sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO DECIMOSECONDO

CANTO DECIMOSECONDO

I.

SENSO LETTERALE

[Lez. XLIV]

«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente canto al precedente assai evidentemente, percioché, avendogli mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dello 'nferno, e sollecitandolo a continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano a loro smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual fosse la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d'intorno v'andasse; nella quarta mostra come Virgilio parlasse a' centauri che 'l fiume circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de' tiranni e de' rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato l'autore dall'altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma ficca gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta quivi: «Noi ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si rivolse».

Dice adunque: «Era lo loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva», intendendo per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno distinzione tra «riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del fiume, e «ripa» gli argini che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in luoghi declivi, per li quali d'alcun luogo alto si scende al piú basso, come era in questo luogo. E dice questo luogo essere «alpestro», cioè senza alcun ordinato sentiero o via, sí come noi il piú veggiamo i trarupi dell'alpi e de' luoghi salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch'è «tal, per quel ch'ivi er'anco», cioè per lo Minotauro, che in quel luogo giacea come appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe schiva», a doverlo riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo, nel dimostra per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella ruina, che nel fianco Di lá da Trento l'Adice percosse».

questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di Lombardia, verso Tiralli su per l'Adice, la quale alla sommitá d'un monte discende tutta in su la riva dell'Adice. E la cagione di questa ruina del monte pare essere stata l'una delle tre cose: o l'essere stato il monte percosso nel lato dall'impeto del fiume, il quale, scendendo delle montagne propinque, viene ne' tempi delle piove con velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual non è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o veramente cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada, come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per mancamento di sostegno. È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre acqua, la quale, evaporando e umettando le parti superiori delle caverne, sempre le rodono e indeboliscono; per che avvien talvolta che, premute molto dal peso superiore, non potendolo sostener piú, cascano, e cosí casca quel che di sopra v'era: e quinci talvolta procedono le voragini, le quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.

E avendo adunque l'autor detto: «l'Adice percosse», pone l'altre due cagioni per le quali poté 
avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per sostegno manco».

il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre della terra, il quale, essendo molto e volendo uscir del luogo nel quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall'una parte all'altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti tremare; ed è talvolta il triemito di tanta potenza, che egli fa cadere gli edifici e le cittá, alle quali egli è vicino.

Séguita poi l'autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualitá del luogo, e dice: «Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde si mosse», quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia discoscesa, Ch'alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi su fosse», cioè sopra 'l monte: «Cotal di quel burrato»; «burrati» spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de' luoghi alpigini e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo, dove venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte trarupato che dimostrato ha; «E 'n su la punta», cioè in su la sommitá, «della rotta lacca», cioè ripa, «L'infamia di Creti era distesa», cioè il Minotauro, la cui concezione fu sí fuori de' termini naturali e abominevole, che all'isola di Creti, nella quale esso fu, secondo le favole, generato, ne seguí perpetua infamia; «Che fu concetta», questa infamia di Creti, «nella falsa vacca», cioè in una vacca di legno, come appresso dimostrerò.

[È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro, dove si tratta di Minos, 
detto, che, volendo Minos andare sopra gli ateniesi a vendicare la morte d'Androgeo, suo figliuolo, il quale essi e' megarensi avevano per invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre, che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli mandò un toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos che esso non l'uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo marito, e agli altri iddii l'adulterio nel quale ella stava con Marte, fece che Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s'innamorò di questo toro cosí bello; e, andato Minos ad Atene, ella pregò Dedalo, il quale era ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse giacere con questo toro. Per la qual cosa Dedalo fece una vacca di legno vota dentro, e, fatta uccidere una vacca, la qual parea che oltre ad ogni altra dell'armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro e stare in guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si creò, e poi nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro. Il qual cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata «laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali voleva far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto Teseo, figliuolo d'Egeo, re d'Atene, e quivi dimorato alcun dí, e in quegli Adriana, figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di lui, e avendo avuta la sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl'insegnò come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro ad uno spago se ne tornasse fuori della prigione. La qual cosa Teseo fece; e, giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa, la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d'un bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l'ammaestramento datogli da Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito del laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il qual dice:

«E quando», quel Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse, Sí come quei», si morde, «cui l'ira dentro fiacca», cioè rompe e divide dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente incrudelisce.

Ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere qual sia la qualitá de' peccatori, che nel cerchio dove discendono si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere bestiale, poiché, per l'animal preposto al luogo, convenientemente, sí per la generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive. Appresso è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio settimo opporsi all'autore, che negli altri cerchi superiori è dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con atti o con parole si sforzi di spaventar l'autore, e di ritrarlo per paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte sarebbe stato rimosso, se i buoni conforti e l'aiuto della ragione non l'avesse, nella persona di Virgilio, aiutato.

Séguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa fiera bestia mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio desse di passare all'autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio gridò», cioè parlò forte verso il Minotauro: «- Forse Tu credi, che qui sia 'l duca d'Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene. «Partiti, bestia», del luogo dove tu se' per impedire il passo a costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non viene Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne Teseo, il qual t'uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per veder le vostre pene», - di te e degli altri.

E, queste parole dette, ne mostra l'autore per una comparazione quello che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel toro, che si slaccia», cioè sviluppa e scioglie da' legami postigli da coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l'hanno, «in quella», ora, «C'ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché, avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la ragione delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l'ordine dell'appetito, il quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e perciò non va, «ma qua e lá saltella», come l'impeto del dolore il sospigne; «Vid'io il Minotauro far cotale», cioè senza saper che si fare, o dove andare, andar saltando e furiando; «E quegli», cioè Virgilio, «accorto gridò», cioè avvedutamente mi disse:

«Corri al varco», donde vedi si può discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava; «Mentre ch'è 'n furia, è buon che tu ti cale», quasi voglia dire: quando in furia non fosse, sarebbe piú difficile il poter discendere; e in ciò n'ammaestra alcuno altro consiglio non essere migliore, quando l'iracundo in tanta ira s'è acceso che furioso è divenuto, che il partirsi e lasciarlo stare.

«Cosí prendemmo». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo il Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie' piedi per lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e premeva, percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e però dice «nuovo carco», perché non era usato per quel cammino d'andare persona viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse.

«Io giá pensando»: qui mostra Virgilio d'aver conosciuto il pensier dell'autore per avviso, non giá che altra certezza n'avesse, e però dice: «e que' disse: - Tu pensi Forse a questa ruina, ch'è guardata Da quell'ira bestial, ch'io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E oltre a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe alcun dire: se quello Minotauro era iracundo, non pare che l'autore il dovesse in questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella palude di Stige, dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio assai ben si mostra soluto per l'adiettivo il quale dá a questa ira, chiamandola «ira bestiale». La quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i termini dell'ira umana, che ella è trasandata nella bestialitá, e per conseguente convertita in ostinato odio; e perciò attamente esser posta alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali.] Ma Virgilio, a solvere l'autore del suo pensiero. [il qual, tacendo, confessa esser per quella cagione che Virgilio dice], comincia, continuandosi cosí: «Or vo' che sappi che, l'altra fiata Ch'io discesi quaggiú nel basso inferno», come di sopra è stato detto nel canto nono, «Questa roccia non era ancor cascata»; e perciò gli dimostra quando avvisa che ella dovesse cascare, dicendo: «Ma certo poco pria, se ben discerno», immaginando, «Che venisse colui», cioè Cristo, «che la gran preda», cioè i santi padri, «Levò a Dite», cioè al principe de' dimòni (il quale, quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da' poeti è chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell'Eneida, dove dice: «inferni regia Ditis»), «del cerchio superno», cioè del limbo, il quale è il primo cerchio dello 'nferno.

E perciò dice Virgilio: - Poco prima che venisse Cristo a spogliar il limbo, - percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in su la croce all'ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l'altre cose che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente tremò, che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando tutta, tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo tempo fu poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l'anima di Cristo non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in paradiso, sí come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette su la croce al ladrone: «Amen, dico tibi, hodie mecum eris in paradiso», ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l'aurora, risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal tremuoto universale allo spogliar lo 'nferno, quanto fu tra l'ora nona del venerdí e la prima della domenica. E questo è quel «poco prima» che Virgilio dice qui.

Poi séguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho giá dichiarato, cioè: «Da tutte parti», e in questo ne dimostra l'universalitá del tremuoto, «l'alta», cioè profonda, «valle feda», puzzolente d'inferno, «Tremò sí», cioè oltremodo, «ch'io pensai che l'universo», cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».

Qui è da ritornarsi alla memoria l'opinione, la quale di sopra raccontai nel canto quarto essere stata di Democrito, il qual tenne esser due princípi a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le cose, la quale egli appellava «caos», e in questa materia diceva essere i semi di tutte le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa e distinta forma dall'altre, essersi a caso separate da questo caos e perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere odio, in quanto le cose prodotte s'erano dal lor principio separate, quasí come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí: come ogni forma prodotta s'era da questo suo principio separata, cosí dopo molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e univa col suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli sentí questo tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito né avea udito da alcuno che sentito l'avesse, maravigliandosi credette che l'universo, cioè tutte le cose, sentissero questo amore, che detto è, e dovessersi ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma risoluto.

E quinci, volendo mostrare questa non essere sua opinione, ma d'altrui, dice: «per lo quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi seguaci, «Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che di sopra è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale fu, «questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal fece riverso», qual tu puoi vedere.

[Lez. XLV]

«Ma ficca gli occhi». Qui, finita la seconda parte, comincia la terza del presente canto, nella quale l'autor discrive come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d'intorno v'andasse; e dice che, poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella roccia, alla quale esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle, ché s'approccia La riviera», cioè il fiume o 'l fosso, «del sangue, in la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo; «Qual che per violenza in altrui noccia», - rubando o uccidendo; e cosí appare questa essere la prima spezie de' violenti, de' quali di sopra è detto. La qual riviera del sangue come l'autor vide, cosí contra i vizi, da' quali si può comprendere questa spezie di violenza esser causata, leva la voce, ed esclamando dice:

«O cieca cupidigia», cioè disiderio d'avere; e cosí apparirá radice di questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra, dove dell'avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito d'avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a dimostrarne l'altra radice dell'altra parte della violenza, la qual si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza e bestiale, la quale è cagione dell'uccisioni che fanno i rubatori; percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono, o da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all'uccisione, e cosí fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue adunque: «Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in numero singulare, si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione, («O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla seconda parte («o ira folle»), «nella vita corta», cioè in questa vita mortale, la quale, per rispetto della eternitá, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe dire essere un batter di ciglia; «E nell'eterna poi», cioè in quella nella quale, cosí peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio dannati, «sí mal c'immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento de' miseri, li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in questo condolersi, l'autor mostrare d'essere stato di questa colpa peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura compunzione e dolore.

Ma poi che egli ha detto contro a' due vizi, li quali son cagione della violenza che nelle cose e nella persona del prossimo si commette, ed egli piú appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i miseri son puniti, dicendo: «Io vidi un'ampia fossa», cioè un fiume, «in arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio, «abbraccia», col girar suo, «Secondo ch'avea detto la mia scorta». Dove questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui averlo detto in alcun de' ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l'autore non l'avere scritto. «E tra 'l piè della ripa», la quale circundava il luogo, «ad essa», fossa, «in traccia, Venien centauri armati di saette», (supple) e d'archi (percioché invano si porteria la saetta, se l'uomo non avesse l'arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare a caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui posti, si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.

«Vedendoci calar». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poi che l'autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a' centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto per guida. Dice adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci», percioché l'autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le pietre di quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per maraviglia a ristare, udendo ciò ch'usati non eran d'udire,] «calar», cioè discendere, «ciascun», de' centauri, «ristette, E della schiera tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed asticciuole», cioè saette, «prima elette», cioè tratte del turcasso o d'altra parte, ove per avventura le portavano. «E l'un», di que' tre, «gridò da lungi: - A qual martiro Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci», ove voi siete, «se non», (supple) il direte, «l'arco tiro»; - quasi voglia dire: io vi saetterò.

«Lo mio maestro disse: - La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel centauro il quale è preposto di voi. E poi, in detestazion della sua troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva fatto al Minotauro, dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí tosta», - cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse: - Quegli», al quale io ho ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe' di sé la vendetta egli stesso», - posciaché fu morto.

[Fu questo Nesso, tra' centauri famosissimo, figliuolo d'Issione e d'una nuvola, come gli altri, ed essendo insieme co' fratelli in Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di vivanda e vino, volle tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della quale si levò Teseo, amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava lapiti, e ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso, gli disse un de' suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva vaticinare: - Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire, percioché la tua morte è riservata da' fati alle mani d'Ercule. - Per la qual cosa egli se n'andò in Calidonia, e quivi allato ad un fiume chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo di Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta moglie d'Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la patria, trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira; e fattosi avanti, quasi pronto a' servigi d'Ercule, disse: - Ercule, dove tu creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira. - Alla qual profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando Ercule, Nesso con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato, e pervenuto all'altra riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo. Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente, percioché sapea le saette d'Ercule tutte essere intinte nel sangue della idra, la quale uccisa avea, e cosí essere velenosissime, pensò in vendetta della sua morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camiscia, la quale giá era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito della sua piaga, disse: - Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in riconoscenza del grande amore il quale io t'ho portato e porto, se non questa mia camiscia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli avvenga che Ercule in altra femmina ponga amore, dove tu possi fare vestirgli questo vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da ogni altra femmina, e ritornerallo in te. - Deianira, credendo questo dovere esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo, avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una giovane chiamata Iole, figliuola d'Eurito, re d'Etolia, occultamente adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi e sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello, liquefatto, gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia addosso, che esso, composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò dentro e in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sé egli stesso.]

[La bella Deianira fu figliuola d'Oeneo, re di Calidonia, e fu ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani nobili la disiderarono e domandaron per moglie; ma, dopo molte cose, essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad Ercule domandantela, nacque guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo Acheloo vinto da Ercule, ne rimase Ercule in pacifica possessione. Dice Teodonzio che la guerra, la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume, fu in questa maniera, che, rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e per questo molto alcuna volta per le piove la provincia, crescendo, guastasse, fu ad Ercule, addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre di lei, questa condizione, che egli la poteva avere dove recasse Acheloo in un solo alveo, e quello sí d'argini forti chiudesse, che egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule con grandissima fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato corso d'Acheloo, ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è detto, che ad Ercule mandò la camiscia di Nesso.]

«E quel», centauro, «di mezzo ch'al petto si mira. È 'l gran Chirone, il qual nudrí Achille». [Questo Chirone non fu de' figliuoli d'Issione, ma fu, secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira, comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della sua origine si recita questa favola: che Saturno, preso della bellezza di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice Servio, che, giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis, sua moglie, e perciò, accioché da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo, partorí un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi in giú era cavallo; il qual cresciuto, se ne andò alle selve e in quelle abitò e in quelle nudrí Achille, come di sopra si disse, dove d'Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi, essendo stato dal padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe, sua figliuola profetante, predetto che esso ancora disidererebbe d'esser mortale; avvenne che, avendolo visitato Ercule, per caso gli cadde sopra il piè una delle saette d'Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano avvelenate nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato, accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar gl'iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse morire: la qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo la morte sua fu dagl'iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco, ed è quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario.]

«Quell'altro è Folo, che fu sí pien d'ira». Di questo Folo niuna cosa abbiamo se non che esso fu figliuolo d'Issione e d'una nuvola, come gli altri centauri.

«Dintorno al fosso», nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a mille a mille, Saettando quale anima», de' miseri dannati, «si svelle Del sangue», cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste parole, e ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la violenza commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio voluto l'anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.

«Noi ci appressammo a quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli «fiere», percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la barba», la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»; e ciò fece, accioché essa non impedisse le sue parole.

«Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, Disse ai compagni: - Siete voi accorti Che quel di dietro», che era l'autore, «muove», co' piedi, «ciò che tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de' morti», cioè dell'anime partite da' corpi morti.

«E 'l mio buon duca, che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due nature», cioè l'umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione, «Rispose: - Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché egli è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien la valle buia», d'inferno; «Necessitá il conduce», in quanto, come altra volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella quale va l'autore, andare a chi vuole uscire della prigione del diavolo; «e non diletto», ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.

«Tal si partí da cantare alleluia»: e questa fu Beatrice, la quale, lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al soccorso dell'autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato detto.

Alleluia» è dizione ebraica, e secondo alcuni è «interiectio laetantis»; ma Papia dice che «alleluia» in latino vuol dire «laude di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre a ciò, questa dizione s'interpetra in due modi, de' quali è l'uno: «cantate a colui il quale è», e cosí c'invita alla laude di questo Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a quegli iddii li quali non erano: e l'altro modo è: «Iddio, benedicci tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede e umanitá, e cosí siam degni d'essere benedetti da Dio. Altri ne fanno loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte mostrare.]

«Che mi commise quest'ufficio nuovo», e disusato, cioè d'accompagnare uom vivo per lo 'nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi», mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice: «Non ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché nell'ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che trapassi l'autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú, per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la virtú di Dio, «Danne un de' tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo», cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e «Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto che per l'aer vada», - come fo io e gli altri.

«Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio, «E disse a Nesso: - Torna, e si gli guida, E fa' cansar», cioè cessare, «s'altra schiera v'intoppa», - cioè vi si scontra, di centauri.

[Lez. XLVI]

«Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice l'autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de' tiranni e de' rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli occhi, «E' l gran centauro», cioè Nesso, «disse: - E' son tiranni», quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell'aver», del prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle persone e nell'avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io ti dico che piangono, «è Alessandro».

Non dice l'autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono tutti i mali fatti da' minori, credo sia da intendere che egli abbia voluto dire d'Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo, chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.

Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia, e d'Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d'Egitto, il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella dimestichezza d'Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra; né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane di grande e d'ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d'assalire. E, pervenuto in Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s'ingegnò di sciogliere i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d'Asia; e, non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e' figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da' suoi medesimi essere stato ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni, navicò agli ambri e a' sicambri, li quali non senza suo gran pericolo vinti, messi nelle sue navi molti de' suoi, li quali estimò piú valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d'un re chiamato Ambigeri, lui, ancora che molti con saette avvelenate n'uccidesse, vinse; e di quindi venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia, dove sposò Rosanne, l'una delle figliuole del re Dario. E, mentre che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori de' cartaginesi e degli altri popoli d'Affrica, e di piú cittá di Spagna, di Gallia, d'Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte si dicevano, disideravano la grazia e l'amistá sua. I romani non vi mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo Ab urbe condita quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani e si sarebber da lui difesi, e forse l'avrebber cacciato. Quivi in Babilonia, da Cassandro, figliuolo d'Antipatro, si crede gli fosse dato veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.

Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune degli uomini, ma de' regni e delle libertá degli uomini, violentissimo; e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de' nemici, ma ancora degli amici, de' quali giá caldo di vino e di vivanda, ne' conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote assai convenientemente credere l'autore aver voluto s'intenda lui in questo ardentissimo sangue esser dannato.

«E Dionisio fèro, Che fe' Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo che Giustino scrive, due Dionisi, l'un padre e l'altro figliuolo, e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l'autor si voglia dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro De quaestionibus Tusculanis, il primo Dionisio nato di buoni e d'onesti parenti, e similmente d'onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per che ricorsa al consiglio degl'interpetratori de' sogni, le fu risposto che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui, nato e giá d'etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana, chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi mostrate tutte le stanze degl'iddii, le quali mentre riguardando andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui essere crudelissima morte di Cicilia e d'Italia, e, come egli fosse sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo di tempo, quasí come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto Dionisio in signore de' siracusani, e tutti i cittadini a vederlo nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti; Imera similmente v'andò, e tantosto che ella il vide, altamente disse: - Questi è colui, il quale io vidi legato a' piedi di Giove; - il che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del tutto consumati, e da loro liberata l'isola, Dionisio occupata, secondo che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e guerreggiando que' di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in compagnia quelle reliquie de' galli, li quali avevano Roma guasta. Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti debilitato assai, da' suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto anni regnato.

Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna giustizia, e crudelissimo occupatore dell'altrui sustanze, vago del sangue degli uomini e disprezzator degl'iddii. Ed essendo allevato con certi giovanetti greci, l'usanza de' quali il dovea trarre ad amarli, mai d'alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore, in ferocissimi barbari commise ]a guardia del corpo suo. Della qual fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d'alcun barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando, fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali l'una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l'altra Dorida della cittá di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la camera nella qual dormia, d'una larghissima fossa, e sopra quella fatto un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato l'uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante, salito sopra un'alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue ricchezze, la signoria e la maestá e l'abbondanza delle cose e la magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di lui; gli disse Dionisio una volta: - O Damocle, percioché io m'accorgo che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia fortuna? - Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo, comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi, li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a' bellissimi servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.

Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de' beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl'iddii e sacrilego. Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi, li quali con lui erano: - Vedete voi come buon navicare sia conceduto dagl'iddii a' sacrilegi? - E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio un mantello d'oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno di lana, disse che quello dell'oro era la state troppo grave e 'l verno troppo freddo; ma, quello che messo l'avea, era a ciascun de' detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell'oro alla statua d'Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de' templi piú mense d'oro e d'ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era scritto quelle essere de' beni degl'iddii; dicendo, quando le prendeva, sé usare de' beni degl'iddii. E, oltre a ciò, molti doni d'oro e care cose, le quali le statue degl'iddii con le braccia sportate innanzi sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle; stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti aver detto.

E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto Dionisio stato ucciso da' suoi, essi medesimi, che ucciso avevano il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa tutti i parenti de' fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a pezzi, per levarsi ogni sospetto d'alcuno che al regno potesse aver l'animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro si diede tutto all'ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere da' suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma, uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la cittá riempie' d'uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due, se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra a' siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d'arme, sperante d'arricchire della preda e della ruberia della cittá, di prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo stato vinto, e avendo infelicemente un'altra volta tentata la fortuna della battaglia, mandò ambasciadori a' siracusani, promettendo che esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i siracusani mandatigli a questo fare de' migliori della cittá, esso, ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani, mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da' locrensí come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva rapire le nobili donne de' maggiori della cittá, e facevasi per forza menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui piaceva tenute l'avea, le faceva rendere a' parenti loro; oltre a ciò li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere, e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto per patti fatti co' siracusani, lasciata la signoria, povero e misero n'andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi alle piú infime e misere cose che poté, ne' vilissimi luoghi e con vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si diede a insegnar giucare alla palla a' fanciulli; e in cosí fatta guisa vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell'aver del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente l'autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de' violenti nel dimostra.

«E quella fronte, c'ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama Musatto padovano in una sua tragedia Ecerino, ed è quello Azzolino, il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente de' padovani, de' quali ad un'ora avendone nel prato di Padova rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio, o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di sé. - Adunque - disse Azzolino, - avendomi il diavolo fatte molte grazie, io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l'anime di costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te, poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro, e nominatamente da mia parte gliele presenta. - E, fattolo menar lá col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente, avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere Melano, trovò al fiume d'Adda il marchese Palavicino con gente essergli venuto all'incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio, e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come mostrato è, il pone l'autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.

[Lez. XLVII]

«E quell'altro, ch'è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu fatto per la Chiesa marchese della Marca d'Ancona, nella quale, piú la violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con l'aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella la famiglia de' Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e, appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne cacciò de' suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l'autor mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d'Opizzo averlo conceputo d'altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo l'avesse: e perciò dice l'autore «Fu spento», cioè morto, «dal figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra' tiranni e omicide e rubatori il dimostra esser dannato.

«Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que' disse: - Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo». - E vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a quel che dice.

«Poco piú oltre il centauro s'affisse Sovr'una gente che 'nfino alla gola Parea che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l'altro corpo nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in questo bollire, quel sangue è somigliante a quell'acqua, per lo nome di quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».

«Mostrocci un'ombra dall'un canto sola. Dicendo: - Colei fesse in grembo a Dio, Lo cor, che 'n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo, fratelli, e figliuoli del re Riccardo d'Inghilterra, e pervenuti a Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che, essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte; e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d'uomini d'arme, quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa uscito per andarsene, il domandò un de' suoi cavalieri ciò che fatto avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e, secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere disse: - Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro padre fu strascinato. - Per le quali parole il conte, tornato indietro, prese per li capelli il morto corpo d'Arrigo, e quello villanamente strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo, senza alcuno impedimento se n'andò in Maremma nelle terre del conte Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l'autore il dimostra essere in questo cerchio dannato. E in quanto l'autor dicesse «fesse», intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è in quella, dee cosí essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l'autore essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor, che 'n su Tamigi ancor si cola», cioè d'Arrigo, ucciso dal detto conte. Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l'altro corpo con molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a Londra, fece mettere in un calice d'oro; e, fatta fare una statua di pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una colonna sopra 'l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna, questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta al detto Arrigo e alla real casa d'Inghilterra. E quegli che dicono questa essere statua, aggiungono essere nel vestimento della detta statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: «Cor gladio scissum do cui sanguineus sum»; cioè: «io do il cuor fesso col coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d'un medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l'autore che questo cuore d'Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola», cioè onora; e viene da colo, colis; e pertanto dice che egli s'onora, in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte passano, riguardato.

«Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente, «tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l'aere, e mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre che seguono, comprendere, secondo il piú e 'l meno avere violentemente ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto fuori del bollore, «assai riconobb'io», ma pur non ne nomina alcuno.

«Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli che dentro v'erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.

E, passati che furono: - «Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu vedi, non cuopre piú su che i piedi: «- Disse 'l centauro, - voglio che tu credi, Che da quest'altra», parte, lungo la quale noi non siam venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo, «infin ch'e' si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta, «Quell'Attila, che fu flagello in terra».

Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re de' goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la lor forza s'avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine de' suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro, con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella qual battaglia furono uccise tante genti dell'una parte e dell'altra, che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo predetto, e' vi furono uccisi centottanta migliaia d'uomini. Per la qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombardia, similmente molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la quale passò col suo esercito, e per i meriti de' prieghi di san Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de' suoi; per la qual cosa, avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece. Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in que' tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d'Attila, il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea; a' quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta, ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano un coltello ignudo, e minacciavalo d'ucciderlo se egli non facesse quello che'l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e l'impeto d'Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia; e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l'affogò, e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l'arco d'Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser morto, e la mattina seguente a piú de' suoi amici il disse; e poi si ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto.

Fu costui cognominato «flagellum Dei», e veramente egli fu flagello di Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze degl'italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare e punire le iniquitá degl'italiani, le quali in tanto ogni dovere eccedevano, che esse erano divenute importabili.

Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila, li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano imperadore, il qual fu promesso all'imperio di Roma, secondo che scrive Paolo predetto, intorno dell'anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu suo successore, fu a' tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in Italia da Giustino, sconfitto e morto.

«E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de' quali l'uno fu figliuolo d'Achille, l'altro fu figliuolo d'Eacida, re degli epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore, pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché l'autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del primo Pirro.

Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d'Achille e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille morto a Troia per l'inganno d'Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato dall'amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era solo e di notte andato nel tempio d'Apolline timbreo; fu di costui cercato, e assai garzone fu menato all'assedio di Troia. E, secondo che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno, il qual fu tirato in Troia per gl'inganni di Sinone: ed essendo di quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza, trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite, suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresí, quantunque vecchio fosse; e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando all'etá né al sesso innocuo, crudelmente l'uccise. Poi, essendogli, fra l'altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie stata d'Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo consiglio d'Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli stato, per l'assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de' molossi, li quali dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d'Elena, stata sposata ad Oreste, figliuolo d'Agamennone; e ad Eleno, figliuolo di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive. Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive, essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far dovesse d'alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d'Ercule, la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo, o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote del tempio d'Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in vendetta della ingiuria fattagli d'Ermione.

Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo d'Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da' suoi cittadini, per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio, e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re degl'illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor grazia che, saputo lá dov'egli era, non dubitasse Glauco di prender guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono l'odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d'etá d'undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori, li quali infino all'etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da' tarentini venne in Italia contro a' romani; e ancora chiamato in Cicilia da' siragusani, quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò in Epíro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone Antigono re. Poi, avendo giá levato l'animo a voler prendere il reame d'Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d'Argo in Acaia, fu d'in su le mura della cittá percosso d'un sasso, il quale l'uccise.

Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l'autor si voglia dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può comprendere, per lo suo corseggiare e per l'altre sue opere, fu e crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore ne' suoi esercizi.

«E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell'opere fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco Antonio e con Marco Lepido avendo preso l'oficio del triumvirato, e molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli, raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna, intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica. Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle parti d'Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia contro a Menecrate, uno de' duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian Cesare ancora combattendo contro a' pompeiani gli sconfisse; appresso Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse Pompeo e' suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia. Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in Cicilia, e Ottaviano veggendo l'armata di Pompeo ordinata, comandò al detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente commessa co' nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse diciotto, con gran fatica scampato delle mani de' nemici. Che molte parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi, con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio, e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi, fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell'altrui sostanze e vago versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente, secondo che qui mostra l'autore, fu dalla divina giustizia dannato.

«Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione, e ladrone famosissimo ne' suoi dí, gran parte della marittima di Roma tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier Pazzo». Questi fu messer Rinieri de' Pazzi di Valdarno, uomo similmente pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie operazioni l'autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi veniva.

«Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente canto, nella quale l'autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall'altra parte portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo: «Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato l'avea, «e ripassossi 'l guazzo», cioè quel fossato del sangue.

II

SENSO ALLEGORICO

[Lez. XLVIII]

«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co' suoi utili e sani consigli condotto l'autore, senza lasciarlo nelle miserie temporali intignere l'affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli l'ordine degl'inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá de' peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce a vedere i tormenti della prima spezie de' violenti, cioè di quegli che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l'autore accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma d'un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale primieramente presuppone l'autore essere stata vera la favola di sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però, questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente de' bestiali.]

[Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella favola si racconta, generato costui d'uomo e di bestia, cioè di Pasife e d'un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l'anima nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole. Costei è infestata da Venere, cioè dall'appetito concupiscibile e dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare il fervore dell'ira. Questi due appetiti, quantunque l'anima nostra infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione, non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non curando il consiglio della ragione, s'inchina a compiacere ad alcuno di questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá ne' vizi naturali. Da' quali non correggendosi, le piú delle volte si suole lasciare sospignere nell'amor del toro, cioè negli appetti bestiali, li quali son fuori de' termini degli appetiti naturali, percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di peccare carnalmente, e di mangiare e d'avere, e ancora d'adirarci talvolta: ne' quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione, pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura, come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s'è l'uno de' due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo chi ponga modo agli stimoli, si lascia l'anima trasportare ne' disideri bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell'uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in quanto s'è lasciato tirare all'appetito bestiale ne' peccati bestiali.]

[I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l'ordine, il quale serva l'autore in punire queste colpe, n'è di necessitá di permutare l'ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte divorano con denti leonini o d'altro feroce animale, quante le rubano, ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L'altro costume di questa bestia dissi ch'era l'esser crudelissimo: il qual costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente si vede, quantunque crudel cosa sia l'uccidere e il rubare altrui, quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch'è il confonder le cose proprie e all'uccidere se medesimo, percioché questo passa ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo costume ne disegna l'autore in questo animale la seconda spezie de' violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l'esser fieramente furioso: e questo terzo costume s'appropria ottimamente alla colpa della terza spezie de' violenti, li quali, in quanto possono, fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle naturali leggi o contro al buon costume dell'arte adoperando: e contro a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo terzo costume ne disegna la terza spezie de' violenti.]

E, poiché la ragione ha mostrato all'autore la bestialitá e' suoi effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú e 'l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e, oltre a ciò, accioché niuno non esca de' termini postigli dalla divina giustizia, vanno d'intorno a questo fiume centauri, con archi e con saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in parte assai agevole a veder la cagione, percioché e' par convenevole che in quello, in che l'uomo s'è dilettato, in quello perisca: questi furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e soldati e i seguaci de' potenti uomini, gli fa la giustizia saettare a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori de' loro scellerati comandamenti, li quali l'autore intende per li centauri: [de' quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]

[È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui, secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo, e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde egli insuperbito per l'oficio, il quale era grande, ebbe ardire di richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove, sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone, ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone: per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno, e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la quale sempre si volge. L'allegoria della qual favola se attentamente riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno saettino.]

[Fu adunque, secondo le istorie de' greci, Issione oltre modo disideroso d'occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si sforzò d'ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell'aere, e alcuna volta la 'ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea de' regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s'intende e i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che essa aggiunga a' reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, sí come l'aere, si converte in tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell'aere per operazion del sole, de' vapori dell'acqua e della terra umida surgenti e condensati nell'aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del sole risoluta in aere, o dal freddo dell'aere convertita in piova. Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra' termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso comandi e sia ubbidito da' suoi come è il re. Ma, si come tra 'l chiaro aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra 'l re e 'l tiranno: l'aere risplendente e cosí è il nome reale, la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria intorniato d'orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de' sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de' sudditi signoreggia; il re con ogn'ingegno e vigilanza cerca l'accrescimento de' suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura d'accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de' suoi amici, e il tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e' parenti, pone l'anima sua nelle mani de' masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere per l'aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá, se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si risolve, o dal furore de' sudditi o dalla negligenza degli amici.]

[Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella finzion della favola d'Issione si potrá vedere. Dice la favola che Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire essere ricevuti, quando noi con l'animo contempliamo le cose eccelse, sí come sono le porpore e le corone de' re, gli splendori egregi, la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de' re, li quali, secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d'alcuno regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de' quali incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d'arme, di superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí come noi veggiamo essere i masnadieri e' soldati e gli altri ministri delle scellerate cose, alle forze e alla fede de' quali incontanente ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]

[E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati «centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios» in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del nome de' centauri.]

[E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli, racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d'un re di Tessaglia fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga, il detto re comandò a certi suoi uomini d'arme gli seguitassero; li quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono da quelli della contrada veduti solamente la persona dell'uomo e la parte posteriore de' cavalli; e da que' cotali, li quali non erano usi di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la figurazion di costoro.]

[Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro essere nati d'Issione, cioè del tiranno e d'una nuvola, cioè delle sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi mostrammo; le quali sustanze sono i beni de' sudditi, de' quali si mungono e traggono gli stipendi, de' quali i soldati in loro disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze e le ingiurie a' sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte sono ministri e facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí come costoro furono strumento alle malvagie opere de' tiranni, cosí sieno alla lor punizione.

Potrebbesi ancor dire che l'autor avesse voluto intendere, per gli stimoli delle saette de' centauri ne' violenti, s'intendessero le sollecitudini continue de' tiranni, le quali si può credere che abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per l'avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne' sudditi suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma, comeché nella presente vita si sia, nell'altra si dee intendere le saette, da questi centauri saettate ne' violenti, essere l'amaritudine della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell'arme; e cosí coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono, con le mani de' quali versarono il sangue del prossimo, rubarono le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori, tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.

Portfolio

       Ramón Guimerá Lorente Beceite blog, Beseit Beseit en chapurriau yo parlo lo chapurriau  y lo escric Chapurriau al Wordpress Lo Decame...