anni, morí, e fu da' figliuoli seppellito nel campo d'Efron de' figliuoli di Soar Itteo della regione di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara, sua moglie, da' figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da «pater», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a dire «principe»: e cosí resulta «principe de' padri».

«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo, il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ond'egli meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie. Racquistò l'arca foederis, la quale al popolo d'Israel era stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio; ultimamente, essendo da' filistei stato sconfitto Saul e' figliuoli in Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re. E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli, e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo figliuolo.

«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso di Mesopotamia, dove, dopo la morte d'Isaac, per paura d'Esaú fuggito s'era, sí come nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quell'uomo esser vinto, venendo l'aurora, disse quell'uomo: - Lasciami. - Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso rispose: - Io son chiamato Iacob. - E quell'uomo disse: - Non fia cosí: il tuo nome sará Israel, percioché, se tu se' forte contro Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini. - E, toccatogli il nervo dell'anca, gliele indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo d'Abraam, «e co' suoi nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e da' quali li dodici tribi d'Israel ebbero origine, e ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.

«E con Rachele, per cui tanto fe'». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a primogenito, per paura di lui se n'andò in Mesopotamia a Laban, fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata data Laban, messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che l'usanza della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo, similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel. E questo è quello che l'autore intende, quando dice: «Rachele, per cui tanto fe'», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli e' figliuoli e' nipoti di partirsi del paese di Cananea e d'andarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto de' granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio d'etá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi l'ossa sue ne portassero.

«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua beatitudine. «E vo' che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;» - e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene adoperare, la porta del paradiso.

[Lez. XII]

«Non lasciavam l'andar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale l'autore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa l'autore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta compagnia».

Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «l'andar, perch'ei dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono d'alberi.

«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non c'eravam molto dilungati, «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dell'autore. «Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte d'una spera, cioè d'un corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir l'autore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero.

«Di lungi n'eravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», n'eravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale eravamo.

«O tu», Virgilio; e domanda qui l'autore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non l'hanno: «che onori», col ben sapere l'una e col bene esercitar l'altra, «ogni scienza ed arte». [Capta qui l'autore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e d'arte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dell'
Etica d'Aristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma l'intelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui l'autore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí come appare ne' suoi libri, ne' quali esso agl'intelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione de' suoi poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi l'artificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene all'arte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste lode dall'autore attribuite gli sono.]

«Questi chi sono, c'hanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?» - in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me: - L'onrata», cioè l'onorata, «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture degli antichi, e sí ancora ne' ragionamenti de' moderni, raccordati sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. - [Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, de' quali l'autor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono l'eterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la 'ntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è la voce propriamente dell'uomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dell'uomo, o d'alcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da me, «udita», cosí fatta: - «Onorate l'altissimo poeta»; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «L'ombra sua», cioè di Virgilio, «torna, ch'era dipartita», - quando andò al soccorso dell'autore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grand'ombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire», come l'uno amico va a ricoglier l'altro, quando d'alcuna parte torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra l'autore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è de' maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire: - Mira colui con quella spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare l'autore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto n'ha, l'abbia avuto da lui. «Che vien dinanzi a' tre», poeti che 'l seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta sovrano». Dell'origine, della vita e degli studi d'Omero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale si legge che Omero fu d'umile nazione; percioché in Ismirna, in que' tempi nobile cittá d'Asia, il padre di lui in publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice d'erbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la sua singular sufficienza in poesí, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna d'esse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero de' loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia d'anni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dell'altre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,

dicendo d'Omero.

Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: - Colui che al presente nasce morrá cieco; - e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto ab «o», che in latino viene a dire «io», e «mi», che in latino viene a dire «non», ed «ero», che in latino viene a dire «veggio»: e cosí tutt'insieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se n'andò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, de' quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie de' greci e de' troiani infino alla morte d'Ettore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente l'Odissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori d'Ulisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude degl'iddii, il cui titolo non mi ricorda d'aver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane e' topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion degl'iddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, de' quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e co' suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse l'opere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non v'ebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada d'Omero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto animo e d'onesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra l'altre, essendo in Atene ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva scritto gl'iddii l'un contro all'altro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie degl'iddii Omero s'intendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio l'avrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno d'Atene, quasi sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma sillaba d'un suo verso, e che esso co' suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la sua gente d'arme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dell'animo suo, il fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]

[Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano, forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se preso avessero, intendendo seco medesimo de' pesci. Costoro risposero che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, s'erano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di que' vermini che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi ne' vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta de' pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí. Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli da' pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito; onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella onorevolmente il seppellirono].

Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia, né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue Quistioni tusculane scrive Tullio cosí di lui: «Traditum est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?», ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui il nostro autore il chiama «poeta sovrano».

[Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare padre d'ogni virtú, secondo l'opinione d'alcuni, ne' tempi che Melanto regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere stato dopo l'emigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di Lacedemonia e Latino Silvio re d'Alba. Altri voglion che fosse dopo questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio re d'Alba. Filocoro dice che egli fu a' tempi di Archippo, il quale era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni: e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni, regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta, perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero, quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non per la sua preeminenza singulare].

[Lez. XIII]

«L'altro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai umile e depressa, percioché egli fu figliuolo d'uomo libertino: e «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli d'alcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia, e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi ricordi; ma uomo d'altissima scienza e di profonda fu, e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia d'Ottavian Cesare, e fugli conceduto d'essere dell'ordine equestre, il quale in Roma a que' tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e singularmente usò l'amistá di Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella di Virgilio e d'alcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile de' versi lirici, il quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio libri Temporum d'Eusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici fu da' salmisti composto il salterio. E questo stile usò Orazio in un suo libro, il quale è nominato Ode. Compose, oltre a ciò, un libro chiamato Poetria, nel quale egli ammaestra coloro, li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle Pistole e nei Sermoni, fu acerrimo riprenditore de' vizi; per la qual cosa meritò d'essere chiamato poeta «satiro». Altri libri de' suoi, che i quattro predetti, non credo si truovino. Morí in Roma d'etá di cinquantasette anni, secondo Eusebio dice in libro Temporum, l'anno trentasei dello 'mperio d'Ottaviano Augusto.

«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama De tristibus, testimonia, dicendo:

Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,

milia qui decies distat ab Urbe novem.

E, secondo che Eusebio in libro Temporum dice, egli nacque nella patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice nel detto libro:

Quidquid conabar scribere, versus erat.

Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:

Saepe pater dixit: - Studium quid inutile temptas?

Maeonides nullas ipse reliquit opes. -

Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria, se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto all'ordine equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e, oltre a ciò, fu sommamente nell'amore de' romani giovani.

Compose costui piú libri, essendo in Roma, de' quali fu il primo quello che chiamiamo l'Epistole. Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama Liber amorum, altri il chiamano Sine titulo: e può l'un titolo e l'altro avere, percioché d'alcun'altra cosa non parla che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine titulo, percioché d'alcuna materia continuata, della quale si possa intitolare, non favella, ma alquanti versi d'una e alquanti d'un'altra, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis, cioè de' dí ne' quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste e' dí solenni degl'iddii de' romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi De arte amandi, dove egli insegna e a' giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un altro, il quale intitolò De remedio, dove egli s'ingegna d'insegnare disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro De tristibus, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio d'emendarlo.

Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione d'Ottaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d'un fiume de' colchi, il quale si chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello De tristibus, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibin. Composevi quello che egli intitola De Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.

La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come egli scrive nel libro 
De tristibus, mostra fosse l'una delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:

Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error.

La prima adunque dice che fu l'aver veduta alcuna cosa d'Ottavian Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:

Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?

Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi:

Alterius facti culpa silenda mihi est.

La seconda cagione dice che fu l'avere composto il libro De arte amandi, il quale pareva molto dover adoperare contro a' buon costumi de' giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può s'ingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie d'Ottaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá d'etá di cinquantotto anni, l'anno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.

Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il costrinse a morire.

«E l'ultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela e d'Atilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, sí come nel libro Delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: - Che dite? mancaci cosa alcuna ad essere equale al Culice? - Culice fu un libretto metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da comparare all'Eneida: e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che s'intendesse se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale all'Eneida; della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero de' poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico d'Omero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro d'Orazio o di Persio o di Giovenale, con quello de' quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come ch'e' si trattasse, maravigliosa eccellenza d'ingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun de' congiurati nominar volesse; non solamente alcuno n'aspettò per non accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò d'avere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui d'uno uom d'arme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli a' circustanti raccontò, ed in quegli l'ultime sue parole e la vita finirono.

«Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene», cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè quella che dice che udí: «Onorate l'altissimo poeta». Nella qual voce «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori d'Ulisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la venuta d'Enea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re de' rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono d'una medesima professione, come costoro erano con Virgilio.

«Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati coloro li quali disiderano sotto l'audienza de' piú savi apprendere; il qual vocabolo,

conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che l'autore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender per la «convocazione» i «convocati». «Di que' signor», cioè maestri e maggiori, «dell'altissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole seguenti l'autor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila vola». Cioè, come l'aquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in fuori avesse fatto: il che, posto che d'alcuni, non credo di tutti si verificasse.

«E poi ch'egli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per l'atto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno», che essi ragionassero dell'autore, domandando gli altri Virgilio chi fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando l'autore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano coloro de' quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con salutevol cenno, E 'l mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi, come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice, «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da credere, percioché l'autore non l'avrebbe scritto, né è verisimile il dottore farsi beffe de' suoi uditori; conciosiacosaché nell'ingegno de' buoni uditori consista gran parte dell'onor del dottore; ma senza alcun dubbio puose l'autore quella parola «sorrise» avvedutamente, e la ragione può esser questa. È il riso solamente all'umana spezie conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché l'uomo, non solamente parlando, ma ancora per quello mostri l'intrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il vero che questo riso non in una medesima maniera l'usano gli stolti che fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, l'autore aver detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia d'animo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci dispiace.

«E piú d'onore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo contenti solamente ad averlo salutato. E l'onor che gli fecero fu questo: «Che e' mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí ch'io fui sesto tra cotanto senno», cioè tra' cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa parola l'autor di iattanza, dicendo ad alcuno non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi d'alcun suo laudevole merito alcuna fiata. E questo n'è assai dichiarato per Virgilio pel primo dell'Eneida, laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

Sum pius Aeneas, fama super aethera notus.

Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo? Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá, rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago, della sovvenzione de' paesani: il quale non è dubbio niuno, che, avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in terra lavati i piedi a' suoi discepoli, tra l'altre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste parole: - «Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché io sono». - Direm noi in questo Cristo aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che era toglitore de' peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato l'esempio dell'umiltá a' suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le parole seguenti dove dice: - «E se io, il quale voi chiamate Maestro e Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete voi l'uno all'altro lavare i piedi. Io v'ho dato l'esempio. Come io ho fatto a voi, e cosí similmente fate voi», - ecc. Adunque è talvolta di necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse l'autore.

[Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse l'autore d'alcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da lui, la qual molto pende dall'autoritá d'esso. E perciò qui l'autore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello stato dell'anime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia fede, di necessitá confessa qui esser da' poeti dichiarato poeta.]

«Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello», cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose, «colá dov'era». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano d'indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che l'autore il volle tacere? «Venimmo a piè d'un nobile castello», cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato d'alte mura, Difeso intorno», cioè circundato, «d'un bel fiumicello». «Questo», fiumicello, «passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun v'è, né alcun'erba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere puote intrare.

«Genti v'avea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive l'autor primieramente alcuno de' lor costumi e modi, per li quali comprender si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina una parte. Dice adunque: «Genti v'avea», in quel luogo, «con occhi tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá dell'animo, percioché coloro, li quali muovono la luce dell'occhio soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli cuoprono, dimostrano l'animo loro esser pesato ne' consigli, e non corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá ne' lor sembianti», in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci soavi», percioché il gridare e l'elevar la voce soperchio si manifesta piú tosto abbondanza di caldezza di cuore che modestia d'animo. «Traemmoci cosí dall'un de' canti», cioè dall'una delle parti di quel luogo. E son prese queste parole dell'autore da Virgilio nel sesto dell'Eneida, ove dice:

Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:

et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit

adversos legere, et venientum discere vultus, ecc.

«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.

«Colá diritto, sopra 'l verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa, come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti, «in me stesso n'esalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser maggiore.

[Lez. XIV]

«I' vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere che l'autore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. De' quali l'uno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera molte giornate. L'altro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato il padre d'Elettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole de' poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo De fastis cosí:

Pliades incipiunt humeros relevare paternos:

quae septem dici, sex tamen esse solent.

Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:

nam Steropen Marti concubuisse ferunt,

Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:

Maian et Electron Taygetenque lovi:

septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.

Poenitet: et facti sola pudore latet.

Sive quod Electra Troiae spectare ruinas

non tulit, ante oculos opposuitque manum.

Secondo gli astrologi, l'una di queste sette stelle è nebulosa, e però come l'altre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo, in libro De imagine mundi, dice che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantitá, percioché «plion» in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè all'entrata di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. L'avere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento d'umido. Che esse abbiano nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta s'intende per lo elemento del fuoco e dell'aere, e se nell'aere umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse, l'aere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata: adunque l'umiditá di queste stelle, che è molta, cagione di questa sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione forse agevolmente s'adatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n» al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni e permutazioni di lettere essere ne' nomi antichi fatte sovente si truovano.

Essendo adunque costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non solamente dall'autor posta sia, ma ancora perché la prima nominata: della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io estimo, l'autore porre qui il fondamento primo della troiana progenie (e per conseguente de' discendenti d'Enea) e della famiglia de' Iulii, le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcun'altra è stata reputata splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in piú secoli è perseverata ne' suoi successori: percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano, figliuolo d'Elettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in Numitore, padre d'Ilia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo d'Agrippa Silvio, che de' discendenti d'Enea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E d'altra parte, secondo che alcuni si fanno a credere, essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il disfacimento d'Ilione, certi figliuoli d'Ettore essersene andati in Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e de' lor discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide da' Galli; e appresso, dopo piú centinaia d'anni, dietro a due giovani reali di quella schiatta discesi, de' quali l'un dicono essere stato chiamato Francone e l'altro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data origine e principio alla progenie de' reali di Francia: e cosí infino a' nostri dí voglion dire che pervenuta sia.

Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se l'autore voleva il principio di cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché, conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo d'Elettra, cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo questo certo, volle porre l'autore inizio di questa progenie colei di cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; a' suoi cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato figliuolo d'uomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, a' tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in Frigia pervenne l'anno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come detto è, puose in questo luogo primiera.

«Con molti compagni.» Questi estimo erano de' discesi di lei, tra' quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini. De' quali compagni ne nomina l'autore alcuno, dicendo:

«Tra' quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di Troia, e d'Ecuba. Costui si crede che fosse in fatti d'arme e forza corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare nella Iliada d'Omero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie avute de' greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia de' prieghi di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo, suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse l'armi sue, e Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, l'uccise, e spogliògli quelle armi, e, quasi d'Achille tronfando, se ne tornò con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, l'uccise. E tanto poté in lui l'odio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo, che, spogliatogli l'armi, e legato il morto corpo dietro al carro suo, tre volte intorno intorno alla cittá d'Ilione lo strascinò: e quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura, infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e, portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.

«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, d'Anchise troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia, splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie, e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non pertanto valorosamente contro a' greci combatté molte volte per la salute della patria, e tra l'altre si mise una volta a combattere con Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella quantitá d'uomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi, sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato co' suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago d'Averno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto meno il lume d'una stella, la quale dice essere stata Venere, estimò dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino re de' laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re de' rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno. Ma alcuni altri sentono altrimenti.

Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio che Caton dice che, andando i compagni d'Enea predando appo Lauro Lavinio, s'incominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo Enea avuta vittoria de' rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca Virgilio nel quarto dell'Eneida, dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:

At bello audacis populi vexatus, et armis,

finibus extorris, complexu avulsus Iuli,

auxilium imploret, videatque indigna suorum

funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae

tradiderit, regno aut optata luce fruatur:

sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.

Hoc precor, ecc.

E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo dell'Eneida finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma d'Enea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi d'Enea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga d'Enea, e che, quivi morto, esso cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso d'Enea, come di sopra è dimostrato, e d'Aurelia, discesa della schiatta d'Anco Marcio, re de' romani. Né fu, come si dice, denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio in libro Duodecim Caesarum dice, quando egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele: - Io non tornerò a te se non pontefice massimo; - e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un de' suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello lato de' Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel tempio d'Ercole avendo veduta la statua d'Alessandro macedonio, seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine sempre s'ingegnò d'esser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande d'amici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con que' popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu negato l'un de' due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito s'era, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re d'Egitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto s'era, concedette il reame, quasi in guiderdone dell'adulterio commesso. Quindi n'andò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso e' suoi contro a' pompeiani, e' fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò de' galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse Plinio, in libro De naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne d'essere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente: e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in diverse parti combattendo, essere stati uccisi de' nemici dalla sua gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia d'uomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo e' suoi seguaci furono. Per la qual cosa meritamente dice l'autore: «Cesare armato».

Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto; percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio, Lollia d'Aulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte l'altre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora l'amicizie d'alcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re de' mauri, e Cleopatra, reina d'Egitto, e altre. Né furon questi suoi adultèri taciuti in parte da' suoi militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato: - Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; - ed altri dicevano: - Ecco Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare. - Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu detto da molti: - Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero. - E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole: - Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui l'hai preso in prestanza. -

Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere l'uficio del dettatore. Ed appartenendo all'autoritá del senato il conceder l'uso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti de' senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, d'esser re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso da' parti, ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse ne' libri sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima a' senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò gl'idi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo l'antico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome sia «Giulia».

[Lez. XV]

«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza d'animo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo l'autore, o colui da cui l'ebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui l'autore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dell'amazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria d'uomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo signoreggiarono parte d'Asia e talora d'Europa. La origine delle quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi ne' tempi di Nino, re d'Assiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era tra' nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata insieme con le lor mogli e' figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne che, per occulto trattato de' popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli de' quali, veggendo essere aggiunto al loro esilio l'esser private de' mariti, preson l'armi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio co' popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dell'animo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, a' quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte d'uno animo cospirarono. E per forza d'arme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere co' vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua l'esercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non v'ingrossava la poppa. E da questa privazione dell'una delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò d'aver alcuna figliuola di lui, e, per accattare l'amore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro a' greci venne in aiuto de' troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre n'hanno un solo.

«Dall'altra parte», forse a rincontro a' nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re de' laurenti e figliuolo di Fauno re, de' discendenti di Saturno, e d'una ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio nell'Eneida dice:

... Rex arva Latinus et urbes

iam senior longa placidas in pace regebat.

Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica

accepimus.

Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma d'Ercule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio Sopra Virgilio dice che, secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo d'Ulisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino, «Solis avi specimen», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (percioché la ragione de' tempi non procede, percioché Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito de' minturnesi, allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

...et innantem Maricae

littoribus tenuisse Lirim;

e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché gl'iddii locali, secondo l'erronea opinion degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re de' laurenti, ne' tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re d'Ardea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola d'Evandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.

«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e d'Amata e moglie d'Enea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro Temporum dice che costei dopo la morte d'Enea si rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma, percioché egli fu d'una famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino Superbo, re de' romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire contro a' congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e in costumi preponeva la sua a tutte l'altre femmine; e, non finendosi la quistione per parole, presero per partito d'andarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcun'altra; e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti d'arme e a campo; e di quindi n'andarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far quello che a buona donna e valente s'apparteneva di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dell'altre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli nell'anima la bellezza e l'onestá di lei, seco medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente n'andò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto, disse: - Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai motto alcuno, pensa ch'io t'ucciderò di presente. - Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir non voleva, le disse: - Se tu non farai il piacer mio, io t'ucciderò, e appresso di te ucciderò uno de' tuoi servi, e a tutti dirò che io t'abbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio t'abbia trovata. - Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.

Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e d'amaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nell'aspetto, la domandò Collatino: - Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose nostre? - A cui Lucrezia rispose: - Che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma d'altro uomo che di te. - E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dell'accidente forte turbati fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto a' vestimenti un coltello, disse: - Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi impudica. - E detto questo, e posto il petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere l'indegnitá del fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando l'iniquitá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re e' figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata de' collazi n'andò a Roma, lasciando che l'un de' due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dell'innocente donna e ad odio de' Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e de' figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re e' figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú d'uno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu l'uno Bruto e l'altro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re e' figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e d'altra gente d'arme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi tra' due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, l'uno de' figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la battaglia degli altri, gridò: - Questi è colui che m'ha del regno cacciato; - e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte n'andò verso lui. Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria de' nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto, lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia, fu amarissimamente pianto, e poi, secondo l'uso di que' tempi, onorevolmente fu seppellito.

«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.

«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia, lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non dovere per l'etá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su l'aurora picchiò all'uscio di Catone, e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro che solamente il nome d'esser moglie di Catone, e sotto l'ombra di questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per suo marito.

«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che, essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono, era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli l'animale, che sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che nel ventre avea, e quindi morirsi.

«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato l'autore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia de' Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con Giuba, re de' numidi, seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso da' parti e a cui fu l'oro fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era stata, ne' pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano manifesta, con lui dell'isola di Lesbo partitasi, n'andò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma d'intera fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

«E solo in parte vidi 'l Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intra' cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta de' seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva l'autore.

«Poi ch'io alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».

Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico d'Aminta, re di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre d'Alessandro; la madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide vogliono alcuni esser discesi di Macaone e d'Asclepiade, discendenti d'Esculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu, dicono essere stato figliuolo d'Apollo, iddio della medicina. E dicono alcuni lui essere stato d'una cittá chiamata Stagira, la quale, se io ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente s'è potuto errare a dinominarla piú dell'una provincia che dell'altra. Fu costui primieramente, dopo l'avere apprese le liberali arti, ammaestrato ne' libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri d'Omero, e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in que' tempi famosissimo filosofo; e, lui morto, s'accostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí per l'eccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse: - L'intelletto non c'è, sordo è l'auditorio. - Visse appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, de' quali parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi: Etica, Politica ed Iconomica; né delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua Metafisica appare. E, brevemente, egli fu il principio e 'l fondamento di quella setta di filosofi, i quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano d'apporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone: la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri. Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo lungo tempo sotto il velamento d'una nuvola d'invidia di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che, oggi, quasi altra filosofia che la sua non è dagl'intendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo all'etá di sessantatré anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che a' nostri dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e maggior di tutti.

«Quivi vid'io», appresso d'Aristotile, «Socrate».

Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica De patientia, il padre suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne ne' parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia, alquanto tempo s'esercitò nell'arte del padre. Poi, lasciata l'arte paterna, divenne discepolo d'una femmina chiamata Diutima, secondo che si legge nel libro De vitis philosophorum; ma santo Agostino, nel libro ottavo De civitate Dei, scrive che egli fu uditore d'Archelao, il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto degl'intrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli ammaestramenti de' piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni tusculane: e in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oracolo dell'umana sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente Calcidio Sopra il primo libro del Timeo di Platone, e come Agostino nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il quale molte cose gl'insegnò e in ciò che egli aveva a fare l'ammaestrò. Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi ne' loro errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo. Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo Noctium Atticarum, lui essere usato di stare dal cominciamento d'un dí infino al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col corpo, e senza volgere gli occhi o 'l viso dal luogo al quale nel principio della meditazione gli poneva.

Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia, nacque quel proverbio, il quale poi per molti s'è detto, cioè «hoc scio, quod nescio». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò. Esso, tra l'altre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non solamente il debito, secondo l'uso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo giovane ma d'alto ingegno, lasciò andar ogn'uomo a pagar questo debito, e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di Socrate e disse: - Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che io ti do piú che dato non t'ha alcun altro che qui sia; percioché non ce n'è alcuno che tanto donato t'abbia, che alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me t'ho dato, cosa alcuna non è rimasa. - Al quale Socrate umilmente rispose: - Eschilo, il tuo dono m'è molto piú caro che alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto m'hai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto fa' che tu abbi me per tuo. - Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dell'una delle due mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei stimolato; la qual tanto piú nella sua ira s'accendeva, quanto lui piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da Alcibiade, nobilissimo giovane d'Atene, secondo che scrive Aula Gellio in libro undecimo Noctium Atticarum, perché egli non la mandava via, conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dell'ingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della casa gli versò sopra la testa un vaso d'acqua putrida e brutta; il quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, null'altra cosa disse: - Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere. -

Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico; il che detto a Socrate, disse: - Questi può esser savio uomo d'aver lasciata l'arte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre. - Era, oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá dell'animo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli volea, sol che un poco d'amore piú all'una che all'altra mostrasse; di che esse una volta accortesi, e rivoltesi

sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone e Aristotile, e l'altra turba tutta de' savi uomini, piú da' costumi di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai infermò, né parte d'alcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse, ma ancora i doni da' grandi uomini offertigli ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse: - Maestro, che è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere alle menome cose musicali? - Al quale egli dimostrò sé estimare esser meglio d'avere tardi apparata quella arte che morire senza averla saputa. Né in alcuna etá poté sofferire d'essere ozioso; percioché, secondo scrive Tullio nel libro De senectute, egli era giá d'etá di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli appellò Panaletico.

Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza gl'iddii li quali gli ateniesi adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile animale esser degno di molta maggior venerazione che gl'iddii degli ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali erano opera della natura, gl'iddii degli ateniesi erano opera delle mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá d'etá di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò l'animo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi ch'egli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo: - Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia. - E, bevuto la venenata composizione, molte cose a' suoi amici, che d'intorno gli erano, parlò dell'eternitá dell'anima. Ma, appressandosi giá l'ora della morte, per la forza del veleno che al cuore s'avvicinava, il dimandò uno de' suoi discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri, disse: - Lungamente m'ha invano ascoltato Trifone. - E poi disse: - Se, poi che l'anima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire. - Né guari stette che egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua d'oro, e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle Istorie scolastiche si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re Assuero.

[Lez. XVI]

«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo d'Aristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che alcuni affermano, esso fu de' discendenti del chiaro legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo libro della Filosofia scrivono, finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una sembianza d'Apolline; volendo che per questo s'intendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza d'alcuna cosa offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina l'ammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza.

Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che a' tempi ch'e' romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né d'umana pompa curandosi, visse infino nell'etá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti de' suoi uditori solennissimi filosofi.

«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli stanno».

«Democrito» (supple) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito, che scrive Giustino fosse un milione d'uomini d'arme. Dopo la morte del quale, Democrito, dato tutto a' filosofici studi, riserbatasi di sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al popolo d'Atene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso, secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta della cagione, rispose: - Io rido della sciocchezza di tutti quegli li quali io veggio, percioché io m'accorgo che con l'animo e col corpo tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora. - Costui, percioché estimò il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse d'averlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era d'uno piú che l'usato accompagnato, e questo era un fanciul che 'l guidava: benché Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta d'Asclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque de' princípi delle cose tenesse un'opinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dall'uno de' due princípi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione d'alcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico, si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo d'amore e d'amistá». E cosí teneva questi esser due princípi formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo, costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re de' batriani, trovatore di questa iniqua arte, molto l'aumentò e insegnò. Dice adunque per le predette opinioni l'autor di lui «che'l mondo a caso pone» esser creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel quinto libro delle Quistioni tusculane dice: «Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona, mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret».

«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e de' templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea l'aere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva tutto 'l dí i raggi del sole che 'l riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare in publico; ed eziandio i congiungimenti de' matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta de' cinici.

Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli; per che non sará altro che utile l'averne alcuna raccontata. Dice Seneca, nel libro quinto de' Benefici, che Alessandro, re di Macedonia, s'ingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole, e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello, che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio, tiranno di Siragusa, molto cercato d'averlo, né mai venir fatto gli era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare l'incendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli disse: - Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe al presente lavare coteste lattughe; - quasi volesse dire: - Tu averesti de' fanti e de' servidori, che te le laverebbono. - A cui Diogene subitamente rispose: - Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio. - Altra volta, essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima di dipinture e d'oro e d'altre care cose, e non che le mura e' palchi, ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, s'accostò a colui che menato l'aveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che presenti erano, dissero: - Perché hai tu fatto cosí, Diogene? - A' quali Diogene prestamente rispose: - Percioché io non vedeva in questa casa parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho. - Oltre a ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dell'Ira, avvenne che, leggendo Diogene del vizio dell'ira, un giovane gli sputò nel viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando l'ingiuria, niun'altra cosa disse, se non: - Io non m'adiro, ma io dubito se sará bisogno o no d'adirarsi. - Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: - Per certo coloro, che dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati. - Fu, secondo che Aulo Gellio scrive in primo libro Noctium Atticarum, Diogene una volta preso: e, volendolo colui, che preso l'aveva, vendere, venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al quale Diogene rispose: - Io so comandare agli uomini liberi. - E, accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle Quistioni tusculane, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale si morí, fu domandato da alcuno de' discepoli suoi, quello che voleva si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente rispose: - Gittatelo al fosso. - Alla qual risposta colui, che domandato avea, seguí: - Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche e gli uccelli ti manuchino? - Al quale Diogene rispose: - Pommi allato il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli. - A cui questo addimandante disse: - O come gli caccerai, che non gli sentirai? - Disse allora Diogene: - Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché e' mi mangino? - E cosí si morí: il dove non so.

«Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i costumi e le maniere de' trenta tiranni, li quali in Atene erano, si fuggí d'Atene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la signoria de' predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate da' pruni e da malvage piante, disse: - Se io avessi voluto guardar queste, io avrei perduto me. - Questi nella morte d'un suo figliuolo, assai della sua fortezza d'animo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò: - Niuna cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva che colui, che di me era nato, era mortale. - Ed essendo infermo di quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla cittá, fu domandato se gli piacesse d'essere portato a morire nella cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla cittá in inferno.

«E Tale». Tale fu asiano, figliuolo d'uno che si chiamò Essamite, sí come Eusebio scrive in libro Temporum; e, secondo che Pomponio Mela dice nel primo libro della Cosmografia, egli fu d'una cittá chiamata Mileto, la quale fu in una provincia d'Asia, chiamata Ionia: e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli fu prencipe de' filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche, non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò l'ordine, il quale ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua opinione che l'acqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra. E, percioché esso fu de' primi filosofi di Grecia e, avanti che il nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo da' pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola d'oro, ed essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente mandata a lui; fu di tanta e sí discreta umiltá, che ricevere non la volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni scrivono, d'aver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri lasciando, essendo giá d'etá di settantotto anni, morí. Ma, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, pare che egli vivesse anni novantadue. Fiorí ne' tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia l'imperio de' medi.

«Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane seguiva il suo nemico, dimenticato l'odio, si ritenne ad ascoltarlo. Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco, e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante Artaserse.

«Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti da lui, che pochi eran coloro li quali potessero de' suoi testi trar frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di Democrito.

E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, de' quali ciascuno fu nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale l'autor si voglia dire, brievemente diremo d'amenduni. Fu adunque l'uno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá vivere, avendo all'altrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti in Cicilia, in que' tempi da miserabile servitudine oppressa, soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. De' quali Zenone alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú col tiranno eran congiunti, e ne' quali esso piú si fidava: e in tal guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá de' giovani circustanti: e quantunque d'etá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue parole i cuori de' giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.

L'altro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una medesima costanza di animo alla precedente n'ho che raccontare. Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale, per forza di tormenti, s'ingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati, disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che, cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per l'orecchio co' denti, né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli da' circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

«E vidi 'l buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dell'erbe; e che esso intenda dell'erbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse, non lessi giammai; e di lui niun'altra cosa ho che dire, se non che esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.

«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, in libro Divinarum institutionum in gentiles scrive, fu figliuolo d'Apolline e di Calliope musa, e a costui scrive Rabano, in libro Originum, che Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti scrivono, che egli faceva muovere le selve de' luoghi loro, e faceva fermare il corso de' fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli diventar mansuete. Di costui, nel quarto della Georgica, racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con certe fanciulle su per la riva d'un fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo, pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nell'erba; per che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sé, ma ancora facesse all'anime de' dannati dimenticare la pena de' lor tormenti, Proserpina, reina d'inferno, mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé; laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei perduta avea, di mai piú non volerne alcun'altra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, sí come dice Ovidio, avendo il matrimonio di molt'altre, che il domandavano, ricusato, cominciò a confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco, che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, co' marroni e co' rastri e con altri stromenti da lavorar la terra l'uccisono e isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nell'Ebro, infino nell'isola di Lesbo furono dall'acque menate: e, volendo un serpente divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra l'altre imagini celestiali.

Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere stato di Tracia, e nato d'una gente chiamata «cicona»: e secondo che Solino, De mirabilibus mundi, afferma, questi cotali ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di que' primi sacerdoti che furono ordinati in que' tempi, che prima si cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo Tebaida, egli fu di que' nobili uomini, li quali furono chiamati argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», ne' quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi da' cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si prendeva guardia, co' marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro. Fiorí costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte, e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio in libro Temporum scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo d'Orfeo.

«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine fu d'Arpino, cittá non lontana da Aquino, anticamente stata di que' popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché si legge li suoi passati essere stati re della lor cittá. Questi, giovanetto, venne a Roma; e giá in eloquenza valendo molto, avendo l'animo gentile, sempre s'accostò a' più nobili uomini di Roma. I suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli ancora giovinetto compose in rettorica l'Arte vecchia e la Nuova. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultá un libro chiamato De oratore, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici libri, sí come quello De officiis, Delle quistion tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus, De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto dell'ordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio da' romani, e poi, finito l'anno, rivocato e con mirabile onore ricevuto. E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, né però fu privato dell'ordine senatorio. Ultimamente fu di quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola de' proscritti da Antonio triumviro, il quale fieramente l'odiava, se n'andò a Gaeta. Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio che gli concedesse di perseguirlo e d'ucciderlo: ed ottenutolo, lui nel campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella testa che la sua avea liberata da morte.

«Lino» (supple) vidi. Lino fu tebano, uomo d'altissimo ingegno e in musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro d'Ercole; e fu a' tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste regnarono in Micena ed Egeo in Atene.

«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza d'un altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo; percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali l'uno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e l'altro Lucio Anneo Mela, padre di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse, venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nell'isola di Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; a' prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito ne' suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore d'un famoso filosofo in que' tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, sí come il libro De beneficiis, quello De ira, quello De clementia a Nerone, quello De tranquillitate animi, quello De remediis fortuitorum, quello De quaestionibus naturalibus, quello De quatuor virtutibus, quello De consolatione ad Elviam e altri piú. Ma sopra tutti fu quello Delle pistole a Lucillo, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello ancora che si chiama Le declamazioni. Compose, oltre a questi, un altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua poca laudevol vita.

Ma, poi che Claudio, per lo 'nganno d'Agrippina, sua moglie, fu morto dal veleno, datogli mangiare ne' boleti, e per l'astuzia di lei posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone, figliuolo adottivo del detto Claudio e d'Agrippina e discepolo di questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, co' suoi consigli, l'animo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare la 'nvidia portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nell'animo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia de' clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.

Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti de' senatori e da più altri dell'ordine equestre, e da' centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagitá e come uomo che era disideroso d'adoperare crudelmente la sua potenza co' ferri. Ed essendo per ventura di que' dí, secondo che scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue Storie, tornato Seneca di campagna, s'era rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno d'una coorte pretoria, approssimandosi giá l'ora tarda, andò e quella intorniò d'uomini d'arme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina sua moglie, e con due de' suoi amici mangiare. E mangiando egli, gli manifestò il comandamento fattogli dall'imperadore, cioè: uno, chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato, che fatto l'avea per cagione della sua infermitá e per disiderio di riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale Nerone domandò se Seneca s'apprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli s'eleggesse la morte. Il quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno de' centurioni, che gli dicesse l'ultima necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò Seneca, voltosi a' suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in fermezza d'animo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di Nerone; e che niun'altra cosa gli restava a fare, avendo la madre e 'l fratello uccisi, se non d'uccidere il suo maestro e colui che allevato l'avea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti s'aveva apparecchiato. Il quale preso, né d'alcuna cosa offendendolo, per li membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno d'acqua molto calda, nel quale entrando, con le mani, que' servi che piú prossimani gli erano, presa dell'acqua, risperse. Da' quali fu udita questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore. E poco appresso dal vapore caldo dell'acqua fu ucciso, e senza alcuna pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico, arso il corpo suo.

Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio Flavio aveva co' centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che l'imperio fosse dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú fosse stato eletto all'altezza del principato.

Ma, come che l'autore in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no: conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno nell'ultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali, bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché tra' dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui da san Girolamo in libro Virorum illustrium, nel quale scrive cosí: «Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus, et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus, cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est».

[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua salute, quasi l'ultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore; parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi chiamano «flaminis», non essendo rigenerato secondo il comune uso de' cristiani nel battesimo dell'acqua e dello Spirito santo, quell'acqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dell'umana generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile, come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello crederne che gli pare.]

[Lez. XVII]

«Euclide geometra» (supple) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo, nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo di Platone, e, percioché insino ne' nostri dí è perseverata la fama sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle Teoremate in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio ottimamente scritto.

«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato di que' re d'Egitto, percioché molti ve n'ebbe con questo nome; e altri credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la incarnazione di nostro Signore, cioè a' tempi d'Adriano imperadore, sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in que' tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venir doveano, esso piú libri compose, tra' quali fu l'Almagesto, il Quadripartito, e 'l Centiloquio, e molte tavole a dovere con le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi de' pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.

«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano in libro XVIII Originum scrive, fu figliuolo d'Asclepio, e regnante Artaserse, re di Persia, nacque nell'isola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa egli confessò esser vera, ma che l'astinenza l'avea fatto casto, e l'assiduitá dello studio l'avea fatto ingegnoso. E veramente fu egli ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza d'ingegno ritrovò la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui, investigate le virtú dell'erbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso d'Ippolito, figliuolo di Teseo, re d'Atene, che, fuggendo la sua ira, da' cavalli che il suo carro tiravano, spaventati da' pesci chiamati «vecchi marini», li quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, pe' luoghi petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui morto: per l'arte e sollecitudine di questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ogn'uomo perciò lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove s'era turbato che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta l'arte della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo De historia naturali, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano, nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento anni; e cosí costui, d'arte cosí opportuna all'umana generazione si può dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle Questioni del Genesi che, avendo una femmina partorito un bel figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo, fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse novantacinque anni, e poi si morí.

[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e d'alta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro non ne so.]

«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni ottantasette, finío la vita sua.

«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna; altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo d'eccellente ingegno, intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella d'ogni altro filosofo preposta. «Che 'l gran comento feo»: sopra i libri d'Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e 'l «comento», che sopra l'opera d'alcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e dilucida: e cosí è fatto quello d'Averrois.

Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che l'autore a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali che non peccâro: «e s'egli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne nomina l'autore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il quale è intitolato Sine titulo, assai chiaro può vedere lui essere stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli compuose De arte amandi, dá egli pessima e disonesta dottrina a' lettori. Appresso, è ancora di questi Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento d'Ilione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è, fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò l'onestá; rubò e votò l'erario publico de' romani, e, oltre a ciò, tirannicamente occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata. Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale, come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo, adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello. E questi peccati, li quali io dico che ne' predetti furono, mostra l'autore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, l'autore a se medesimo contradire.

Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere: essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, l'autore quasi altra gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda che egli alcun de' nominati vedesse, né in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, s'intenda essere in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dall'autore, intende esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe, quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato, e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.

«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può, dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti, «il lungo tema», di voler discrivere l'universale stato degli spiriti dannati, di que' che si purgano e de' beati: «Che molte volte», non solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia, si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.

«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale della suddivisione del presente canto, dimostra l'autore come, partiti da' quattro poeti, procedettero avanti, e dice: «La sesta compagnia», cioè de' sei poeti, d'Omero e di Orazio e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nell'autore, «si scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale venuti eravamo, «mi mena 'l savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta», aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nell'aura che trema», sí come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori. «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che luca», cioè faccia lume.

CANTO TERZO II SENSO ALLEGORICO

CANTO TERZO
II
SENSO ALLEGORICO

«Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto si continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, lá dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento primo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo canto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore voglia intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio dato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autore voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai convenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.

Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta, la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica nell'Evangelio: «Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosa via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant per eam»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna. Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e quello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro estremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrare nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si può per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta larghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca, trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla superbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare la fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.

Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da vespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridi vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati ne sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella della inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma ancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che igualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo vizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate non solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene coloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che, brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcuno atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali, anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa esser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la gravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendo quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine della coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno nella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo: - Cosí dovremmo aver fatto; - non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quel segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica non debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra nell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché i mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la quale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gli affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la pena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino similmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il morso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sono dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto, ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalla digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose assai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questo basti de' cattivi aver detto.

Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire. [E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come detto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti sono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque s'adagia.]

Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare; cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «Omnes morimur et quasi aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur». Sono, oltre a ciò, i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti, tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché alcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo e divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostri termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicini talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi trabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortuna fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiume volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del nostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiose sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la circunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono, cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con veritá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave, nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili, non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro, li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, che Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.

È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón, bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente veder si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo, cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre cose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna luce sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí distinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perché nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, Sopra l'«Eneida» di Virgilio, dice esser «'Charon' quasi 'chronos'»; e questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice esser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo si comprende in libro Temporum d'Eusebio, egli è, dalla creazione del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno. E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote il tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve, e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e trasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte.

vero che egli è qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira di Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essere eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché l'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si può dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: e perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o di dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte perpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, la quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno beata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte perpetua son trapassati.

[Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di questo nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchiere fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad un altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le quali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali son tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e dalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri o in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che riposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste, lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le grandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate con l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi continuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un 'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non lettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lor navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano delle merca-* *tanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan loro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui trapassati alla perpetua.]

La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote esser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autore alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dí dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio l'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per dover di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí come l'autore andava. E però gli dice: - «Piú lieve legno convien che ti porti»; - volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, che vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si muore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse, o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dalle cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina volontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente il volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice il salmista: «Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt». Ma questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí come nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati. [E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, in rem iudicatam sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e menarnegli in vita eterna.]

[La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il fiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una spezie di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostro Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato mortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; ma nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commesso quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dove riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere stare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo, e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qual cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]

Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo intendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí come è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre fugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito, reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí come noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testé non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza, che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio e dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è soprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione: percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto l'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí come nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere stato desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava i peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. E meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo dicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigion del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte; ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono che per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che la penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergli convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.

CANTO TERZO, I, SENSO LETTERALE

CANTO TERZO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. IX]

«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato; nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».

Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino, dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno; sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá, percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre, al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono dannati.

«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui «eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano, percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire «eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «quia in inferno nulla est redemptio», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da morte spogliò il limbo.

«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno s'entrava; «Perch'io» (supple) dissi: - «Maestro», Virgilio; e ben fa qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello che dir vogliono, «m'è duro», - cioè malagevole ad intendere.

«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (
supple) rispose, «come persona accorta», cioè intendente:

«Qui», cioè in questa entrata, «si convien lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto dell'
Eneida, dove la Sibilla dice ad Enea:

Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo.

«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben dell'intelletto», - cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].

«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che, vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si confortò tutto.

«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle, secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.

«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed egli a me: - Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi: «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio, - disse»; la settima ed ultima quivi: «Finito questo».

Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno, «sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue», cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli, come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno; «Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore, per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi, esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone» nella sua Meteora, dove chi vuole può pienamente vedere di questa materia.

«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto; «Dissi: - Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?», - secondo che le loro voci manifestano.

«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Questo misero modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.

Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene, questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo «mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare; di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza infamia e senza lodo».

«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro» [si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir «coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro, ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo» il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero come non doveano.

«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè «aggelos», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore» o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito beato].

«Che non furon ribelli», (supple) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.

[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro ne dimostra nel secondo delle Sentenzie, e di queste due l'una non peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò, tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie, che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]

E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo: «Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché, cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue, se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga, essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro, percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei», angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber d'elli», - veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere alleggiamento della pena loro.

«Ed io: - Maestro», (
supple) dissi, «che è tanto greve», cioè qual tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?» - cioè sí amaramente. «Rispose», cioè Virgilio:
- «Dicerolti molto breve».

E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne; «E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa», cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di 
loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani, il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa», percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte, quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e, guardando, «passa» - e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de' riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da alcuno veduta o conosciuta.

«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando, «correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente», d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi, resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento, colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.

«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè: «Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato. E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio, poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati da Dio fossero, dicevano: - Renunzia, Celestino! renunzia, Celestino! - Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale gli disse: - Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali renunziare il papato. - Il quale come a doverla fare il vide disposto, essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato: e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa, venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato. Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo, percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo suo.

Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere errato e detto contro a quello articolo che si canta nel Simbolo, cioè: «Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam»; in quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo, il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che, quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato; percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro, l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe oggi chi credesse quello esser vero.

Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il quale, essendo primogenito di Isac, come nel Genesi si legge, percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele: Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel Genesi si legge, Esaú fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.

«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi», dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a' nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «quia non sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est»; cosí dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si esercitano in male adoperare.

«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de' gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá, scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona «sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo; «e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi», cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «volo vis», che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime de' miseri cattivi.

«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi; «Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi: - Maestro», a Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume», - cioè per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Le cose», delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera d'Acheronte». -

Secondo che scrive Pronapide nel suo Protocosmo, Acheronte è un fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e, vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo: come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno, e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a Titano. temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione: quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e degli altri.

«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.

«Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del presente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire verso loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'Eneida scrive:

Portitor has horrendus aquas et flumina servat

terribili squalore Charon, ecc.

per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave Un vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché la gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere, percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun colore esser colorato;] «Gridando: - Guai a voi, anime prave!», cioè malvage. «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. E tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore, «Pártiti da cotesti, che son morti»; - quasi voglia dire: percioché con loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mi partiva», per suo comandamento, «Disse: - per altra via», che per questa, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioè nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di navilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti», - cioè ti valichi.

«E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui: - Carón». Questo Carón, secondo che Crisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola sará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte, come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo: «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e dov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella divina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú non dimandare»; - quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a te si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle parole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosa piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra chiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la quale spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui, che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume. «Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella torbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.

«Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di cammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti», come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio di quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva» ecc.).

«Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il bestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcuna cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano a bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono, si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima; «il luogo», (supple) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati furono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme», percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi; «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», a sedere o in altra guisa.

«Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo «autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo», sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i vestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro dell'Eneida, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme d'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santi uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí come sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una ad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti, «com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.

«Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E avanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera», cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo dimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito della terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «quia multi sunt vocati, pauci vero electi».

«Figliuol mio, - disse» In questa sesta parte della suddivisione gli apre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, e perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E dice: - «Figliuol mio»; - mostra in questa parola Virgilio paterna affezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro», percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domanda fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io sappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono e debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, percioché continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu liberale. - «Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion nell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senza confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati commessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti della cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono, «qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e di ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio», cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la quale hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto a quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima buona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che non vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole, e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir suona», - avendo intesa la cagione del suo rammarichio.

[Lez. X]

«Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione del presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremore della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza dell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna». «Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credere che sieno, ma usa il vocabolo largamente, auctoritate poëtica; e dé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí forte».

Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché l'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che a coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci, se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio si truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí come il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa l'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.

«Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor mi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati, rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono pallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute dalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvolta un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti predette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per paura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri in guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura anche se ne son morti.

«La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti pianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nella concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente accostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si può dire l'inferno essere lacrimoso.

«Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad Aristotile piace nel secondo della Meteora, d'esalazioni calde e secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcun freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so. Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare che vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aere mosso paia vento.

«Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la natura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quello movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche vampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «La qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo, avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere stato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come l'uom cui sonno piglia».

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