jueves, 27 de agosto de 2020

Paradiso, Canto XIX

CANTO XIX

[Canto XIX, nel quale li spiriti ch'erano ne la stella di Iove insieme conglutinati in forma d'aguglia, ad una voce solvono uno grande dubbio, e abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo MCCC.]

Parea dinanzi a me con l'ali aperte

la bella image che nel dolce frui

liete facevan l'anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui

raggio di sole ardesse sì acceso,

che ne' miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,

non portò voce mai, né scrisse incostro,

né fu per fantasia già mai compreso;

ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro,

e sonar ne la voce e «io» e «mio»,

quand' era nel concetto e 'noi' e 'nostro'.

E cominciò: «Per esser giusto e pio

son io qui essaltato a quella gloria

che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria

sì fatta, che le genti lì malvage

commendan lei, ma non seguon la storia».

Così un sol calor di molte brage

si fa sentir, come di molti amori

usciva solo un suon di quella image.

Ond' io appresso: «O perpetüi fiori

de l'etterna letizia, che pur uno

parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno

che lungamente m'ha tenuto in fame,

non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se 'n cielo altro reame

la divina giustizia fa suo specchio,

che 'l vostro non l'apprende con velame.

Sapete come attento io m'apparecchio

ad ascoltar; sapete qual è quello

dubbio che m'è digiun cotanto vecchio».

Quasi falcone ch'esce del cappello,

move la testa e con l'ali si plaude,

voglia mostrando e faccendosi bello,

vid' io farsi quel segno, che di laude

de la divina grazia era contesto,

con canti quai si sa chi là sù gaude.

Poi cominciò: «Colui che volse il sesto

a lo stremo del mondo, e dentro ad esso

distinse tanto occulto e manifesto,

non poté suo valor sì fare impresso

in tutto l'universo, che 'l suo verbo

non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che 'l primo superbo,

che fu la somma d'ogne creatura,

per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar ch'ogne minor natura

corto recettacolo a quel bene

che non ha fine e sé con sé misura.

Dunque vostra veduta, che convene

esser alcun de' raggi de la mente

di che tutte le cose son ripiene,

non pò da sua natura esser possente

tanto, che suo principio non discerna

molto di là da quel che l'è parvente.

Però ne la giustizia sempiterna

la vista che riceve il vostro mondo,

com' occhio per lo mare, entro s'interna;

che, ben che da la proda veggia il fondo,

in pelago nol vede; e nondimeno

èli, ma cela lui l'esser profondo.

Lume non è, se non vien dal sereno

che non si turba mai; anzi è tenèbra

od ombra de la carne o suo veleno.

Assai t'è mo aperta la latebra

che t'ascondeva la giustizia viva,

di che facei question cotanto crebra;

ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva

de l'Indo, e quivi non è chi ragioni

di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni

sono, quanto ragione umana vede,

sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:

ov' è questa giustizia che 'l condanna?

ov' è la colpa sua, se ei non crede?".

Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna,

per giudicar di lungi mille miglia

con la veduta corta d'una spanna?

Certo a colui che meco s'assottiglia,

se la Scrittura sovra voi non fosse,

da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!

La prima volontà, ch'è da sé buona,

da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:

nullo creato bene a sé la tira,

ma essa, radïando, lui cagiona».

Quale sovresso il nido si rigira

poi c'ha pasciuti la cicogna i figli,

e come quel ch'è pasto la rimira;

cotal si fece, e sì leväi i cigli,

la benedetta imagine, che l'ali

movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: «Quali

son le mie note a te, che non le 'ntendi,

tal è il giudicio etterno a voi mortali».

Poi si quetaro quei lucenti incendi

de lo Spirito Santo ancor nel segno

che fé i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciò: «A questo regno

non salì mai chi non credette 'n Cristo,

né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!",

che saranno in giudicio assai men prope

a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l'Etïòpe,

quando si partiranno i due collegi,

l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe.

Che poran dir li Perse a' vostri regi,

come vedranno quel volume aperto

nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

Lì si vedrà, tra l'opere d'Alberto,

quella che tosto moverà la penna,

per che 'l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna

induce, falseggiando la moneta,

quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch'asseta,

che fa lo Scotto e l'Inghilese folle,

sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e 'l viver molle

di quel di Spagna e di quel di Boemme,

che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme

segnata con un i la sua bontate,

quando 'l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l'avarizia e la viltate

di quei che guarda l'isola del foco,

ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,

la sua scrittura fian lettere mozze,

che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l'opere sozze

del barba e del fratel, che tanto egregia

nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia

lì si conosceranno, e quel di Rascia

che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia

più malmenare! e beata Navarra,

se s'armasse del monte che la fascia!

E creder de' ciascun che già, per arra

di questo, Niccosïa e Famagosta

per la lor bestia si lamenti e garra,

che dal fianco de l'altre non si scosta».

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