miércoles, 21 de octubre de 2020

CANTO TERZO II SENSO ALLEGORICO

CANTO TERZO
II
SENSO ALLEGORICO

«Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto si continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, lá dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento primo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo canto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore voglia intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio dato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autore voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai convenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.

Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta, la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica nell'Evangelio: «Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosa via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant per eam»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna. Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e quello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro estremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrare nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si può per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta larghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca, trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla superbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare la fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.

Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da vespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridi vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati ne sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella della inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma ancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che igualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo vizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate non solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene coloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che, brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcuno atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali, anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa esser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la gravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendo quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine della coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno nella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo: - Cosí dovremmo aver fatto; - non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quel segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica non debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra nell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché i mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la quale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gli affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la pena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino similmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il morso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sono dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto, ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalla digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose assai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questo basti de' cattivi aver detto.

Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire. [E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come detto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti sono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque s'adagia.]

Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare; cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «Omnes morimur et quasi aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur». Sono, oltre a ciò, i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti, tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché alcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo e divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostri termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicini talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi trabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortuna fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiume volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del nostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiose sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la circunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono, cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con veritá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave, nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili, non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro, li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, che Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.

È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón, bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente veder si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo, cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre cose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna luce sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí distinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perché nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, Sopra l'«Eneida» di Virgilio, dice esser «'Charon' quasi 'chronos'»; e questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice esser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo si comprende in libro Temporum d'Eusebio, egli è, dalla creazione del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno. E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote il tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve, e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e trasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte.

vero che egli è qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira di Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essere eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché l'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si può dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: e perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o di dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte perpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, la quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno beata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte perpetua son trapassati.

[Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di questo nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchiere fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad un altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le quali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali son tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e dalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri o in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che riposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste, lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le grandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate con l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi continuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un 'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non lettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lor navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano delle merca-* *tanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan loro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui trapassati alla perpetua.]

La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote esser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autore alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dí dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio l'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per dover di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí come l'autore andava. E però gli dice: - «Piú lieve legno convien che ti porti»; - volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, che vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si muore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse, o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dalle cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina volontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente il volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice il salmista: «Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt». Ma questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí come nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati. [E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, in rem iudicatam sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e menarnegli in vita eterna.]

[La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il fiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una spezie di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostro Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato mortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; ma nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commesso quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dove riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere stare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo, e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qual cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]

Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo intendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí come è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre fugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito, reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí come noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testé non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza, che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio e dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è soprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione: percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto l'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí come nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere stato desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava i peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. E meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo dicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigion del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte; ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono che per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che la penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergli convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.

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