sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO DECIMOQUARTO

CANTO DECIMOQUARTO

I

SENSO LETTERALE


«Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i rami e le frondi sparte dall'impeto delle cagne, le quali avevano lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo cerchio punirsi quella spezie de' violenti, li quali contro a Dio e contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d'anime dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d'alcun di que' dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato avea; nella quinta l'autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse; nella sesta Virgilio gli discrive l'origine de' fiumi infernali; nella settima l'autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella ottava e ultima l'ammonisce Virgilio come dietro a lui vada. La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io cominciai: - Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta quivi: «Or mi vien'dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l'altro»; la settima quivi: «Ed io ancor: - Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse: - Omai».

Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l'amor, «del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v'era, «ragunai le frondi sparte» per l'impeto delle cagne, le quali avevan lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del precedente canto; «E rende' le», secondo che pregato avea, «a colui», cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch'era giá fioco», per lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si parte Lo secondo giron dal terzo», che è all'uscire di questo bosco; ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello 'nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e rigida.

«A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente parlando dichiara. e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto. «l'è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo, «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel qual la prima spezie de' violenti bollono nel sangue, cosí essa selva circunda il luogo, nel quale dice pervennero.

«Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l'estrema parte della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena».
la rena una terra tanto lavata dall'acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza della terra n'è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e, secondo alcuni, è detta «arena» da «areo ares», che sta per «esser secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l'autor volere che venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da «haereo haeres», il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s'accosta e appicca. Ma, come detto è, quella della quale l'autore intende qui, è della spezie prima. «Arida e spessa»; «arida» è l'uno degli aggettivi della rena, come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo di quel luogo non era alcuna interposizione d'alcun'altra spezie di terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice che era «Non d'altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena, «Che fu da' piè di Caton giá soppressa».

Questo Catone, del quale l'autore fa qui menzione, fu quello il quale dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui romano uomo, d'alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente in odio le maggioranze de' cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo, non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s'erano rifuggiti. Da' quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l'andar troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d'ogni disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.

Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto del Purgatorio, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò, alla quale l'autore assomiglia quella che in questo giron trovò.

[Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e' pare che per tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra 'l cielo della luna e la terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell'umana generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare, considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto; percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell'umana generazione; ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente addiviene, non è difetto della natura, sí come ne' nostri medesimi corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in buona abitudine, e noi poi col disordinatamente vivere, corrompiamo e facciamo infermi.]

[E che non opera della natura, ma d'accidente, fosse l'essere Libia arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che, per opera d'Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme d'alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna, e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d'un promontorio, il quale è dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si sia riempiuto: convenne adunque che d'alcuna altra parte del mondo piú rilevata l'acque si partissero, e venissero in questo mare; e, partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano, scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può credere essere state le contrade di Libia, d'Etiopia e di Numidia, le quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d'Asia. E che ciò possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che Pomponio Mela scrive nella sua Cosmografia, nella quale, parlando della provincia o del regno dí Numidia, scrive in alcuna parte di quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da' navicanti gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò, venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella contrada prodotta dalla natura fuori dell'uso dell'umana generazione, ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e non atta all'uso umano.]

[Lez. LIII]

«O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale, poiché l'autore ha discritta la qualitá del luogo nel quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d'anime dannate, e dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio». [Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l'autore, sí come molti altri fanno; percioché vendetta propriamente quella che gli uomini disiderano d'alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima, stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se medesimi fanno, cioè che egli s'adiri, che egli s'accenda in furore, che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non buone operazioni meritano d'esser punite, alla punizion delle quali insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò, se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando, è l'operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol «vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]

«Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro, «Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de' tuoi effetti! «D'anime nude vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia, «diversa legge».

E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta raccolta», con le gambe raccolte sotto l'anche, «Ed altra», parte di questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú molta», che alcuna dell'altre due le quali ha discritte, «E quella men, che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá; «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto il sabbion», cioè rena, «d'un cader lento, Piovean di fuoco dilatate falde, Come di neve in alpe senza vento».

Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de' dannati in quel luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D'India vide sovra lo suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».

Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che l'una è detta India superiore, e l'altra India inferiore; e voglion questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di Persia; e l'altra India essere contermine a questa superiore, ma piú occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia letta o udita, non m'è assai certo dove quello, che l'autor discrive qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da' raggi solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d'Alessandro, o se per alcuna arte de' nemici queste fiamme fossero saettate sopra l'esercito d'Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d'Inghilterra e altri), e riguardando all'effetto, possiam comprendere l'autor per questo ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello 'nferno avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo dannati sono.

Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d'Alessandro che alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s'accendeva come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch'e' provvide», Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo fece «accioché 'l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me' si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch'era solo», cioè prima che con l'altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l'eternale ardore», quale mostrato è nell'esemplo di sopra detto, «Onde la rena s'accendea com'ésca Sotto fucile». D'assai cose e diversamente si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno strumento d'acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo «focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l'accender di questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de' miseri peccatori che sú vi stavano.

«Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare, la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol qui l'autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella, «Iscotendo da sé l'arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di nuovo piovea.

«Io cominciai: - Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale, poi che l'autore ha discritta la pena de' peccatori che quivi son dannati, ed esso domanda d'alcun di quegli dannati chi el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io cominciai:
Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri, Ch'all'entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo l'autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole vinto ogni dimonio che incontro gli s'era fatto, se non quegli che in su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere la ragione ogni cosa vincere, se non l'ostinazione, la quale sola la divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è quel grande, che non par che curi Lo 'ncendio», di queste fiamme, negli atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del tormento, ma dispetto dell'esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle fiamme, che continuamente caggiano, «non par che 'l maturi»? - cioè l'aumili.

«E quel medesmo, che si fu accorto Ch'io domandava il mio duca di lui, Gridò: - Qual io fu' vivo, tal son morto». Possonsi per le predette parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi e l'animo dell'arrogante; e primieramente in quanto dice che giace «dispettoso e torto», segno di stizzoso e d'orgoglioso animo, e poi in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo mostrare sé non aver paura d'alcuno, per essere uditi parlan gridando; e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s'è similmente orgoglioso, superbo e bestiale.

E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè Iddio, secondo l'opinione erronea de' gentili, «stanchi» cioè infino all'ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè da' quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l'ultimo dí», della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu fulminato: «O s'egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta», cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri, e cosí que' medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed, oltre a quegli, «Chiamando: - O buon Vulcano, aiuta, aiuta!», - a' fabbri miei a far delle fólgori; «Siccom'el fece alla pugna di Flegra», nella quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe aver vendetta allegra», - del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.

[Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto, Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di real verga egli portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con questa dicono che esso fulminava chiunque l'offendeva; e, oltre a ciò, perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti, gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi, uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de' quali Virgilio, nell'ottavo dell'Eneida, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell'isola di Vulcano, e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie d'uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de' Titani (li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove, e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l'uno sopra l'altro, e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a' quali Giove combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol dire: «O s'egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]

Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l'opinione di colui che dice, percioché la bestialitá de' blasfèmi è tanta, che essi estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza d'uno imperadore e la bassezza d'un povero uomo, non pare lo 'mperadore dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere, secondo che Stazio scrive nel suo Thebaidos, che poi che Edippo, re di Tebe, s'ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia, che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l'uno regnasse, l'altro andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e Pollinice se n'andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto e presa una sua figliuola per moglie, raddomandandò al fratello il regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v'erano, avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran rimasi, de' quali era l'uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle mura di Tebe, quantunque d'in su le mura piovessero sopra lui infinite e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo, tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte del muro, con l'ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a' cittadini, levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl'iddii che venissero a combatter con lui, dicendo: - O iddii, non è alcuna delle vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m'è noioso chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien'tu, o Giove, piú tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d'occorrere alle mie forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le tue folgori contra di me! tu se' pur forte a spaventare le paurose fanciulle co' tuoni! - Le quali parole, e forse molte altre, mossero gl'iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori, una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici: e in questa guisa cessò ad un'ora la vita e la superbia sua.

Premesse adunque le predette cose, soggiugne l'autore quello che da Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza, Tanto ch'io non l'avea sí forte udito,» parlare infino a questo punto: - «O Campaneo, in ciò che non s'ammorza», cioè s'attuta per martirio che tu abbi, «La tua superbia, se' tu piú punito;» e soggiugne la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t'affligge, tu ti rodi di te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito». -

«Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia», cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo: - Quel fu l'un de' sette regi Ch'assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra è mostrato, «ed ebbe, e par ch'egli abbia Dio in dispregio, e poco par che'l pregi; Ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l'autore, trasportando, auctoritate poetica, in dimostrazion d'ornamenti, quello che vuol che s'intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all'anima sua.

«Or mi vien'dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella quale l'autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e dice: «Or mi vien'dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa' li tenghi stretti», - cioè accostati.

[Lez. LIV]

«Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso, perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel prossimo.

E appresso questo, per una comparazion discrive la grandezza e 'l corso di quello, dicendo:

«Quale del bulicame», cioè di quello lago bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici». Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello», che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l'acqua, «Fatte eran pietra, e i margini d'allato», come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l'Elsa, e presso di Napoli Sarno; «Per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici», dove le pendici erano cosí divenute di pietra.

«Tra tutto l'altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale Virgilio gli discrive l'origine de' fiumi infernali, dicendo: -«Tra tutto l'altro ch'io t'ho dimostrato, Posciaché noi entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo, entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima porta dello 'nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.), «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta», - cioè spegne.

«Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non fu», ecc.), «Per ch'io 'l pregai che mi largisse», cioè donasse. «il pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di cui largito m'aveva 'l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.

Per lo qual priego dell'autore, Virgilio incomincia a discrivergli l'origine de' detti fiumi, cosí:

- «In mezzo 'l mar siede un paese guasto, - Diss'egli allora, - che s'appella Creta».

Creti è una isola dell'Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra isola, intorniata dall'acque del mare: e chiamala «paese guasto», e cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché d'essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres». Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati molti antichi paesani e gran parte d'essa, il cui terreno è ottimo e fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della contrada.

E séguita: «sotto 'l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in questa parte l'autore l'opinion volgare delle genti, la qual tiene che Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d'Olimpo, il quale è un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non è; e però dice Giovenale,

Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam

in terris, ecc.

«Una montagna v'è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D'acqua e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella». E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge che Paris die' la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta», cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla, volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle; «fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea», questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo il

fanciullo, vi si facesse romore da coloro alli quali raccomandato l'avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non fosse udito né conosciuto.

[E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che, avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era; il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch'egli avesse ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli, uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co' bastoni battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore, accioché il pianto non fosse sentito.]

E poi segue l'autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran veglio», cioè la statua d'un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte le spalle inver'Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d'Egitto posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio», cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro argento son le braccia e 'l petto», di questa statua, «Poi è di rame fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d'altro metallo, «Salvo che 'l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come sono i mattoni; «E sta su quel, piú che 'n su l'altro», cioè in sul sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il calore del quale si crede essere cagion di piú forza a' membri destri.

Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa statua, cioè quella ch'è d'ariento e quella di rame e quella di ferro e quella che è di terra cotta, «fuor che l'oro», cioè eccettuata quella che è d'oro, «è rotta D'una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola, «Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua, «accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale è interposta tra questa statua e 'l primo cerchio dello 'nferno. «Lor corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia», cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li quali di cerchio in cerchio, come veder s'è potuto infino a qui, si discende al profondo dello 'nferno: «Fanno», queste lagrime di sé, cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello 'nferno, del quale è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell'ottavo canto, la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d'Acheronte; e «Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello 'nferno, e dirivasi dall'acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume all'entrata di questo settimo cerchio, il qual l'autor discrive esser vermiglio e bollire in esso la prima spezie de' violenti. «Poi sen va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una «doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l'acque prestamente d'una parte ad un'altra; e però è detta «doccia» da questo verbo «duco ducis», il quale sta per «menare». Poi mostra questo rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello 'nferno; «e qual sia quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno», percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo noi giuso; «però qui non si conta», - come fatto sia. Quasí come se gli altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in luogo della descrizione l'avergli l'autor veduti, dove Cocíto ancora veduto non ha.

«Ed io a lui: - Se 'l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama «rigagno» da «rigo rigas», che sta per «rigare», e questo rio rigava la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?» - cioè in questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell'autore io mi maraviglio, conciosiacosaché egli l'abbia in piú parti veduto di sopra, sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione, conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me: - Tu sai che 'l luogo è tondo», cioè il luogo dello 'nferno, come piú volte di sopra è dimostrato; «E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú calando al fondo, Non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto», di questa ritonditá dello 'nferno: «per che se cosa n'apparisse nuova», nel rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo, «Non dee addur maraviglia al tuo volto», - come che per avventura potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di quest'acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del cerchio, della quale ella scende.

«Ed io ancor: - Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l'origine de' quattro fiumi infernali, fa l'autore una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor: - Maestro, ove si truova Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono similmente fiumi infernali, «ché dell'un taci», cioè di Letè, senza dirne alcuna cosa, «E l'altro», cioè Flegetonte, «di' che si fa d'esta piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali sono nella statua predetta.

«In tutte tue quistion certo mi piaci, - Rispose; - ma 'l bollor dell'acqua rossa», il qual vedesti all'entrar di questo cerchio settimo, «Dovea ben solver l'una che tu faci», cioè dove sia Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente», l'aver veduta quell'acqua rossa bollire come vedesti, e similmente esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte. «Letè», l'altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di questa fossa», dello 'nferno: percioché in questo si scosta l'autore dall'opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere in inferno, dove l'autore il pone essere nella sommitá del monte di purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il pongono in inferno; percioché essi il pongono l'ultimo fiume dello 'nferno, e dicono che, quando l'anime hanno lungamente sofferte pene, e son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire, esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell'acqua di quello, dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne' Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli abitare l'anime de' beati: e cosí l'autore il pone nella sommitá del purgatorio, accioché l'anime purgate e degne di salire a Dio, prima béano di quell'acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice: - Tu il vedrai, «Lá dove vanno l'anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta rimossa», - per la penitenza.

«Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto, ne mostra l'autore come Virgilio l'ammonisce che dietro a lui vada. Dice adunque: «Poi disse: - Omai è tempo da scostarsi», scendendo o procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa', che diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son arsi», cioè scaldati dall'arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro ogni vapor si spegne», - di questi che piovono, e perciò vi si puote senza cuocere andare.

II

SENSO ALLEGORICO

[Lez. LV]

«Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l'autore ne' precedenti due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due spezie de' violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso, seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti divisi, sí come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all'arte, le quali son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco, che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo 'ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta rena, similmente sopra sé ricevendo l'arsura; e coloro, li quali contro all'arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati dalle fiamme che piovono. E, percioché, sí come chiaro si vede, hanno la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di ciascuno dicessi l'allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però, per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí com'io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre le maniere de' puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si finisce, come conceduto mi fia, m'ingegnerò d'aprire qual fosse intorno a ciò la 'ntenzion dell'autore.

Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l'autore intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno a ciò è prima da vedere quello che l'autore abbia voluto sentire, avendo questa statua piú tosto figurata nell'isola di Creti che in altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida; e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la terracotta, de' quali esso la forma; e similmente quello che voglia che noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli, fuor che nell'oro, sono, e le lagrime che d'esse escono; e ultimamente quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.

Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell'isola di Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme. Intendendo adunque l'autore di volere, poeticamente fingendo, fare una dimostrazione, la quale cosí all'indiano come allo ispagnuolo, e all'etiopo come all'iperboreo appartiene, e dalla quale né paese, né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune, se non l'isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.

Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo scilocco, infino all'Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi dissero quella essere separata dall'Europa dal fiume chiamato Tanai, il quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con l'onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d'Aveo, esce nel mare Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all'isola di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí la dividono dall'Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale per l'Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l'isola di Meroe, e venendosene in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla parte del levante infino all'isola di Creti. Poi confinano Affrica dal detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene in quello che ad Affrica appartiene infino all'isola di Creti, e quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver'ponente. Europa confinano dalla parte di ver'levante dallo estremo del mare Egeo, e dallo stretto d'Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall'Oceano settentrionale, il quale, dichinando verso l'occidente, bagna Norvea, l'Inghilterra e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all'isola di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l'isola di Creti appare essere in su 'l confine di queste tre parti del mondo. E, dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta l'isola di Creti, come dimostrato è.

il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò, quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno piú manifesto senso, dico potersi per l'isola di Creti, posta in mezzo il mare, intendersi l'universal corpo di tutta la terra, la quale, come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti; e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l'autore intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai pienamente confermare il nome dell'isola, il quale esso appella Creta, conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí il nome si conforma, come davanti dissi, all'intenzion dell'autore, in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto al corpo, siamo che terra.

Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all'altezza degl'ingegni che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l'autore disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d'un gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l'autore vuol sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla natura delle cose o dall'artificio degli uomini, e chiamasi questo monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell'altre creature mortali, l'umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla quale l'autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro all'esistenza, lungamente perseverata dell'umana generazione, si sono in vari tempi concreate le cose, le quali l'autor sente per la statua da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora que' medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d'anni, cominciarono, perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora del particulare, discrive l'effetto formale della sua intenzione, il qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non ha nella sua l'autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor; percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi il suo regno e alcune sue successioni, in questa l'autore intende alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal principio del mondo infino al presente tempo.

Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere d'un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi dimostrare, per l'uno la grandezza del tempo passato dalla creazion del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento anni, e per l'altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo; percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte, la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere de' romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso furon fatte, sí come quelle che, tra l'altre cose periture fatte in qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.

Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale esso fosse. E noi intendiamo per lo Genesi che nella prima creazione del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio, fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu tanto, quanto egli stette infra' termini comandatigli da Dio; vuole l'autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d'oro, cioè carissimo e bello e puro, sí come l'oro è piú prezioso che alcuno metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d'oro, il primo stato dell'umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente carissimo.

Dice appresso che puro argento sono le braccia e 'l petto di questa statua, volendo per questo disegnare che, quanto l'ariento è piú lucido metallo che l'oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de' primi parenti, l'umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma, dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per l'oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l'oro.

Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla 'nforcatura, volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto che gli uomini, dalla ammirazion de' corpi superiori, e ancora dagli ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l'arti liberali e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro metallo che alcuno de' predetti, divennero gli uomini fra se medesimi piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma, percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell'altre gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de' sopradetti.

Appresso dice che questa statua dalla 'nforcatura in giú è tutta di ferro eletto, volendo per questo s'intenda esser, successivamente alle predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente tutta l'umana generazione si diede all'arme e alle guerre, con la forza di quelle occupando violentamente l'uno la possessione dell'altro. E di questi, secondo che noi abbiam per l'antiche istorie, il primo fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci discesero l'arme a' medi e a' persi, e da questi a' greci e a' macedoni e a' cartaginesi e a' romani, li quali con quelle l'universale imperio del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza appiccata a' re e a' popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia. E, percioché gl'istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura l'autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò, sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.

Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta, volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto piú quanto i metalli predetti sono d'alcun prezzo, e la terracotta è vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne' metalli detti alcuna fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice il piè esser di questa vil materia; il quale è l'ultimo membro del corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e, come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí sopra questa vil materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l'altro, sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro, a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa, sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne' membri sinistri, come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare, percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v'era fermato: e cosí ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia, non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo, appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell'Apocalissi si legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo percioché è stato comune ad ogni nazione, l'ha voluto in questa statua l'autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è dimostrato.

Poi, deducendosi l'autore alla intenzion sua finale, dice che ogni parte di questa statua, fuori che quella la quale è d'oro, è rotta d'una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l'abbondanza delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur ne' presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell'oro di questa statua è disegnata, cioè dopo l'esser cacciati i primi parenti di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e viziate: e da queste eccettua l'autore la parte dell'oro, mostrando in quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette rotture, cioè de' dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo discendere nella misera valle dello 'nferno, con coloro insieme li quali commesse l'hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua, fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende l'universale stato de' dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene a' dannati.

Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato «senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione, avanti ad ogni altra cosa perdere l'allegrezza dell'eterna beatitudine, la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti di Dio. Appresso intende l'autore per Istige, il quale è interpetrato «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá perduta l'allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia perpetua; percioché, come l'uom si vede perdere, dove estimava o dove gli bisognava di guadagnare, incontanente s'attrista. Ma, percioché la tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»; volendo per questo ardore darne l'autore ad intendere che, poi che il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell'ardore della gravitá de' supplíci, li quali con tanta angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato «pianto», percioché, trafiggendo l'ardore delle pene eternali alcuno, esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove, cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive, per li quali l'abbondanza delle miserie delle pene infernali e de' ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e continuamente s'aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la presente vita persevererá.

CANTO DECIMOTERZO

CANTO DECIMOTERZO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. XLIX]

«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non essendo ancora Nesso dall'altra parte del fiume, entrano per un bosco, della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la quale ebbe l'autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de' primi equali; nella quarta dimostra per le parole d'uno spirito che spezie di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla. La seconda comincia quivi: «E 'l buon maestro»; la terza quivi: «Noi eravamo»; la quarta quivi: «Quando 'l maestro».

Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all'altra riva del fiume, «Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, per antiphrasim, quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in latino sono chiamati «sentes», conciosiacosaché in essi sentieri alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri» dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché tra' luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi e spine.]

«Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco; e questa è l'altra cosa per la quale vuole l'autore si comprenda questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v'eran, ma stecchi con tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della salvatica qualitá del bosco.

Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza d'esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due dimostrazioni: e l'una mostra da certe selve molto solinghe e piene di fiere salvatiche, conosciute dagl'italiani; e l'altra mostra dalla qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi,

«Quelle fiere selvagge», le quali stanno nelle selve poste tra' due confini, li quali appresso disegna; «che 'n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè lavorati.

Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio, in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e vegnendo ne' luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due ha d'oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un braccio d'Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure tra' due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli, nelle quali dice l'autore non essere «sí aspri sterpi», percioché sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose ch'e' pruni: e i due termini, tra' quali dice esser queste selve cosí orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto, il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l'altro è Corneto, il quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del padre di Dardano, re di Troia.

Appresso, mostrata l'una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra l'altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie lor nido fanno»; e, accioché d'altra spezie d'uccelli non intendessimo, ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno». E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi umani, Piè con artigli e pennuto 'l gran ventre; Fanno lamenti in su gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché son d'altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.

Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate Strofade; e in quelle co' suoi disceso, e trovatovi bestiame assai, e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti davanti ad Enea e a' suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro, chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse: - Voi, troiani, per l'averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche guerra, e volete della loro patria cacciare l'arpie: ma io, secondo che io ho da Apollo, v'annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell'ingiuria, la quale n'avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella voi mangerete le mense vostre. - Col quale «tristo annunzio di futuro danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d'Arcadia, seguite da Zeto e d'Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento, fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l'isole chiamate Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie si dirá alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del presente canto si dimostrerá.

E cosí avendo per molte cose l'autor dimostrata la qualitá di questo bosco, séguita: «E 'l buon maestro»; dove comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l'autore scrive un'ammirazione la quale ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella seconda si maraviglia l'autore d'udir trar guai e non vede da cui; nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva; nella quarta l'autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E 'l tronco suo»; la sesta quivi: «S'egli avesse»; la settima quivi: «E 'l tronco: - Sí»; la ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».

Dice adunque: «E 'l buon maestro», disse: - «Avanti che piú entre», infra questo bosco, «Sappi che se' nel secondo girone», - cioè nella seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda spezie de' violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire, - e sarai, mentre Che tu verrai nell'orribil sabbione», sopra 'l quale si punisce la terza spezie de' violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e dolersi.

Per le quali parole l'autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia d'ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda principale di questo canto, nella quale l'autore si maraviglia d'udire trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d'ogni parte», di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che 'l facesse, Per ch'io tutto smarrito m'arrestai». E questo smarrimento avvenne, percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono di que' bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli guai venivano, dicendo: «Io credo ch'ei credette», Virgilio, «ch'io credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que' bronchi. Da gente che per noi si nascondesse».

«Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo credere che esso credesse ecc.): - «Se tu tronchi Qualche fraschetta d'una d'este piante, Li pensier c'hai», cioè che quegli che traggono i guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè invalido e impotente ad alcuna operazione.

«Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo canto, nella quale l'autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue: «Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po' avante, E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era, come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.

«E 'l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e però dice: «E 'l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò: - Perché mi schiante?». - E queste parole paiono assai dimostrare la parte schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata, comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno, per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò a gridar: - Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?». Quasi voglia qui l'autore mostrare avere i dannati compassione l'uno delle pene dell'altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non sapeva che l'autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo: «Uomini fummo», nell'altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa; «Ben dovrebb'esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso loro non s'usasse alcuna pietá.

Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d'un stizzo verde, ch'arso sia Dall'un de' capi, che dall'altro», capo, «geme», acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d'un sufolare: «E cigola per vento che va via».

Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con le sue radici quella parte d'ogni elemento che gli bisogna; e perciò quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il fuoco quello che di lui nel legno, e similmente quello, che v'è terreo, converte in terra. Ma dell'umido e dell'aere non avvien cosí, percioché, essendo l'umido, sí come da suo contrario, cacciato dal fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire fuori alcun romore: l'aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto, gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l'umido, volendo tutto insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir vogliamo; e, convertito dall'impeto in vento, va via.

Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond'io lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e stetti come l'uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e a sodisfare all'offeso e a rassicurar l'autore, dicendo:

«S'egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è. Dice adunque: - «S'egli avesse potuto creder prima», che egli avesse schiantato questo ramuscello - «Rispose il duca mio, - anima lesa», cioè offesa, «Ciò c'ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Il duca mio rispose. - O anima lesa, se egli avesse prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva, «mi fece Indurlo ad ovra, ch'a me stesso pesa», cioè a schiantare quel ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè in luogo, «D'alcuna ammenda», all'offesa la qual fatta t'ha, «tua fama rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel mondo sú, dove tornar gli lece», - cioè è lecito, sí come ad uomo che ancora vive e non è dannato.

x


«E 'l tronco: - Sí». Qui comincia la settima parte della seconda principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e però comincia: «E 'l tronco: - Sí col dolce dir», cioè con la soavitá delle tue parole, «m'adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto m'imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch'io non posso tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch'io un poco a ragionar m'inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente potrá rinfrescare la fama mia.

«Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s'intenda questa sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d'alto sentimento e d'ingegno; e fu ne' suoi tempi reputato maraviglioso dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto in cancelliere dell'imperador Federigo secondo, appo il quale con la sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello 'mperadore celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto assai poteva apparire costui tanto potere dello 'mperadore, che nel suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo 'mperadore questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo stato dello 'mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello 'mperadore rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace dimostrazione fatta dagl'invidi vedere allo 'mperadore, che esso vi prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell'animo dello 'mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o altra cagione che 'l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor s'accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo: - Voi siete per me' la chiesa di San Paolo in riva d'Arno; - il che poi che udito ebbe, disse al fanciullo: - Dirizzami il viso verso il muro della chiesa. - Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso impeto, messosi il capo innanzi a guisa d'un montone, con quel corso che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale disperazione l'autore, sí come contro a se medesimo violento, il dimostra in questo cerchio esser dannato.

Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo 'mperadore di qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e serrano i serrami, cosí io apriva il volere e 'l non volere dell'animo di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni. E, questo detto, vuol dimostrare che meritamente avea ogni altro tolto dal segreto dello 'mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso ufizio», cioè d'essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir lui essere l'imperadore, «Tanta, ch'io ne perdei il sonno e' polsi». Perdesi il sonno per l'assidue meditazioni, le quali costui vuol mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle quali si comprendono le qualitá de' movimenti del cuore, e in queste piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d'altra cosa, ne fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione, la quale de' lor movimenti fanno ne' polsi.

E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua morte, dicendo: «La meretrice», cioè la 'nvidia, la quale perciò chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a' quali elle si sottomettono, cosí la 'nvidia aver per merito il disfacimento di colui al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non s'è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al luogo dove si puniscono gl'invidiosi non s'è pervenuto, poiché qui cosí efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]

[Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in questa forma:

... Domus est imis in vallibus huius

abdita, sole carens, non ulli pervia vento:

tristis et ignavi plenissima frigoris et quae

igne vacet semper, caligine semper abundet.

E poco appresso séguita:

... Videt intus edentem

vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,

invidiam, visamque oculis avertit: at illa

surgit humo pigre, semesarumque relinquit

corpora serpentum, passuque incedit inerti.

E poco appresso:

Pallor in ore sedens, macies in corpore toto,

nusquam recta acies, livent rubigine dentes,

pectora felle virent, lingua est suffusa veneno:

risus abest, nisi quem visi fecere dolores;

nec fruitur somno, vigilantibus excita curis:

sed videt ingratos, intabescitque videndo,

successus hominum; carpitque et carpitur una:

suppliciumque suum est, ecc.]

[Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il giudicio dello 'nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo 'nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò, nell'abitazione dell'invidia, cioè nel petto dello invidioso, non luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v'entra mai alcuna cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d'alcuno, ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, sí come quello nel quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de' suoi pensieri e de' suoi divisi appetiti, de' quali, miseramente aspettando, esso pasce la dolorosa anima.]

[Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto colui che compreso n'è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta sia la forza della passione, la quale dentro l'affligge, in tanto che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la magrezza.]

[E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne dimostra il giudicio dello 'nvidioso esser perverso, e contro ad ogni ragione e dirittura; e l'avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il rado uso che allo 'nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e l'avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell'ira, ci si dichiara mai nel petto dello 'nvidioso seccarsi o venir meno, ma sempre vivere e starvi verde l'iracundia, la qual sempre, sí come offeso dall'altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello 'nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto questo, non ride mai lo 'nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse, con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i lieti avvenimenti degli uomini.]

E, percioché nelle corti de' gran prencipi han sempre di quegli che sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione ricevuta per l'altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l'autore questa meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte, dall'ospizio dello 'mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle corti.

Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come qui nel testo si dimostra, dove dice l'autore: «La meretrice», cioè la 'nvidia, «che mai dall'ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti», cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d'ogni uomo, cioè vizio deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè accese, «gli animi tutti», de' cortigiani; «E gl'infiammati infiammâr sí Augusto», cioè lo 'mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu privato della grazia dello 'mperadore e dell'uficio e del vedere, e cacciato via. «L'animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come di sopra mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e, «Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno d'avere ricevuta la repulsa dello 'mperadore; «Ingiusto fece me», tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale «nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s'era, e in quel luogo convertito in pianta, «d'esto legno», nel quale voi mi vedete trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che fu d'onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del colpo, che 'nvidia mi diede», - quello apponendomi che io mai fatto non avea.

«Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché 'l si tace, - Disse 'l maestro mio, - non perder l'ora, Ma parla, e chiedi a lui s'altro ti piace», - di sapere.

«Ond'io a lui: - Domandal tu ancora Di quel che credi ch'a me satisfaccia, Ch'io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá m'accora», - cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l'autore questa pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello 'nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie, delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette, come di sopra appare.

«Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò», a parlar Virgilio e dire: - «Se l'uom ti faccia Liberamente ciò che 'l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace, ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia», oltre alle cose che dette n'hai, «Di dirne come l'anima si lega In questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi, S'alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si spiega», - cioè si sviluppa o si scioglie.

«Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando parergli amaro e noioso, non il dire come l'anime diventin bronchi, ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto; «e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè: - «Brievemente sará risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l'anima feroce»: è l'anima di quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l'è dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo ond'ella stessa s'è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo; «Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l'autore essere esaminatore delle colpe e giudicatore de' luoghi a quelle convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio dello 'nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l'è parte scelta», una piú che un'altra, nella quale ella debba il supplicio determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra», la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne' lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».

«L'arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli l'arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che fanno l'arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser simile a quello che nella presente vita si dá a' disleali e pessimi uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè rompendo e schiantando l'arpie le foglie di queste piante, fanno dolore all'anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a' corpi. E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia dell'albero loro, e però d'alcuna parte spirar non possono; a tôr via il dubbio da qual parte esse mandin fuori l'angoscia, la qual per lo dolor sentono (e che l'autore aveva udita, senza vedere chi se la facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l'uscita alle dolorose voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.

E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè «s'alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l'altre» anime verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi «verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono «spoglie» dell'anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo; «Ma non però, ch'alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie; cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch'uom si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui», cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa, «Selva saran li nostri corpi», de' quali io parlo, «appesi, Ciascuno al prun dell'ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua dimostrazione.

[Lez. L]

[Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo spirito dice, è dirittamente contrario alla veritá cattolica, per la qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi, e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l'ultima sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice che l'anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne' corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla nostra fede.]

[È qui da credere che l'autore non ha qui fatte narrar queste parole a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede, percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel Paradiso manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui, sí come quello cotale, ch'è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d'una opinione, la quale esso non teneva esser vera, compiacere a' romani, li quali al suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro dell'Eneida induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere, sua figliuola e madre d'Enea, sí come sollecita degli avvenimenti d'Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia, dove doveva essere il regno di lui e de' suoi successori, trasportato in Cartagine), tra l'altre cose le risponde cosí:

His ego nec metas rerum, nec tempora pono:

imperium sine fine dedi, ecc.;

e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello ch'essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello 'mperio de' romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della Georgica, dove dice:

Illum non populi fasces, non purpura regum

Flexit, ecc.

Non res Romanae, perituraque regna

(supple) Romana, ecc. Il quale imitando l'autore, come in assai altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa opinione ritrar coloro, che l'udiranno, dal detestabile peccato della disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]

[È il vero, che che a' poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua persona, né in altrui, raccontare o far raccontare assertive alcuna erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par qui assai essere scusato l'autore per aver fatto ad uno spirito dannato raccontar questo errore.]

[Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l'autore in questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di pena, nelle quali, o nell'una delle quali, la giustizia di Dio condanna coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l'una delle maniere di queste pene «pena illativa», e l'altra «pena privativa». La pena illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come è tagliargli alcun membro, o farlo d'alcuna spezie di morte morire; la pena privativa è quella la quale s'impone nelle cose esteriori di colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori, negli stati, nella cittadinanza, privandolo d'alcuna di queste, o di parte d'alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle fiere, questa non è pena all'ucciso, ma è vergogna a chi di lui rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell'ucciso, questa infamia perisce sotto l'occupazione di maggiore infamia, peroché molto maggiore infamia è l'essersi ucciso che non è l'essere poi gittato via a guisa d'un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva d'ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se medesimo non s'è curato, non si curi d'alcuna altra sua cosa, e quella non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa, sí come ella è nell'altre anime de' dannati, e, oltre a ciò, vi sia la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il corpo loro, come l'altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il riaranno come l'altre. E se forse si domandasse: in che sentono però queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l'altre non l'hanno? Si può cosí dire: che, come l'anime de' beati disiderano i corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro insieme partefici della gloria; cosí l'anime dannate ardentemente disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d'esser privati, sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però avvedutamente l'autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla veritá, si può dir l'autore avere come cristian poeta scritto].

«Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente canto, nella quale, poi che l'autore n'ha dimostrato che pena abbian coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui colpe non furono con quelle de' primieri equali, percioché non in sé ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora al tronco attesi, Credendo ch'altro ne volesse dire», avendo egli finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d'un romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta». Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia cacciata, se n'avvede, per ciò «Ch'ode le bestie», le cacciate e quelle che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva, «stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de' cani e dei cacciatori.

«Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che rilegate erano in que' bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati. E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli verdi d'álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi» (supple), gridava: - «Ora accorri, accorri, Morte!»; - nelle quali parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura; «E l'altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava», dicendo: - «Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del Toppo». -

Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad una brigata d'altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch'egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de' fiorentini sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v'andarono. E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso d'esser ricchissimo, si mise in fra' nemici, fra' quali, come esso per avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare, gridava quell'altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle lance, dalle quali fuggito non s'era, potendo; volendo in questo ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto. E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo, il discrive l'autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d'un cespuglio», nato d'una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo, forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne, le quali il seguivano.

«Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un groppo di sé e d'un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del dilacerato.

«Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s'era aggroppato, «che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de' rami, che avvenne nell'impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli la pena. E poi dimostra l'autore quello che questo spirito piagnendo diceva, cioè: - «O Giacomo - dicea - da Sant'Andrea»; cosí mostra che fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.

Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò e gittò via; e tra l'altre sue bestiali operazioni si racconta che, disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria, quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l'autore, sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo cerchio. E segue poi l'autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che dicea il cespuglio: «Che t'è giovato di me fare schermo?», quasi dica: niente, percioché tu non se' scampato da' denti delle cagne che ti seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io della tua vita rea?» - cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?

«Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo», cioè sopra questo cespuglio, «Disse: - Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con sangue doloroso sermo?». -

«E quegli a noi», disse: - «O anime, che giunte», cioè pervenute, «Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il quale a questo mio bronco s'era aggroppato, e «C'ha le mie fronde sí da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione, dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».

[Lez. LI]

A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta, era signor dell'ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddío Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata la veritá evangelica, e lasciato da' cittadini, divenuti cristiani, l'error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio. E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore, non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un'alta torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d'alcuni vaticíni de' loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare; poi, riedificata al tempo dello 'mperio di Carlo magno, fu ripescata e ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita, dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d'ogni uomo, non giá per molte gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi né si ritrovò né si ricercò.]

Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore da' cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in san Giovanni.

«Ond'e' per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni, «Sempre con l'arte sua la fará trista». In queste parole e nelle seguenti tocca l'autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con battaglie, le quali aspettano all'«arte sua», cioè al suo esercizio, abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura. [La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti pericoli n'abbia la divina misericordia tratti, ne' quali noi saremmo venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da' nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha a dire di questa iniqua opinione, dicendo:] «E se non fosse che 'n sul passo d'Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l'acque e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi, oltre al grosso de' membri, né dell'uomo né del cavallo alcuna cosa si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola cosa, per rispetto alla grandezza d'uno uomo a cavallo, e di rozzo e grosso maestro; «Que' cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra 'l cener che d'Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè invano.

Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di tanta potenza che, per l'esserle quella particella d'onor fatto, cioè d'esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d'alcuna, tutto il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare un'ora.]

[Ma, percioché dice: «Sovra 'l cener che d'Attila rimase», è da sapere che, essendo Attila, re de' goti, passato in Italia, in esterminio e ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra l'altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che, avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere, volse l'ingegno agl'inganni, e con molte e false promessioni prese gli animi de' cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini della terra, e quegli facendo passare d'una camera in un'altra, ad uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una gora, la quale dal fiume d'Arno dirivata, passava sotto il Capitolio. Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per avventura sarebbe sentita, se l'acqua della gora, al rimettere in Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí, quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de' fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze, chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione, comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l'anno di Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata, cinquecentoventi anni.]

[Poi piú volte tentarono i discendenti de' cittadini fuggiti di doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono impediti da' fiesolani e da certi nobili uomini d'attorno, li quali estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire, sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse in lor nome, e allo 'mperadore e al popolo di Roma, che con la lor forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro, e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello 'mperadore e de' romani, e ancora de' discendenti degli antichi cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra l'arsioni rimase d'Attila, reedificata Firenze, e abitata l'anno di Cristo ottocentodue, all'entrata del mese d'aprile.]

Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse, dice di che morte s'uccidesse, dicendo: «Io fe' giubbetto», cioè forche, «a me delle mie case», - e cosí mostra s'impicasse per la gola nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto», percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della giustizia sono impiccati. Né è costui dall'autor nominato, credo per l'una delle due cagioni: o per riguardo de' parenti che di questo cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte; ovvero, percioché in que' tempi, quasí come una maladizione mandata da Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa apporlo a qual piú gli piace di que' molti.


II

SENSO ALLEGORICO

[Lez. LII]

«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel superior canto mostrato all'autore qual sia la colpa di coloro, li quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e che delli loro rami e frondi l'arpie schiantando si pascono: di che intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi rivestire al dí del giudicio, come tutte l'altre faranno.

adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l'autore a fingere l'anime di questi dannati convertirsi in piante, l'anime nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia «vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale l'esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam noi con l'erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile. La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l'anima nostra, avanti che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le bestie e con gli uccelli e co' pesci e con qualunque altro animale ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale da Dio n'è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione, di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti; e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.

Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá, non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché l'animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza di tempo distenderlo; come che d'alcuni si legge essersi giá uccisi, non, prima facie, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come ne scrive Valerio Massimo, De institutis antiquis, di quella donna antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non doverla vedere. Alcuni altri ex proposito si sono uccisi per tedio della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da' suoi servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel quale Platone scrive Della eternitá dell'anima, sfasciatosi e con le mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s'uccisono, sí come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel Sogno di Scipione, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».

Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali». Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile, quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l'autore in forma di vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono, cioè in forma d'albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.

Che l'arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo «arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi e a far sentire il suo rammarichio. E non solamente gli attristano di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi: intendendo per questo l'abominevole atto della uccisione aver del tutto ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante, vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare, come la quantitá de' tormentatori s'accresce nidificando e figliando. [Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.] E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi uccisono.

Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron le lor sustanzie, la qual dice che è l'essere i miseri da nere cagne seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sian continuamente afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere, cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata; correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla parte seconda.

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