sábado, 24 de octubre de 2020

CANTO NONO, I, II, senso letterale, allegorico

CANTO NONO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. XXXV]

«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l'autore in questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che l'usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto dice l'autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti: nella prima delle quali, essendo l'autore per certe parole di Virgilio entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone, e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse; nella quarta discrive la venuta d'un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza quivi: - «Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta quivi: «E noi movemmo i piedi».

Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio tornare in volta». Estimava l'autore che i demòni, per le parole di Virgilio, dovessono liberamente dar loro l'entrata, sí come gli aveano i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole; ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto, quasí come vinto tornare in volta, invilí l'autore, temendo non gli convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole l'autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il colore acceso, il quale Virgilio oltre all'usato avea nel viso, per la turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse cagione all'autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno turbato che non era.

E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio, ancora in conforto dell'autore, si sforza di dimostrare d'aspettare che venga chi'l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice: «Attento si fermò, com'uom ch'ascolta»; nelle quali parole si può comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre a questo, ad ascoltare, per «Che l'occhio nol potea menare a lungo», discernendo; e discrive la cagione: «Per l'aer nero», cioè tenebroso, per lo non esservi alcuna luce, percioché l'aere di sua natura non è d'alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.

E cosí attendendo, cominciò a dire: - «Pure a noi converrá vincer la punga» - d'entrar nella 
cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad ascoltare: - «se... non... tal ne s'offerse». E qui lascia Virgilio le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d'esprimere la sentenza dell'orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio loro dimostrano. E perciò all'orazione mozza di Virgilio, soggiugne esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch'altri qui giunga» - il quale abbatta l'arroganza de' dimòni che la porta serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.

«Io vidi ben, sí com'el ricoperse Lo 'ncominciar», cioè le parole cominciate (quando disse: - «Se... non... tal ne s'offerse» -), «con l'altro che poi venne» (cioè col dire: - «Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!» -), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l'autore perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch'io traeva la parola tronca» (cioè «se... non... tal ne s'offerse), «Forse»; dice «forse» perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s'avesse inteso per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch'e' non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l'autore Virgilio aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer la punga, Se... non... tal ne s'offerse», che, dove essi vincer la punga non avesser potuto, che il prencipe dello 'nferno dovesse punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle parole, all'autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato l'orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non era la 'ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi non possiam «vincer la punga» dell'entrar dentro alla cittá, «tal ne s'offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará sí che, malgrado de' dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion di sopra detta non compie' l'orazione, sí come disideroso di quello che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch'altri qui giunga», entrò l'autore in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
«In questo fondo della trista conca», dello 'nferno, il quale nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma essenziale dello 'nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?» - Pon qui l'autore il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca» vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro, percioché noi diremmo d'uno che molto bevesse: colui «cionca».

«Questa quistion fec'io», a Virgilio, che detta è; «e quei: - Di rado Incontra», - cioè avviene, «mi rispose, - che di nui», li quali nel primo cerchio dimoriamo, «Faccia 'l cammino alcun pel quale io vado», cioè discenda quinci giú. «Ver è, ch'altra fiata quaggiú fui», dove noi siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava l'ombre a' corpi sui», per forza di suoi incantamenti.

Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo libro, dove dice:

Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,

effera damnarat nimiae pietatis Erictho,

inque novos ritus pollutam duxerat artem, ecc.;

dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d'uscire in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle incantazion de' demòni e in far tornar l'anime de' morti ne' corpi loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra 'l padre di lui e Cesare.

«Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l'anima di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale, partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch'ella mi fece», questa Eritón, per forza de' suoi incantamenti, «entrar dentro a quel muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.

Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de' congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono, a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti l'anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice, del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente si comprende per Eusebio in libro Temporum; e, che istoria questa si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in fuori che di sopra n'è detto. [Oltre a questo, non pare a' santi in alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno l'altre, per alcuna forza d'incantamento si possa trarre d'inferno e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa veritá s'opponesse molte essercene state giá rivocate per forza d'incantamenti, e tra l'altre quella di Samuel profeta, il quale quella pitonessa, a' prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di ciò che gl'intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono, compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro, diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati d'alcuni morti, e che in essi per forza d'incantamenti sieno rivocate l'anime. E di questa materia, cioè degl'incantamenti, si dirá alquanto piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le spezie de' vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano scioccamente e in loro perdizione.]

«Quell'è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e 'l piú oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel, che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de' cieli, e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal cielo. E mostra voglia qui l'autore intender del cielo empireo, il quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.

«Ben so il cammin; però ti fa' sicuro». Vuol qui l'autor mostrare, per questa istoria da Virgilio raccontata, l'abbia Virgilio voluto mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva caduto; e, oltre a questo, accioché l'aspettare ciò che esso Virgilio aspettava, non paia grave all'autore, e per quello accresca la sua paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:

«Questa palude», di Stige, «che 'l gran puzzo spira», cioè esala: e in questo dimostra la natura universale de' paduli, li quali tutti putono per l'acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto, nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d'intorno la cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d'intorno», onde si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere, quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello 'nferno, la quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l'acqua del padule menare intorno.

«U' non potemo entrare omai senz'ira», - di coloro li quali contrariare n'hanno voluta l'entrata.

«E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello che infino a qui ho detto, «ma non l'ho a mente», quello che egli dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l'abbia, la quale è: «Peroché l'occhio», cioè il senso visivo, «m'avea tutto tratto», cioè avea tratto l'animo mio, il quale veramente è il tutto dell'uomo; «Ver'l'alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite, «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata; «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».

«Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell'acqua, e però sono chiamati «idre» percioché l'acqua in greco è chiamata «ydros»; e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza dell'acqua rattempera l'impeto e il riscaldamento della serpe; nel quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le serpi hanno sotto il palato, e l'umiditá che di quello esce, venendo sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l'autore pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s'intenda qualunque velenosissimo serpente.

«Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «ceras» in greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il capo de' capelli loro.

«E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell'eterno pianto», cioè d'inferno, dove sempre si piagne e sempre si piagnerá; - «Guarda, - mi disse, - le feroci Erine», cioè le feroci tre furie.

E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone», la terza furia,«è nel mezzo» - delle due nominate di sopra; «e tacque a tanto», cioè poi che nominate me l'ebbe e fattelemi conoscere.

«Con l'unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto; Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch'io mi strinsi», temendo, «al poeta per sospetto».

E quello, che esse gridavano, era: - «Venga Medusa», quella femmina la quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí 'l farem di smalto», - cioè di pietra. È lo smalto, il quale oggi ne' pavimenti delle chiese piú che altrove s'usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule, o verso lui; - «Mal non vengiammo in Teseo l'assalto», il qual ne fe', quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l'avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l'autore, il quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.

Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del quale si dolgono non aver vengiato l'assalto, si discriverá pienamente dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d'Egeo, re d'Atene, giovane di maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo d'Issione, signore de' lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena, ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell'inferno, a dovere rapir questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina, secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato da Plutone, per amore d'Issione, suo padre, il quale era stato amico di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui venuta Cerbero s'ingegnava d'impedire; fu Cerbero da Ercule preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato, ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.

«Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale, poi che l'autore ha dimostrato il romor fatto dalle furie, e l'essere stata da loro chiamata Medusa, pone l'autore la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati, accioché non la vedesse. Dice adunque: - «Volgiti indietro», accioché tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse: - Tieni chiuso il viso, - e dicegli la cagion perché: «Ché se 'l Gorgon», cioè Medusa chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare nol dice), «e tu 'l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso», - nel mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti tornare né partirti di qui.

«Cosí disse 'l maestro», come detto è, «ed egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò, «alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí chiuso il viso all'autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si scrive che venne.

«O voi, ch'avete gl'intelletti sani». Apostrofa qui l'autore, e, lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che s'asconde Sotto 'l velame degli versi strani», la quale per certo è grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il velame di questi versi, non vogliono che l'autore abbia alcuna altra cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale; li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l'autore avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E chiama l'autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto disusati a cosí fatto stile.

[Lez. XXXVI]

«E giá venía». Qui rientra l'autore nella materia principale, e comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive l'autore la venuta d'un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venía», avendomi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid'onde», di Stige, «Un fracasso», cioè un rompimento, «d'un suon pien di spavento, Per cui tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso, «Non altrimenti fatto, che d'un vento, Impetuoso» [da sé, come è il turbo o la bufera, de' quali è detto di sopra, dove vi dimostrai, secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali vi dissi essere due, cioè typhon e enephias, e però qui reiterare non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori», cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero, non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento, in quanto si movea velocissimo con l'impeto del vento] «Che fier», questo vento, «la selva», alla quale s'abbatte [le cui frondi percosse il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva, «schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono, «e li pastori» con le lor greggi.

«Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e disse: - Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo, «su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di quelle che all'entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può assai chiaramente comprendere. Creder'io che ella fosse alcuna fiamma usa continuo d'essere in quel luogo nel quale allora era; e questo credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo è piú acerbo», - cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.

«Come le rane». Qui dimostra l'autore, per una brieve comparazione, quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli dimostrava, facessero l'anime de' dannati che quivi erano, e dice che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l'acqua si dileguan tutte», fuggendo, «Fin ch'alla terra ciascuna s'abbica», cioè s'ammonzicchia l'una sopra l'altra, ficcandosi nel loto del fondo dell'acqua, nella qual dimorano. Dice qui l'autore la «nimica biscia», usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello della idra, la quale è quella serpe che sta nell'acqua, e che inimica le rane, sí come quella che di loro si pasce. «Vid'io piú di mille anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch'al passo», di Stige, dove esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.

E poi segue: «Dal volto rimovea quell'aer grasso», per li fummi e per le nebbie che v'erano, le quali hanno a far l'aere grosso e spesso, «Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga, sí come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo dimostra l'autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía. «E sol di quell'angoscia parea lasso», stanco e vinto.

«Ben m'accors'io ch'egli era da ciel messo». E di questo s'accorse quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l'anime de' dannati, che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo 'nferno commuoversi alla venuta d'un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice: «E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare, appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe' segno», a me, «Ch'io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad esso», facendogli reverenza.

«Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano. [E qui assai manifestamente si può comprendere l'uomo potersi senza peccare adirare, poiché l'angelo di Dio, il quale peccar non puote, era commosso.]

«Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella destra man portava, per la quale si disegna l'uficio del messo e l'autoritá di colui che 'l manda. [E, secondo che i santi vogliono, questo uficio commette Iddio a qualunque s'è di quelle gerarchie celesti, fuorché a' cherubini non si legge essere stato commesso: e mentre che quello beato spirito è nell'esercizio dell'uficio commesso, si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da «aggelos» graece, che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione, non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè «vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s'abbia.]

«L'aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere tutto il mondo.

«O cacciáti». Qui pone l'autore le parole dette dall'angelo a' nimici di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s'erano fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro a loro. Dice adunque: - «O cacciáti dal ciel» per la lor superbia, «gente dispetta», - cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su l'orribil soglia», della porta la quale era aperta, - «Onde», cioè da qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che voi fate, «in voi s'alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia», di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire, conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v'ha cresciuta doglia?», rilegandogli nell'aere tenebroso, nel profondo dello 'nferno, sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di cozzo?»

Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro se non voler cozzare col muro, ché si rompe l'uomo la testa, e 'l muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel decimosettimo canto del Paradiso. Ma, percioché qui, poeticamente parlando, l'autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi qui recitare la favola di Pronapide dell'origine di queste fate, e la sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, in libro De natura deorum, scrive queste essere state figliuole d'Erebo e della Notte; ma io m'accosto piú con l'opinione di Teodonzio, il quale vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d'Erebo e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate», dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d'un filosofo chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è intitolata Edipo, dove dice:

Fatis agimur, credite Fatis:

non sollicitae possunt curae

mutare rati stamina fusi.

Quidquid patimur mortale genus,

quidquid facimus, venit ex alto,

servatque sua decreta colus

Lachesis. Dura revoluta manu,

omnia certo tramite vadunt,

primusque dies dedit extremum.

Non illa deo vertisse licet,

quae nexa suis currunt causis.

It cuique ratus, prece non ulla

mobilis, ordo; multis ipsum

timuisse nocet: multi ad fatum

venere suum, dum Fata timent, ecc.

E questo medesimo mostra Ovidio d'aver sentito nel suo maggior volume, dove introduce Giove cosí parlante a Venere:

...tu sola insuperabile Fatum,

nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum

tecta trium: cernes illic molimine vasto

ex aere, et solido rerum tabularia ferro:

quae neque concursum caeli, neque fulminis iram, nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas. Invenies illic incisa adamante perenni Fata tui generis, ecc.

Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch'elle sieno state da' poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state attribuite al servigio d'un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio dice, nelle sue Mitologie, queste essere attribuite al servigio di Plutone, iddio dello 'nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo l'opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi, secondo una significazion di quelle.]

[E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa fata s'appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato, accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione» o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato fuori in luce, Lachesis l'ha a ricevere e trarlo avanti nella vita. Atropos è detta ab «a», quod est «sine», e «tropos», quod est «conversio», cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense, filosofo di non piccola autoritá, del significato de' nomi e dell'opere di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama Cosmografia, scrive cosí: «Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum, id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere. Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis, quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus desit», ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei essere ogni cosa, la quale a' mortali avviene, guidata e menata.]

[Ma, percioché della favola non s'avrebbe quello che per bisogno fa, se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e, peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque, secondo la vana opinione e dannevole d'alcuni antichi, fosse iddio padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d'Erebo e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo, come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna cosa, alla quale l'acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]

[Sono, oltre a' propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «for faris», il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel libro De civitate Dei: ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto delle fate.]

Séguita adunque, continuando le parole dell'angelo, l'autore: - «Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo». - Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò.

«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l'angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe' motto a noi», percioché l'uno era dannato, e l'altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall'angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato a' diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe' sembiante D'uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.

«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l'autor pone come nella cittá entrassono, e quivi vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi inver'la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole sante», dette dall'angelo contro a que' demòni che contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a' quali furon dette, furon dolorose e piene d'amaritudine. «Dentro v'entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l'autore nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.

«Ed io, ch'avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose nuove, «La condizion», de' peccatori, «che tal fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com'io fu' dentro, l'occhio intorno invio», sí come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de' dannati, per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de' loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno, quello de' dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]

E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela nel secondo libro della sua Cosmografia scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e 'l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de' predetti due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale alquanto raffrena l'impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo lago, tale se n'esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l'una Gallia dall'altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e' cavari; oltre a' quali sono gli stagni de' volchi, e un fiume secondo l'antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo De historia naturali, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un ragguardevole stagno, per lo quale l'autor dice: «ove 'l Rodano stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.

E, oltre a ciò, soggiugne l'autore la comparazion seconda, dicendo: «Sí com'a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch'Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da' popoli li quali sopr'esso abitarono, che si chiamarono Carnares. «Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto 'l loco varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de' vai, il bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e appaiono in alcune d'esse alcune scritture secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v'era seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere giá stata una gran battaglia tra Guiglielmo d'Oringa e sua gente d'una parte, o vero d'altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti d'Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de' cristiani, e cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l'arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da' paesani per loro sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.

Dice adunque l'autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí facevan quivi d'ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè eccetto, «che 'l modo v'era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.

E poi discrive come piú amaro v'era il modo, dicendo: «Che tra gli avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «evello evellis», percioché la terra s'evelle del luogo dove l'uom vuole seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú»,

acceso, cioè rovente, «non chiede verun'arte», la quale di ferro lavori, il quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n'uscivan sí duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da' miseri che dentro vi giaceano, «Che ben parean di miseri e d'offesi».

E però l'autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed io: - Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da quell'arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»? - la qual cosa dice l'autore, percioché veder non si lasciano, e non si possono.

[Lez. XXXVII]

«Ed egli a me: - Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i prencipi dell'eretica pravitá, e dicesi questo nome ab «haeresis» et «arce», quod est «princeps», quasi «principe d'eresi». «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono; e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il quale sant'Agostino scrive Degli eresiarci, e delle qualitá de' loro errori, mostra che infino a' tempi suoi ne fossero novantaquattro, cioè prencipi d'eresie, li quali tutti diversamente l'uno dall'altro errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra' quali egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano, Celestino e altri assai, li quali l'autore qui dice esser puniti. E mostra ancora l'autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti, ma esservi «Co' lor seguaci», ed esservi «d'ogni setta» d'eretici. E chiamale «sètte», il qual nome viene da «seco secas», il qual vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla cattolica fede, e poi son divisi infra sé, sí come coloro li quali niuno crede quello che l'altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo tempo questa perfidia.

«Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in una medesima arca col prencipe loro.

«E' monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo canto l'autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»; nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei», «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi «seorsum a pulchro», percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai, essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l'arche del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si dice «tumba», quasi «tumulus bombans», cioè cosa rilevata che rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de' riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo», per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo, e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli antichi fare sopra i corpi de' nobili uomini alcuno edificio alquanto rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse stato seppellito; de' quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di chi v'è dentro seppellito, e dicesi da «sarca», graece, che tanto vuol dire quanto «carne», e «paghos», che tanto vuol dire quanto «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito. Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri, sí come son quegli de' re e de' gran principi; e chiamansi cosí da Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie, fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l'antiche storie testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d'artificio maravigliosa; percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare a sé i quattro maggiori maestri d'intaglio e di edificare che al mondo avesse a' suoi tempi, i nomi de' quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo e Leochares; e fuori d'Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu tanta, l'altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve agl'intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria, e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero. Appresso a' quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi s'aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo fu annoverato l'uno de' sette miracolosi lavorii, li quali in tutto il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo» nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose sepolture de' re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son detti da' corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e d'ariento e d'oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle quali, con diligenzia ricolta, la cenere d'alcun corpo arso dentro vi mettevano. E questo basti aver de' sepolcri detto. Séguita: «son piú e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.

E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur tra le sepolture, dicendo: «E poi ch'alla man destra si fu vòlto», Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d'alcun pavimento espedito; e perciò dice che tra' martiri passò, e tra' luoghi che quivi espediti erano.

II

SENSO ALLEGORICO

«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l'autore ne' precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione, dimostrato che peccati sien quegli a' quali noi naturalmente tirati siamo, e ne' quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali supplíci ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono, accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata l'entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v'entrasse, disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare), rende solleciti coloro li quali hanno sani gl'intelletti, a dovere agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.

adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che s'intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo, assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna altra cosa significare, che il luogo dello 'nferno nel quale si puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige, della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell'anime ostinate, le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima «tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá; la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento, nel quale senza mutarsi consiste l'ostinato, e questa è significata per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza di fuoco, non che d'altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere in alcuna laudevole forma.

E chiama l'autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per lo trasandare nelle colpe, li piú de' peccatori da' peccati naturali trasvanno ne' bestiali o ne' fraudolenti; e cosí questa ultima e piú profonda parte dello 'nferno è molto piú piena che la superiore. E pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali l'una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l'altra non la vuol cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne' vizi e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s'hanno ridutti in costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti, caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata l'entrata alla ragione e all'autore: alla ragione, percioché il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all'autore fu vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E cosí, parendo a' ministri del doloroso luogo lui non dover venire per rimanere, come gli altri facevano che v'entravano, non fu voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non di Dite, ma de lo 'ntelletto, da' loro avversari, li quali con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si curerebbe il demonio che l'uomo conoscesse il vizio e ancora la pena apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere, l'uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione; s'ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi, li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s'imprieme questa maladizione, cioè l'ostinazione, vegnono le tre furie infernali orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s'ingegnano d'occupare con questo vizio il petto dell'autore: ma per l'opera e dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la sua origine conosciuta e dimostrata a noi.

[Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e' loro effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole d'Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono figliuole d'Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo, il dimostra:

Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,

quas et Tartaream nox intempesta Megaeram

uno eodemque tulit partu, ecc.

E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:

Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis

apparent, acuuntque metum mortalibus aegris

si quando lethum horrificum morbosque deûm rex

molitur meritis, aut bello territat urbes, ecc.

E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra l'autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per li versi di Lucano si comprende, quando dice:

Iam vos ego nomine vero

eliciam, Stygiasque canes in luce superna

destituam, ecc.

Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí come per Virgilio appare, dove dice:

... caeruleis unum de crinibus anguem

coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit,

quo furibunda domum monstro permisceat omnem.

E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio dicendo:

Eumenides tenuere faces de funere raptas, ecc.

E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per Virgilio si può vedere:

At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,

infelix crines scindit Iuturna solutos, ecc.

Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi versi:

Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem

obscoenae volucres: alarum verbera nosco, ecc.

Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]

[Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché dall'autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]

[Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e spaventevole. E primieramente l'uficio attribuito ad Aletto appare per questi versi di Virgilio:

Cui tristia bella

iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.

Odit et ipse pater Pluton, odêre sorores

Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,

tam saevae facies, tot pullulat atra colubris.

E un poco appresso séguita:

Tu potes unanimes armare in praelia fratres

atque odiis versare domos; tu verbera tectis

funereasque inferre faces; tibi nomina mille,

mille nocendi artes, ecc.

A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl'infrascritti versi appare; e prima Virgilio dice di lei:

Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,

et pavor et terror trepidoque insania vultu, ecc.

A' quali aggiugne Stazio, dicendo:

Suffusa veneno

tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro

ore vapor, quo longa sitis morbique famesque

et populis mors una venit, ecc.

A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di Claudiano si può comprendere, dove nel libro De laudibus Stiliconis, dice:

Quam penes insani fremitus, animique prophanus

error, et undantes spumis furialibus irae,

non nisi quaesitum cognata caede cruorem,

illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,

quem dederint fratres, ecc.]

[Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste furie essere state figliuole d'Acheronte e della Notte. Della qual cosa pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá che, avendo noi separata la ragione e seguendo l'appetito, che, non avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore, convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può comprendere questo atto furioso esser nato dall'aver cacciata la letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto «senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere avvenuto per ignoranzia d'animo: e la ignoranzia è similissima alla notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza, aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le furie esser figliuole d'Acheronte e della Notte.]

[Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per lo 'nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse, come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d'ottimo consiglio, di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio: «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie, quantunque sue nemiche sieno, l'adoperare contra di noi; per la qual cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]

[Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto, secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo», accioché per questo s'intenda ogni furioso atto prender principio dal continuo e noioso stimolo, il quale l'animo nostro riposar non lascia, quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, sí come Fulgenzio medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo «tritonphones», il che in latino viene a dire «voce d'ira»; la qual voce d'ira dobbiamo intendere esser quella, la quale l'animo perturbato e inquietato, con contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme. La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice, questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale dobbiamo intendere le vendette, l'uccisioni e le guerre, nelle quali si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d'impeti furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa non giustamente séguita o nasce l'inquietudine dell'animo; e dalla inquietudine dell'animo si viene ne' romori e nelle obiurgazioni; e da' romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati odii.]

[Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d'inferno, cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché, pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell'animo; e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a' lor maggiori niuna altra cosa adoperano che l'abbaiare.]

[Appo noi, li quali siamo in mezzo tra 'l cielo e lo 'nferno (e perciò si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate «furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e però, parendogli equivalere e non potere, secondo l'appetito correndo, pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo a tanta passion sussistere, vergognandosi d'abbaiare come i minor fanno, prorompe furioso all'esecuzion del suo appetito, e le piú delle volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché, essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]

[Sono queste medesime, come detto è, appo gl'iddii, cioè appo gli eccelsi e grandi uomini, chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla crudeltá la quale essi, sí come potenti, per ogni menoma perturbazione usano ne' minori.]

[E sono ancora chiamate «ucceli» dalla velocitá del furore, percioché velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci dalla mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi «rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa alcuna da' superiori discordanti non paiono.]

[Gli ufici loro attribuiti, percioché assai, per le molte cose dimostrate di loro e ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si possono comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí ancora gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere l'animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e ancora ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero: e per questo, sí come in luogo freddissimo e terreo, essere ogni attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il ghiaccio e la durezza dell'ostinazione: e per questo artificiosamente fingere l'autore queste furie gridare, accioché in lui, posto nel luogo dove ha la tristizia di Stige e il furor degl'iracundi contemplato, possano col romor loro mettere, con paura, perturbazione, accioché per gli stimoli di quella recati nell'animo, esso divegna atto a dover ricevere quella impressione, che pare il debbia fare perpetuo cittadino d'inferno, cioè l'ostinazione. E quinci, discrive l'autore, essendo giá la perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui dilungata per l'andare a parlare, cioè a tentare l'entrata nel luogo degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell'animo suo, veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere esser quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa credenza paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi, caggiono in ostinazione, e, se medesimi riputando dannati, continuamente di male in peggio adoperando procedono.

[Lez. XXXVIII]

Ma, percioché l'autor dice che questa ostinazione era dalle furie per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa Medusa sia da sentire, cioè come s'adatti alla 'ntenzione lei aver per l'ostinazione, piú tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivono i poeti, e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]

[Scrivono adunque, secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo di Nettuno e dio del mare, generò d'un mostro marino tre figliuole, delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua Cosmografia, esse signoreggiarono l'isole chiamate Orcade, le quali si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi che son cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano, dove scrive:

Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus

accipit Oceanum demisso sole calentem,

squalebant late Phorcynidos arva Medusae, ecc.

E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietá, che, chiunque le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la maggior delle tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre ad ogni altra femmina bella; e intra l'altre cose piú ragguardevoli della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d'oro. Dallo splendore de' quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso. Ma Minerva, turbata della ignominia nella qual pareva il suo tempio venuto per questo adulterio, accioché non rimanesse impunita, dicono che i capelli d'oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa, di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di Perseo, in quei tempi valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover questa cosa mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava, e quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa, e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti. E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono, e poi al nostro proposito il recheremo.]

[Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state figliuole di Forco; ma perché dette sieno figliuole d'un mostro marino, credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l'ammirazion della quale non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di femmina, come l'altre nascono: ma di questo sia la quistione terminata. Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò esser detto, perché esse tutte e tre fossero d'una medesima e igual bellezza, e per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro li quali le riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello vedessero, cioè valessono. L'esser giaciuta con Nettuno, niuna altra cosa dimostra se non essersi dilettata dell'abbondanza delle cose, e però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte lucrative arti, per le quali l'abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare le sustanze temporali, le quali per li capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci sollicitudini di coloro che l'hanno, percioché temono or di questa e or di quella cosa, ecc. Che esse convertissono in sassi coloro li quali le riguardavano, credo essere stato detto per ciò, che tanta e sí grande era la lor bellezza, che, come da alcuno veduta era, cosí diventava stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non altrimenti che se sasseo divenuto fosse.]

[Gorgone furon chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice, essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano le loro ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro uomini furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra». Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual solamente debilita l'animo di colui in cui cade; appresso dice che Euriale è interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o amenzia, la quale con un profondo timore sparge o disgrega l'animo debilitato; ultimamente dice che Medusa significa «oblivione», la qual non solamente turba l'avvedimento dell'animo, ma ancora mescola in esso caligine e oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti, i quali per avventura non s'accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da sapere che sono alcuni li quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, ne' lor figliuoli, ne' lor be' palagi, ne' lor be' giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni letizia di paradiso; altri tengono l'animo fisso a' lor cavalli, a' lor fondachi, alle loro botteghe, a' lor tesori; altri agli stati e agli onori publichi e a simili cose. E non s'accorgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni: da' quali e' traggono quella durezza che gli convertisce in pietra, la quale è di complession fredda e secca: per la qual possiamo intendere questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá del prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né ricevono alcun seme, né fanno alcun frutto.

Cosí adunque divenuti e caduti nella perseveranza del peccare, quasi della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano andare in qualunque colpa, dicendo sé sapere quel c'hanno, e non sapere quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell'altra vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun altro giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre ad ogni debito gli animi pongono a' piaceri, li quali smisuratamente procuran d'avere, delle cose terrene, e tanto in esse s'invescano, che cosa, che contro a questo piacer faccia, udir non possono. E, quantunque questo atto furioso non paia, egli è; percioché la perturbazione si prende nell'animo dalla nostra insaziabilitá; e però, non avendo né quello né tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna, e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono, di che a noi pare esser degni. E da questa perturbazione nascono gli stimoli, li quali il dí e la notte ne infestano a dover trovar modo come pervenir possiamo a quello che noi disideriamo; e da questi stimoli nascon le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo seguono gli atti e l'operazioni, le quali pognamo ad avere quello che bisogno non era. E questi, nel giudicio de' savi uomini, piú tosto da furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci abituiamo, che né salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare; e cosí come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè ostinati cultivatori delle terrene cose.

Era adunque a questo provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta nella mente dall'autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni, e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l'animo. Il che pregava il salmista quando diceva: «Averte oculos meos, ne videant vanitatem», cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali son tutte vane, come dice l'Ecclesiastes: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas». E non solamente fu la ragion contenta d'avergli imposto che con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie gliele chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell'anima, cioè dall'appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder con le mani, cioè con l'operazioni della ragione, le quali quante volte questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l'uomo piú che il dovere non s'adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone veder non si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.

E séguita, di questo, che a coloro, li quali con fermo animo seguitano la ragione, Iddio, dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il quale in questo luogo l'autore figura per l'angelo, il quale aperse la porta. Ed è questo divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia, che ogni infernale arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l'anime de' dannati, pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli fuggon davante, lasciando aperta e spedita la via a dover poter vedere e conoscere ciò che per la lor salute bisogna a coloro li quali sperano in lui. E questo credo che sia quello, al quale vedere l'autore sollecita gl'intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione a discernere distintamente le colpe de' caduti nella ostinazione, e i tormenti dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si sappia guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria pervenire.]

Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato agli eresiarci. Sono gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge nel testo, in sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati; nel qual supplicio io intendo disegnarsi l'apparenza degli eretici in questa vita, e la pena loro attribuita nell'altra. Dico adunque che, per le sepolture, l'autore vuol dimostrare di questi peccatori l'apparenza in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a credere al giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte falso, ne 'nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo uscire, o con difficultá n'usciamo. Possonsi adunque gli eretici simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di marmi, d'intagli, d'oro, di dipinture e d'altre cose dilettevoli a riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si truovano dentro piene d'ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in sé avere. E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione; ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco, esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia dottrina, e d'intendimenti intorno a' sensi della Scrittura di Dio tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l'ossa o i corpi de' morti non sono. Percioché l'ossa de morti, quantunque sieno orribili a riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l'anime che dentro a sé il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne' lor intrinseci sentimenti, molto piú sozzi e piú orribili ch'e' sepolcri aperti, e per questo assai convenientemente si possono assomigliare a' sepolcri. E quinci estimo, percioché ne' sepolcri, a' quali li lor corpi simiglianti furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori trassono; che l'autore volesse che essi nell'altra vita ne' sepolcri piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false e riprovate opinioni, sí come freddi dell'ardore dello Spirito santo, ostinatamente servarono, credo voglia l'autore che nel fuoco eterno senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.

Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e' pare che l'autor voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente l'incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?

Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di vedere e di sapere d'alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non sia, de' quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando, sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.

Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli altri bestiali si puniscono?

E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono, bestemmiando e maladicendo, d'offendere Iddio; e, oltre a ciò, adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli eretici.

CANTO OTTAVO, II, SENSO ALLEGORICO

II

SENSO ALLEGORICO

«Io dico, seguitando, ch'assai prima», ecc. Nel presente canto non è alcuna ordinaria allegoria come ne' passati, percioché non ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole si spedirá.

Dicono adunque alcuni le due torri, le quali l'autore scrive essere in questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il trascendimento della furia degl'iracundi, il quale trasvá sopra ogni debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte sopr'esse avere a dimostrare le tre spezie degl'iracundi discritte nel canto precedente. Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme semplicemente essere state discritte dall'autore a continuazione del suo poema; peroché qui parev'essere di necessitá porre alcuna cosa, per la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a dovere li due venuti a riva passare all'altra riva, sí come subitamente venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.

Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben si può comprendere l'autore intendere il vizio dell'iracundia, li cui effetti, quanto piú possono, son conformi a' costumi del detto Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio, dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua operazion rispetto, e non a quella per la quale l'autore vuol qui che egli significhi l'iracundia; e, se contro a Virgilio s'osasse dire, io direi che in questa parte l'autore avesse avuta assai piú conveniente considerazione di lui.

Il navicar l'autore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole nel peccato dell'ira divenire, quanto piú leggiermente può, passare superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite, sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a perdizione.

Della cittá di Dite, la qual dice l'autore che avea le mura di ferro, e de' demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono, e, oltre a ciò, l'avergli serrata la porta della detta cittá nel petto: tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto mi fia, ne scriverò.

CANTO OTTAVO, I, SENSO LETTERALE

CANTO OTTAVO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. XXXIII]

«Io dico, seguitando, ch'assai prima», ecc. Continuasi l'autore in questo canto alle cose precedenti in questa forma che, avendo nella fine del precedente canto mostrato come, alquanto aggirata della padule di Stige, pervenissero a piè d'una torre; nel principio di questo dimostra quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero, discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende l'autore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il presente canto in quattro parti: nella prima dimostra l'autore come, vedute certe fiamme sopra due torri, distanti l'una all'altra, un demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive l'autore ciò che, navicando per la palude, udisse e vedesse d'uno spirito chiamato Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della cittá di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella quarta pone la raccolta fatta loro da' demòni, che sopra la porta o all'entrata della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se ne tornasse, e quel che dicesse. La seconda comincia quivi: «Mentre noi correvam»; la terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta quivi: «Non senza prima far».

Dice adunque nella prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole si può alcuna ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí ancora che, per insino a qui, non ha alcun'altra volta usato questo modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella, la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il quale di lei ebbe piú figliuoli, tra' quali ne fu uno di piú tempo che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea, e fu uomo idioto, ma d'assai buon sentimento naturale e ne' suoi ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo io suo dimestico divenuto, io udi' piú volte de' costumi e de' modi di Dante, ma, tra l'altre cose che piú mi piacque di riservare nella memoria, fu ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in parole.]

[Diceva adunque che, essendo Dante della setta di messer Vieri de' Cerchi, e in quella quasi uno de' maggiori caporali, avvenne che, partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci, esso medesimo si partí e andossene a Verona. Appresso la qual partita, per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro che partito s'era, e massimamente de' principali della setta, furono condennati, sí come ribelli, nell'avere e nella persona, e tra questi fu Dante: per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a romor di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che, temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma, per consiglio d'alcuni amici e parenti, aveva fatti trarre dalla casa alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture di Dante, e fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non essendo bastato l'aver le case rubate, similmente i parziali piú possenti occuparono chi una possesione chi un'altra di questi condennati: e cosí furono occupate quelle di Dante. Ma poi, passati ben cinque anni o piú, essendo la cittá venuta a piú convenevole reggimento che quello non era quando Dante fu condennato, dice le persone cominciarono a domandar loro ragioni, chi con un titolo chi con un altro, sopra i beni stati de' ribelli, ed erano uditi: per che fu consigliata la donna che ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse de' beni di Dante raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno certi stromenti e scritture, le quali erano in alcuno de' forzieri, li quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire, né poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva. Per la qual cosa diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui, sí come nepote di Dante, e, fidategli le chiavi de' forzieri, l'aveva mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune. Delle quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili cose; ma, tra l'altre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo, quantunque poco ne 'ntendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa. E però diliberò di dovergli portare, per saper quel che fossero, ad un valente uomo della nostra cittá, il quale in que' tempi era famosissimo dicitore in rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a piú suoi amici fatta copia, conoscendo l'opera piú tosto iniziata che compiuta, pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che, seguitando il suo proponimento, vi desse fine. E, avendo investigato e trovato che Dante era in quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo de' Malispini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente e in singularitá suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al marchese, che gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto potesse, désse opera che Dante continuasse la 'mpresa, e, se potesse, la finisse.]

[Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare la 'mpresa. Al qual dicono che Dante rispuose: - Io estimava veramente che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto n'avea l'animo e 'l pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sien, ed hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare la bisogna, secondo la mia disposizion prima. - E quinci rientrato nel pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente intralasciate.]

[Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa mutarne, mi raccontò giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e intendente uomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso diceva non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale la donna avea mandato a' forzieri per le scritture, e che avea trovati questi sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so a quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si dica il vero o no, m'occorre nelle parole loro un dubbio, il quale io non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio è questo. Introduce nel sesto canto l'autore Ciacco, e fagli predire come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca, convien che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante.

Il che cosí avvenne, percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta Bianca e il partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se l'autore si partí all'ora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e non solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e a me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi che fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con quello che mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire l'autore, dopo la partita de' Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non si confá bene con la risposta fatta dall'autore al marchese, nella qual dice sé avere creduto questi canti con l'altre sue cose essere stati perduti, quando rubata gli fu la casa. E il dire l'autore aver potuto aggiungere al sesto canto, poi che gli riebbe, le parole le quali fa dire a Ciacco, non si può sostenere, se quello è vero che per i due superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio n'avesse data copia a piú suoi amici; percioché pur n'apparirebbe alcuna delle copie senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole, alcuna memoria ne sarebbe. Ora, come che questa cosa si sia avvenuta o potuta avvenire lascerò nel giudicio de' lettori; ciascun ne creda quello che piú vero o piú verisimile gli pare.]

[Tornando adunque al testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose predette, «ch'assai prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al piè de l'alta torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive che pervennero, «Gli occhi nostri n'andâr», riguardando, «suso alla cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra la cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per due fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su quella sommitá della torre, «E un'altra», fiamma, «di lungi» da questa torre, «render cenno», sí come far si suole per le contrade nelle quali è guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il castello o il luogo, vicino al quale la novitá avviene, incontanente per un fuoco o per due, secondo che insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e ville del paese. E dice che questo cenno d'una fiamma fu renduto di lontano, «Tanto, ch'appena il potea l'occhio tôrre», cioè discernere [altro]. Ma pure, poi che tolto l'ebbe, dice:

«Ed io mi volsi al mar», cioè all'abbondanza, «di tutto il senno», cioè a Virgilio (del quale nel principio del canto precedente dice: «E quel savio gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi: - Questo che dice?», cioè che significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi fatto in questa torre? «e che risponde Quell'altro fuoco?», il quale io veggio fare sopra la torre, la quale n'è lontana; «e chi son que' che 'l fenno»? - questo ch'è sopra noi, e quello ancora che n'è piú rimoto.

«Ed egli a me: - Su per le sucide onde», di Stige, le quali chiama «sucide», perché nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di lontan vedere, «quello che s'aspetta» di dovere avvenire per questo fuoco e per quello, «Se 'l fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti nasconde», - percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la vista delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e l'occhio del riguardante.

E, questo avendo Virgilio risposto, séguita l'autore, e dimostra quello che seguí de' fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda», d'alcuno arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè volasse, «via per l'aere snella», cioè leggiere, «Com'io vidi una nave piccioletta Venir per l'acqua», della padule, «verso noi in quella» che Virgilio diceva: - «Giá puoi scorgere», ecc. - «Sotto il governo d'un sol galeoto». «Galeotti» son chiamati que' marinari li quali servono alle galee; ma qui, licentia poëtica, nomina «galeotto» il governatore d'una piccola barchetta; e dice «che», questo galeotto, «gridava: - Or se' giunta, anima, fella!», - cioè malvagia.

E, come assai appare, l'autore in questo quinto cerchio non ha ancor mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento de' dannati in esso, né che con alcun atto lo spaventi, come suol fare ne' cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo. E questo è artificiosamente fatto, percioché non sempre d'una medesima cosa si dee in un medesimo modo parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il modo del dimostrare, qui infra 'l cerchio, percioché tutto è del quinto cerchio ciò che si contiene infino all'entrata della cittá di Dite. E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare, par che sieno dirizzate dal dimonio pure all'un di lor due, cioè a Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere questo demonio avere da occulta virtú sentito l'autore non venir come dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestá; ma esso gridar contro a Virgilio, accioché l'autore spaventasse, e, spaventandolo, il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere le colpe de' peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa caduto fosse.

Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio: - «Flegias, Flegias»; era questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto», cioè per niente, - «Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione per la quale Flegias grida a voto, dicendo: - «A questa volta», che qui se' venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il loto», - cioè il padule pieno di loto.

E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta, Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli amici e con altrui; «Tal si fe' Flegias nell'ira accolta», parendogli essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli era.

[E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive Lattanzio in libro Divinarum institutionum, questo Flegias fu figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro agl'iddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli, Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima, piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos, e quivi mise fuoco nel tempio d'Apolline, il quale a que' tempi dall'error de' gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, l'anno 23 di Danao, re degli argivi, il quale fu l'anno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo, scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran tratti de' ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto per beneficio della sua deitá, cioè dell'arte della medicina, erano in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e mandonne l'anima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui scrive Virgilio nel sesto dell'Eneida:

Phlegyasque miserrimus omnes

admonet, et magna testatur voce per umbras:

discite iustitiam moniti, et non contemnere divos, ecc.]

«Lo duca mio». Poi che l'autore ha dimostrato Flegias essersi turbato del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender si può che altra via non v'era da poter piú avanti procedere, senza valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fu' dentro parve carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non d'alcun peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da Virgilio, dove dice, nel sesto dell'Eneida, come Enea trapassò per nave Acheronte, dicendo cosí:

simul accipit alveo

ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba

subtilis, et multam accepit rimosa paludem, ecc.

Poi segue l'autore: «Tosto che 'l duca ed io nel legno fui», cioè nella barca; e usa qui l'autore il general nome delle navi per lo speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare è chiamato «legno», quantunque non s'usi se non nelle gran navi. «Segando se ne va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due parti, cosí la nave, andando per l'acqua sospinta da' remi o dal vento, pare che seghi, cioè divida, l'acqua. «L'antica prora»: «antica» la chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora» la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre parti principali, delle quali l'una si chiama «prora», quantunque per volgare sia chiamata «proda» da' navicanti; e questa è stretta e aguta, percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender l'acqua: l'altra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo de' timoni, li quali in quella parte, l'uno dal lato destro e l'altro dal sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama «carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato carico, sega «Dell'acqua» del padule, «piú che non suol con altrui», cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da Flegias.

«Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l'autor fa quattro cose: primieramente dimostra come un pien di fango fuori dell'acqua del padule gli si dimostra; appresso scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel fangoso fosse lacerato dall'altre anime de' dannati che quivi erano; ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite. La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed io: - Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».

Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte d'acqua tratta per forza del vero corso d'alcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta: per lo qual nome l'autore nomina qui, licentia poëtica, il padule per lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento che di quello dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dall'acqua del padule, «un pien di fango», un'anima d'un peccatore, «E disse: - Chi se' tu, che vieni anzi ora?», - cioè anzi che tu sia morto.

«Ed io a lui» risposi: - «S'io vengo, non rimango», percioché io non son dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi se', che sí se' fatto brutto?» - dal fango il quale hai addosso.

«Rispose», quell'anima: - «Vedi che son un che piango». - Risposta veramente d'uomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non rispondere se non per rintronico.

«Ed io a lui: - Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto: dicon primieramente che «flere», il quale per volgare noi diciam «piagnere», fa l'uomo quando piagne versando abbondantissimamente lagrime; «plorare», il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «lugere», il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «lugere, quasi luce egere», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico, percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto, quasi all'oscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá, per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «lugere» viene «lutto», il vocabolo che qui usa l'autore. «Eiulare», che per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace a' gramatici, «piagnere con alte boci»: e dicesi ab «hei», quod est interiectio dolentis; «gemere», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e quel pianto che si fa singhiozzando; «ululare» in volgare vuol dir «piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo l'autore a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.

Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento, «Ch'io ti conosco, ancor sii lordo tutto». - Questo gli dice l'autore, percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non l'avea voluto dire.

«Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse, l'autore, percioché ingiurioso si reputava l'autore aver detto di conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che 'l maestro accorto», della intenzione di quest'anima adirata, «lo sospinse», cioè il rimosse della barca, «Dicendo: - Via costá con gli altri cani!», - de' quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli co' denti, come quivi dice si stracciavano gl'iracundi.

[Lez. XXXIV]

«Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte principale, nella quale Virgilio fa festa all'autore, percioché ha avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella l'autore una spezie d'ira, la quale non solamente non è peccato ad averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere usare questa spezie d'ira, Aristotile nel quarto dell'Etica chiama «mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che s'adirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali è convenevole d'adirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili. E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali s'adira, tanto tempo essere adirato, quanto la ragione richiederá. Questa cotale spezie d'ira n'è conceduta da' santi. Dice il salmista: «Irascimini, et nolite peccare»; volendo per queste parole che ne sia licito il commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al discepolo, o l'uno amico all'altro, accioché per quella commozione egli l'ammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare d'alcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú l'ira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi, come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori e' compratori, dicendo: «Domus mea, domus orationis», ecc. Questa spezie d'ira chiamano molti «sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere l'autore): il qual non voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in cui egli cade; percioché quanto piú è savio l'uomo, tanto piú cognosce le qualitá e' motivi de' difetti che si commettono, e per conseguente piú si commuove. E però dice Salomone: «Ubi multum sapientiae, ibi multum indignationis». E vuole l'autore in questa particella mostrare questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si mostra per lo supplicio de' dannati in questo cerchio esser commosso, come ne' superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo, in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia l'essere isdegnoso. È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo, cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte si pone: il che, quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è da' discreti da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie d'ira, le quali di sopra son mostrate esser dannose.]

Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi; «Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice «il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo primieramente l'onestá del costume, percioché il baciar nel volto è segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò, il volto nostro è detto «volto» da «volo vis», percioché per quello ne' non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il voler del cuore dell'autore era buono e onesto, Virgilio, approvando quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del corpo dell'autore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.

«E disse: - Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando l'ira, mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui l'autor «benedetta», a dimostrazion che, come l'albero, il qual porta buon frutto, si dice «benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon figliuolo. E in questa parte non si commenda poco l'autore; ma egli è in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni ira esser peccato.

«Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita, «persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí il nome e la memoria dell'uomo, nel quale state sono, come il fregio adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «s'è l'ombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.

«Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio a biasimare, sotto i nomi de' piú eminenti prencipi, i fastidi e le stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma eziandio di molti plebei, li quali, per apparere d'esser quel che non sono, si sforzano d'esser ponderosi ne' passi, gravi nel parlare, e nell'adoperare di sentimento sublime, dove nell'effetto di niuno valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il «re» è dinominato da «rego regis», il quale sta per «reggere» e per «governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e però dice l'autore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi non sono.

A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo in quella tragedia la quale è nominata Tieste, dove dice: «Non fanno le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate de' lor palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di cavalli né d'armi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.

E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano i mali usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare, state operate per loro.

«Ed io: - Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda parte principale di questo canto, nella quale l'autor discrive come, secondo il suo desiderio, vide straziare all'anime dannate quello pien di fango che davanti gli s'era parato. E primieramente apre il suo desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io: - Maestro, molto sarei vago Di vederlo attuffare», costui, il qual tu mi di' che fu persona orgogliosa (e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo, di vedere gl'incorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma qui l'usa l'autore largamente, prendendolo per l'acqua di quella padule mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché cosí son grasse e unte come la broda.

«Anzi che noi uscissimo del lago», - cioè di questa padule. È il «lago» una ragunanza d'acque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa, per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento; per le quai cose l'acqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui l'autore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando la licenza poetica, e largamente parlando.

«Ed egli a me: - Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa padule. La quale l'uomo, come de' fiumi, chiama «riva»; ma pone l'autore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili, accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla riva. «Ti si lasci veder, tu sará' sazio», di quel che disideri. E poi ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu di' che hai, «converrá che tu goda», - cioè ti rallegri.

«Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti», cioè agl'iracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio».

«Tutti gridavano», que' dannati, animando l'un l'altro ad offender quest'anima. E che gridavano? - «A Filippo Argenti!» - quasi voglian dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.

Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi) de' Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d'ariento, e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo molto essere iracundo scrive l'autore lui essere a questa pena dannato.

«E 'l fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo vocabolo «bizzarro» sia solo de' fiorentini, e suona sempre in mala parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire o assalire dagli altri, «si volvea co' denti», per ira mordendosi. «Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di lui dopo questo si seguisse.

«Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello, che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata. E segue:

«Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse, «avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi sbarro», cioè, quanto posso apro.

«Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda parte principale del presente canto, nella quale l'autore dimostra come venissero ne' fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon maestro disse: - Omai, figliuolo, S'appressa la cittá che ha nome Dite, Co' gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati, «col grande stuolo», - cioè con la gran quantitá.

«Ed io: - Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori della cittá venga, che l'altre case; e perciò non fa l'autor menzione dell'altre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole «meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.

«Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea «Vermiglie, come se di foco uscite Fossero». - E questo dice a rimuovere una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se non fosse che esse medesime si facevan vedere per l'essere affocate, cioè rosse.

«E quei mi disse: - Il fuoco eterno, Ch'entro l'affuoca, le dimostra rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno». -

Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual fu necessaria d'aprire, accioché egli non estimasse quelle essere dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro all'alte fosse, Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio significato, è quello palancato, il quale a' tempi di guerre si fa dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.

«Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dell'Eneida cosí:

Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,

vis ut nulla virûm, non ipsi excindere ferro

caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,

Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,

vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.

Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare

verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae, ecc.

«Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l'autor discrive la raccolta fatta loro da' demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose: primieramente discrive cui trovassero all'entrare della porta di Dite, e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra come si sconfortasse per l'andar Virgilio a loro. E comincia questa particella quivi: «Pensa, lettor».

Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»; nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove 'l nocchier», cioè Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogno; e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte - Uscite! - ci gridò». Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il costume degl'iracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan fare se non impetuosamente e con romore. - «Qui è l'entrata», - della cittá di Dite.

«Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di paradiso, in guisa di piova caddero nello 'nferno, «che stizzosamente», cioè iracundamente, «Dicean», con seco medesimi: - «Chi è costui, che senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta gente?», - cioè per lo 'nferno, il qual veramente si può dir «regno della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della morte temporale, e morti nella morte eternale.

«E 'l savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è, alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser: - Vien'tu solo», qua a noi, «e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle, percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia, ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa», tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada», - cioè sí oscura.

E vuole in queste parole l'autore quello dimostrare, che negli altri cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun de' ministri infernali sempre all'entrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui, dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in inferno discendere.

«Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte principale, nella quale l'autore mostra come si sconfortasse. «Pensa, lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Ch'io non credetti ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin quivi guidato m'avea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un passo.

E però, da questa paura sbigottito, dice: - «O caro duca mio, che piú di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo 'nfinito, «Volte m'hai sicurtá renduta, e tratto D'altro periglio che incontro mi stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti l'ira di Carone, di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi lasciar - diss'io - cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza te; «E, se l'andar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam l'orme nostre insieme ratto», - per la via tornandoci, per la quale venuti siamo.

«E quel signor», Virgilio, «che lí m'avea menato, Mi disse: - Non temer, ché 'l nostro passo», cioè l'entrare nella cittá di Dite, «Non ci può tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi e dican parole assai, essi non posson però impedire l'andar nostro; e pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal n'è dato», cioè da Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta, e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la speranza buona, dicendo: «Ch'io non ti lascerò nel mondo basso», - cioè nello 'nferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.

«Cosí sen va», verso que' demòni, «e quivi m'abbandona Lo dolce padre», cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E 'l sí e 'l no», che egli debba a me ritornare come promesso m'ha, o rimaner con coloro (sí come essi il minacciavano, dicendo: - Tu qui rimarrai -), «nel capo mi tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.

E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a que' demòni, «si porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che fuor rimase».

Puossi per questo atto, fatto da' demòni, comprendere che Virgilio dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo 'nferno a colui il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.

«E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste parole l'autore l'atto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come gl'iracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò che alcuno ha men che bene adoperato.

Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta la turbazione del mansueto, dove in contrario l'iracundo leva la testa e fa romore; «e le ciglia avea rase D'ogni baldanza»; in quanto il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú l'impeto, il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito, cioè senza alcuno ardire, dove gl'iracundi col capo levato paiono baldanzosi e arditi; «e dicea ne' sospiri», cioè sospirando dicea (nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del mansueto): - «Chi m'ha negate le dolenti case?» - quasi dica: questi demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono, hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di sospirare e di rammaricarsi.

«E a me disse», non ostante la sua perturbazione: - «Tu, perch'io m'adiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non te n'entri alcuna paura, per ciò «ch'io vincerò la pruova», dell'entrar dentro alla cittá, «Qual, ch'alla difension», che io non v'entri, «dentro s'aggiri», cioè si dea da fare perché io non v'entri. «Questa lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non m'è nuova, Ché giá l'usâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men segreta», in quanto quella è all'entrata dell'inferno, e questa è quasi al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta e piú riposta che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo giá risuscitato scese allo 'nferno a trarne l'anime de' santi padri, li quali per molte migliaia d'anni l'avevano aspettato; intorno al quale il prencipe de' demòni co' suoi seguaci fu di tanta presunzione, che egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello 'nferno, e rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della quale fa qui menzione l'autore, cioè la men segreta, alla qual poi non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere d'alcuna altra, percioché, secondo la discrizione dell'autore, nello 'nferno non ha che due porte: delle quali è l'una quella di che di sopra è detto, e della quale esso dice qui: «Sovr'essa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta», percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello 'nferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.

E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la qual senza serrame ancor si trova, «discende l'erta». «Erta» è a chi volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come spesse volte fa l'autore, usa un vocabolo per un altro. «Passando per li cerchi», dello 'nferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza, alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra aperta»; - di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice l'autore che, toccata la porta di quella solamente con una verga, l'aperse.

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