XXVI DELLE
OPERE COMPOSTE DA DANTE
Compose questo glorioso
poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali fare ordinata memoria
credo che sia convenevole, accioché né alcuno delle sue
s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate l'altrui.
Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua
Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un volumetto,
il quale egli intitolò Vita
nova,
certe operette, sí come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti
in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna
partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare
l'avean mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti
opere. E comeché egli d'avere questo libretto fatto, negli anni piú
maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua etá, è
egli assai bello e piacevole, e massimamente a' volgari.
Appresso questa
compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá del governo
della republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima
parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la vita
degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come fossero
pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e
quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando
gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli
venne nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in
una medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di
mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li
valorosi onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E,
percioché, come giá è mostrato, egli aveva a ogni studio preposta
la poesia, poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti
premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si
cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato
avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo
la sua diversitá, la vita degli uomini. La quale, percioché conobbe
essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante
alla vertú, o virtuosa; quella in tre libri, dal mordere la viziosa
cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse
in un volume, il quale tutto intitolò Comedia.
De' quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per
rittimi, sí come chiaro si
vede;
e quello in rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile
ordine e con sí bello, che niuno fu ancora che giustamente quello
potesse in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso
poetasse pertutto, coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che
'ntendano, il possono vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose
non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo conoscer
dobbiamo cosí alta, cosí grande, cosí escogitata impresa, come fu
tutti gli atti degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto
versi volgari e rimati racchiudere, non essere stato possibile in
picciolo spazio avere al suo fine recata: e massimamente da uomo, il
quale da molti e vari casi della fortuna, pieni tutti d'angoscia e
d'amaritudine venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è
che fu Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí
alto lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, comeché
altre opere, come apparirá, non ostante questa, componesse in questo
mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare
d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella
avvenuti.
Dico che, mentre che
egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá della prima parte di
quello, la quale intitola Inferno,
aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come
gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo
mai avanti non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua
cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella
e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con
diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo
certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa
contraria la fortuna potere operare, per la quale, e se forse vi può
porre indugio, istôrla possa dal debito fine; avvenne che alcuno per
alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra cose di
Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri,
nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era,
piú vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li
detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione,
non sappiendo che si fossero, lesse, e, piacendogli sommamente, e con
ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un nostro
cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli
tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li
quali veggendo Dino, uomo d'alto intelletto, non meno che colui che
portati gliele avea, si maravigliò sí per lo bello e pulito e
ornato stile del dire, sí per la profonditá del senso, il quale
sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per
le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sí
ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come
erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta
rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a qual fine fosse
il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e
quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se possibile fosse,
a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo alcuna
investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui,
ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette
canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe
veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se
esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti
subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli
piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto principio. -
Certo - disse Dante, - io mi credea nella ruina delle mie cose questi
con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per questa
credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio
esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra
quest'opera presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente
me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di
ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che
data mi fia la grazia. - E reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto
tempo la fantasia lasciata, seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai
prima» ecc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la
ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.
Ricominciata adunque da
Dante la magnifica opera, non forse, secondo che molti estimerebbono,
senza piú interromperla la perdusse alla fine, anzi piú volte,
secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea, quando
mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo;
né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte,
ch'egli tutta publicare la potesse.
Egli era suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti
n'avea, quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli
fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni
altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea
copia a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti,
fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti,
né ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla
sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare,
non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi Iacopo e Piero,
figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per
persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro
si potesse, supplire la paterna opera, accioché imperfetta non
procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto piú che
l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non
solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia
mancavano, e da loro non saputi trovare.
Raccontava uno valente
uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo
stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro,
era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «matutino», venuto
a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco
avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito
di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel
viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s'egli vivea, e
udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita, non della
nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, s'egli
avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se
compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai
non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per
risposta: - Sí, io la compie' -; e quinci gli parea che 'l prendesse
per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando
in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: - Egli
è qui quello che voi tanto avete cercato. - E questa parola detta,
ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual
cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a
significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a
cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella
memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione
questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran
pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi
trovarono una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane,
videro nel muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né
saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte,
tutte per l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se
guari piú state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate,
leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati.
Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza
dell'autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta
opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l'opera, in
molti anni compilata, si vide finita.
Muovono molti, e intra
essi alcuni savi uomini generalmente una quistione cosí fatta: che
conciofossecosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo, perché a
comporre cosí grande, di sí alta materia e sí notabile libro, come
è questa sua Comedia,
nel fiorentino idioma si disponesse; perché non piú tosto in versi
latini, come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta
domanda rispondere, tra molte ragioni, due a l'altre principali me ne
occorrono. Delle quali la prima è per fare utilitá piú comune a'
suoi cittadini e agli altri italiani: conoscendo che, se metricamente
in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a'
letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai
piú non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da' letterati,
e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in
quello, e diletto e intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati
per adrieto da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il
mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali studi del tutto
abbandonati, e massimamente da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali
si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine
opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in
poco pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli
incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in
questa guisa:
Ultima
regna canam, fluido contermina mundo,
spiritibus
quae lata paient, quæ premia solvunt
pro
meritis cuicumque suis, ecc.
il lasciò stare; e,
immaginando invano le croste del pane porsi alla bocca di coloro che
ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni sensi ricominciò
la sua opera e perseguilla in volgare.
Questo libro della
Comedia,
secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi
uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la
sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno,
intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana
signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il
Purgatoro,
intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il
Paradiso,
a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo
intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di
queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il
volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran fatto che
solenne investigazione ne bisogni.
Similemente questo
egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo imperadore fece un libro
in latina prosa, il cui titolo è Monarchia,
il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre
libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben
essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la
prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo,
mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la
seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá
dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno
suo vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza
quistione.
Questo libro piú anni
dopo la morte dell'autore fu dannato da messer Beltrando cardinale
del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente
Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu però che Lodovico
duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de' romani,
e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto
Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli ordinamenti
ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara,
papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece
coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,
egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e
di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per
la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo,
divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella
Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino
e dispersi; il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse,
avuto il soprascritto libro, quello in publico, sí come cose
eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di
fare dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua
memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile
cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora
a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio
da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di
sopra detto.
Oltre a questi compose
il detto Dante due egloghe assai belle, le quali furono intitolate e
mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro
Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra volta è fatta
menzione.
Compuose ancora un
comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue canzoni
distese, comeché egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il
cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o per mutamento di
proposito o per mancamento di tempo che avvenisse, piú commentate
non se ne truovano da lui; e questo intitolò Convivio,
assai bella e laudevole operetta.
Appresso, giá vicino
alla sua morte, compuose uno libretto in prosa latina, il quale egli
intitolò De
vulgari eloquentia,
dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire
in rima; e comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in
animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne
facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú
non appariscono che due solamente.
Fece ancora questo
valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino, delle quali ancora
appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate
assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita
Nova
appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial menzione al
presente.
In cosí fatte cose,
quali di sopra sono dimostrate, consumò il chiarissimo uomo quella
parte del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose
lacrime, alle sollecitudini private e publiche e a' vari fluttuamenti
della iniqua fortuna poté imbolare: opere troppo piú a Dio e agli
uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine
e' tradimenti, li quali la maggior parte degli uomini usano oggi,
cercando per diverse vie un medesimo termine, cioè il divenire
ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea.
Oh menti sciocche, una brieve particella di una ora, separará dal
caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche
annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o
annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno
spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta certo
non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici
addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá
del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre
diventerá piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue
vanitá, e bastigli l'esser lasciato fare, senza volere, con
riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare
andar mordendo.