miércoles, 21 de octubre de 2020

CANTO PRIMO, I, SENSO LETTERALE

CANTO PRIMO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. II]

[Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle divisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre parti principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo l'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al presente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La seconda comincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide in due: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autore tre cose: primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo; ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di quello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza quivi: «Ed ecco quasi».]

[Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad evidenzia di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è, massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il quale pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque alquanti, e pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come per lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice: «Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et amplius eorum, labor et dolor»; e perciò colui il quale perviene a trentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Ed è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infino al mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremitá si discenda; e questo è stimato, percioché infino all'etá di trentacinque anni, o in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel termine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che l'autore pervenuto fosse, quando prima s'accorse del suo errore. E che egli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi ragionasse un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da Ravenna, il quale fu uno de' piú intimi amici e servidori che Dante avesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli nella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato il cinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino a quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo 1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei, restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300, quando mostra d'avere la presente opera incominciata. Per che appare ottimamente la sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dello spazio, «di nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando, «per una selva oscura»; a differenza d'alcune selve, che sono dilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la diritta via era smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non era entrato in questa selva, ma per ismarrimento.]

[«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è cosa dura», quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia e aspra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima che ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna umana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice appresso ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi e de' virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e ravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similemente piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordine cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosa e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte», dichiara lo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di quelli, essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori uscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel pensier», cioè nella rammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura». Umano costume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de' pericoli ne' quali l'uomo è stato.]

[«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è piú morte». Ed è la morte, secondo il filosofo, l'ultima delle cose terribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremo pericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara che quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara, cioè ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudine gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai». Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che egli alcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli ha mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime qual bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovato da lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e perciò, dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che qui voglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene, «ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si conoscerá nell'allegoria.]

[«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostra l'autore donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo, e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe alcuno domandare: - Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, come v'entrastú entro? - A che egli risponde sé non saperlo, e assegna la ragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto, Che la verace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare, «abbandonai».]

«Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi, «appiè d'un colle giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava», finiva, «quella valle», nella quale era questa selva oscura, «Che m'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e vidi le sue spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre sono quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de' raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti. E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso, e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o qualunque altro, ha da questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienza si vede negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la sua potenza, ma per singular dono del suo Creatore, e hanne in tanta abbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudine di raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffonde copiosamente la luce sua; e questi raggi, sagliendo il sole dallo inferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpo della terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono le sommitá de' monti. Per la qual cosa appare qui che il giorno cominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi dove era, ed a volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli venne speranza, rammemorandosi che la luce di questo pianeto «mena diritto altrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il sole sopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con miglior giudicio si dirizza lá dove andar vuole, mediante la luce di costui.

E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta», cioè meno infesta, «Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, [nel quale, secondo l'oppinione di alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per tutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passione della paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passai con tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per la diritta via la quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre della notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.

«E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata. «Uscito fuor del pelago alla 
riva»: come colui il quale rompe in mare, che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla riva, e «Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e in quel guatare, cognosce molto meglio il pericolo del quale è scampato, che esso non cognosceva, mentre che in esso era, percioché allora, spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo che solo allo scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vede quante cose poteano la sua salute impedire e, quasi in esso fosse, molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattando sé alla comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè che ancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosse ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse indietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirar lo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò giammai» uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamente intendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che si chiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna volta si dice il vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, per manifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare turbato, e non s'arebbe immollate le piante de' piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè che di quello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, se alcuno non avesse vivo lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserne uscito, come sarebbe vivo?

«E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta, «Ripresi via per la piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonata la valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando, «Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costume di coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú basso rimane.]

«Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza parte dimostra l'autore qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di quel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezza delle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro nel pericolo del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed ecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa, su per la quale salir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e presta molto, Che di pel maculato era coperta».

Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía dinanzi al volto». Appresso dice che questo stargli sempre davanti, che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte salir volea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».

«Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí, quando egli era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagione dell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio «del mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora non si vedeano se non nella sommitá del monte. «E 'l sol montava 'n su», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione, vegnendo dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in compagnia, «Ch'eran con lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spirito santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo, «quelle cose belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bella e leggiadra discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Ad evidenzia della quale è da sapere che gli antichi filosofi caldei, e appresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazione conobbero il movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmente quello che per gli movimenti de' corpi superiori negl'inferiori ne seguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole in diverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano le qualitá dell'anno, e queste qualitá essere quattro, cioè quelle che noi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fosse nel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste, divisero in quattro parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna di queste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzo sentire della natura del principio e della fine; ciascuna di queste quattro parti divisero in tre parti equali; e cosí fu da loro la via del sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E, accioché l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono in ciascuna parte alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle, ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del quale fosse conforme agli effetti di quella parte, nella quale con la immaginazione il figuravano. E, percioché la prima qualitá dell'anno estimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principio dell'anno; e cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole questa primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della via del sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete; nel principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e posto il corpo del sole. E perciò, volendo l'autore dimostrare per questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole saliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle le quali eran con lui, quando il divino Amore lui e l'altre cose belle creò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato hanno; volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose la mano alla presente opera, è circa al principio della primavera; e cosí fu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò a dí 25 di marzo.]

«Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'ora del tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperar bene di quella fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera la gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar bene la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendo adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperar m'era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaetta pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è la pelle della lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar» di dovere ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea di prendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondo che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto sedicesimo, dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai, alcuna volta, Prender la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo», cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.

Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria sopra la lonza l'ora del mattino e la stagion della primavera? Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di ferocitá essere negli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmente tutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del tempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per venere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua natura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura, nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare a vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. E il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla compression sanguinea, e però in quella il sangue piú chiaro, piú caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci per avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.

«Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non mi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosí appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo cammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne temesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone, indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava, impropriamente parlando, di aver paura di lui.

«Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire impediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la magrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la veggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose. «Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura ch'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea veduti i raggi del sole.

«E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne dimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «che volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo face», qual che sia

la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne' quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista; Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice esser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomi incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire, «a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol tace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed è questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa l'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí come nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto». Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno luogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto, propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un dimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare si scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunque dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il ripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la quale egli disiderava di fuggire.

«Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la seconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra il soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio quivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore, estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò, Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente, movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui: - Poeta»; la sesta quivi: «Allor si mosse».

Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in basso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire, «Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che le parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo silenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo meno espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non è. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciati giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o divenuta piú oscura che esser non solea.]

[«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran diserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamata dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva di luce; «-Miserere di me - gridai a lui». Sí come molte volte gl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui gridando: - Abbi misericordia di me, - quasi dicendo: - Aiutami, - come piú innanzi si dichiarerá.]

«- Qual che tu sii, od ombra od uomo certo». - Non conosceva quivi l'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gli era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo de' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E, percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e come l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che ella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del Purgatorio, non curo qui di farne piú luogo sermone.

«Risposemi: - Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi costui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose spettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare che l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno dall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giá stato congiunto con corpo.

«E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima si manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre diversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio Sopra l'«Eneida», quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia situata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quella occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse, quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che seguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano, chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevano davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in Ungheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a' tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di Sofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue, sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe venuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale allora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi popoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano. Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete, lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari, in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, ne venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono Lombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.

«Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma, percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente, qui non curo di piú scriverne.

«Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi egli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della dettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in libro De temporibus, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio d'Ottaviano Cesare..., che fu avanti la nativitá di Cristo da quattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel detto libro, della sua nativitá cosí: «Virgilius Maro in vico Andes, haud longe a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus»; il quale anno fu avanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattro anni e parte del quinto) bene venti anni.

«E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno disposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e di quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo 'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto d'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima composto la Buccolica, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi paterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurione chiamato Arrio, compose la Georgica. Poi, sí come Macrobio in libro Saturnaliorum scrive, mostra mentre che scrisse l'Eneida si stesse in villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa fece Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E portò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago, vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché, essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche, di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano, mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano. Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni cavallo che avesse i dolori, o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno a questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle quali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altra dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua vicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli passava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava dall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava la bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che egli talvolta vi usasse, questo è credibile.

«Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per nazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri, d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli lasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti tutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e molte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romani conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e, oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad Antonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, il vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominare Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominato Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo libro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto. Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudel giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e buono per la republica.

«Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii, «quia dii gentium daemonia»: «bugiardi» gli chiama, percioché il demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.

[Lez.III]

«Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta» piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e che onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta» venire da un verbo detto «poio pois», il quale, secondo che li grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «fingo fingis»: il qual «fingo» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre», per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque che dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal detto verbo «poio» viene questo nome «poeta»; e percioché quello suona «poio» che «fingo», lasciati stare gli altri significati di «fingo», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire», conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di sterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgo gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso papa De filio prodigo questa parola: «Carmina poëtarum sunt cibus daemoniorum»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita fronte contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti le parole della Filosofia a Boezio, dove dice: - «Quis - inquit - has scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent venenis?» - E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a nemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]

[Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima parte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza della qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa, gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e mutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidenti argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici; estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esser degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'uno amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo: costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano, queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, per farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini, artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci fu appellato «poetes»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito parlare»; e da «poetes» venne il nome del «poeta», il qual nulla altra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che prima trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non solamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro dice Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se bene si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare differenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parole nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero che si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da verace dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i loro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove fingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual cosa assai bene si può cognoscere per la Buccolica del mio eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sotto alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; e similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, come gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]

[Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai chiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso e ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto, è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notizia fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava esser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato, avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]

[E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma eziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali li stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a ciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente furono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi: estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo la vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che, come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da conservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli non fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse quella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, a Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini: la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire: - Noi gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono da schifare sí come erronee; - direi che da tollerar fosse, se Platone, Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai, cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il che non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular malivolenzia il faccia fare.]

[Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte contro a' poeti.]

[Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da esser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La qual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua Republica non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine, della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio di udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni, chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo in quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti delle quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano, di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i buon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestá discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando, se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che creda che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è dalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello estremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamente studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i costumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederá ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il venerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cui costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, la cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti cacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli sí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è, in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni usanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si troverá di molti altri.]

[Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «Daemonum cibus sunt carmina poëtarum». Le quali parole senza alcun dubbio son vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potuto vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de' giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú i vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la figura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E, accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figura posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio dice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra setta fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: e cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i versi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da' fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio si può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san Silvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá e sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori, scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par questa poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e laudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]

[Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta pistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altro religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino oficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onesti versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi ritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamente non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato e gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare in quello libro, il quale esso appella delle Mitologiae, da lui con elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E similmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solerte vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santo uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mai nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]

[Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo, maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, con tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che quasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro fermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi libri, il prologo del libro il quale egli chiama Hebraicarum quaestionum, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se esso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti. Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a sant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poeti nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di confondere.]

[Appresso, se essi nol sanno, leggano negli Atti degli apostoli e troveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio, disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi, d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato il testimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «Corrumpunt mores bonos colloquia mala». E similmente, se io bene mi ricordo, egli allega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si potrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice: «Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri». E cosí colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello, che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita, discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il quale compose Della celeste gerarchia. Esso dice e proseguita e pruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra l'altre cose cosí: «Etenim valde artificialiter theologia poëticis sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram, ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas Scripturas»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma seguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali io potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non esso medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte allo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «Durum est tibi contra stimulum calcitrare»? Ma sia di lungi da me che io creda Cristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio prendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostro Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque diranno questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il nome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente dannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, che credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel petto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]

[Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran parte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e disoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non a sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun dubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto ricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé ogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa proceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (a fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti, chiama la Filosofia queste muse «meretriculae scenicae», non perché ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questo vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce. Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gli uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile a ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato, quando dice: - Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e alla integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli mostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí come uomo passionato e afflitto. - Nelle quali parole si può comprendere non essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque nel disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia «meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto esercizio l'adoperano.]

[Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in altra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo averne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le sue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]

[Lez. IV]

«E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»; e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché «cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puote aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno esser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, che da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovani greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono, anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere nella fine del primo dell'Eneida di Virgilio, dove, dopo la notabile cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli errori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e degli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco, e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'Eneida, ma molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'Ostirina, l'Ethna, il Culice, la Priapea, il Cathalecthon, le Dire, gli Epigrammati, la Copa, il Moreto e altri; ma sopra tutti fu l'Eneida, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da Napoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il detto Eneida, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti la tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo a Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza d'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio, ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma il correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non v'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre, potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare le sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato di vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli, lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacesse morto, dove gli era dilettato di vivere.]

«Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio nel primo dell'Eneida fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste parole:

Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter

nec pietate fuit, nec bello maior et armis,

nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della schiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco, figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne da Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto, alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata da Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá reale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della sua Cosmografia, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa e disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo e de' suoi predecessori.

E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore, dicendo: - «Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella selva, della quale partito ti se'; - e quinci segue e fanne un'altra: - «Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e cagion di tutta gioia?». -

Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa seconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e, col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E, rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte non sale, e il suo aiuto addimanda, e dice: - «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?». - Commendalo qui l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo simigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte». Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabile luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del viso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si può prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la fronte. - «O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio è tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce dirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo. «Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore ha poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice: «Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere l'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l grande amore». E per questo intende mostrare un

atto caritativo, che fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno, averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha fatto cercare il tuo volume», l'Eneida.

«Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio chiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge «signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi, vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore aiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello stilo», del trattato, e massimamente dello 'Nferno, «che m'ha fatto onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo solecismo.

«Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto, «per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae a lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.

«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa l'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della natura di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostra Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo me'». Dice dunque: - «A te convien tenere altro viaggio», che quello il quale di tenere ti sforzi, - «rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi vide, - Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio», come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando misericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non della lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in una maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura sí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare, «Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per queste parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere nell'autore, dicendo: - Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale e pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero; - il qual avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che pria».

«Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne. Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale, congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assai bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col leopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autore non sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprendere l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la lettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in inferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá». È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de' quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morir con doglia».

«Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né peltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani; e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica la lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.

«Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama «ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l dí usiamo, dicendo d'un pessimo uomo: - Or questi è il buono uomo; - d'un traditore: - Questi è il leale uomo; - e simili cose. Dice adunque: «Di quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È

Italia una gran provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto), terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente in sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la vergine Camilla».

Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo dell'Eneida, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre, piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era nel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de' privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernati seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando il volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola e dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei botandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra parte trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in certe selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'una cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra alle spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare e gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e i suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' quali esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in correre di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamente parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza immollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma, virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, da Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove un dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una saetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essa morí incontanente.

«Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani troiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, il quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli circunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose Ascanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di far sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di tornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo; percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí fare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendo loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e trovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una grande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser seco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e uccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse: essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti rimasero.

«Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale d'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui, sdegnato, avea mosso

guerra ad Enea, e per questo molte battaglie aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine del dodicesimo dell'Eneida, soprastandogli Enea in una singular battaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il qua1e era stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.

E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte d'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccole circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco il voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio cessò però la romana superbia, perseverando in essa la sede apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano alla presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque altiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piú all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domande fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.

«Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè estermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.

«Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta, dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e, secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la natura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso e discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo eterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò, potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima; la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere la fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú spezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutti corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, la qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta tribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannato grida, non dimandandola, ma dolendosi.]

«E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice «contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse con contentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il tempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti, «se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come nel trentesimo canto del Purgatorio si legge.] «Ché quello imperador», cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui ribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti, «Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte parti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui, cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono. -

«Io cominciai: - Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il consiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni, dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga la porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il vicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere, «cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne. -

«Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo disposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esser partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni dietro», cioè il seguitai.

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